Sei passaggi sulla crisi di governo e la nuova stagione politica

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Beyond the hedge: an even darker night [in English]

La caduta di Draghi è stata imprevedibile, ma non inattesa. Quel governo presidenziale si era già logorato a febbraio, nel fallimento di un bonapartismo debole. È stato allora messo all’angolo dalle contrapposizioni sociali sviluppate dalla guerra in Ucraina e dall’acutizzazione della crisi. Le elezioni del 25 settembre determineranno molto probabilmente una vittoria del campo reazionario: un blocco solido (formato su consenso significativo e la capacità di costruire senso comune), senza egemonia (senza una politica organica, una diversa gestione capitalista della crisi, la capacità di convincere il grande capitale) e quindi disarticolato (con faglie non solo tra le diverse forze, ma anche trasversali ai principali partiti). Il campo largo progressista è stato diviso dal governo e dall’Agenda Draghi, con un PD di nuovo sospinto in un alveo liberaldemocratico ma sempre incompiuto, una sinistra riformista inane e subordinata, un centro che si accredita draghiano e spera di scompaginare prima o poi le carte, un movimento 5 stelle che persegua la sua natura trasformista e in fondo reazionaria. La sinistra di opposizione si ricompone (parzialmente) sotto le insegne di De Magistris e di un unione popolare, in una caricatura dell’esperienza di Mélenchon, superando ogni riferimento al lavoro (le contraddizioni e i conflitti di questo modo di produzione) e alla sinistra (a partire da colori e simboli). Così, ingabbia le aspirazioni trasformative in un perimetro costituzionale e nell’esperienza della giunta napoletana. La sinistra di classe, allora, evapora: quella riformista sommersa dall’impianto liberaldemocratico, quella di opposizione inglobata in un pluralismo antagonista alla Laclau, quella stalinista affogata nel populismo novax, mentre le forze anticapitaliste si disperdono su diversi progetti, spesso autoreferenziali. Il decennio di instabilità politica dopo la Grande Recessione, segnato da una grande crisi e una persistente stagnazione del paese, si chiude quindi nel segno di una stabilizzazione reazionaria e conflittuale (una maggioranza parlamentare e un consenso in grado di imporsi conflittualmente), con un ulteriore e profondo arretramento nei rapporti tra le classi e nella coscienza politica di massa. Oltre la siepe del 25 settembre, allora, sarà necessario ripartire. Scansare ogni tentazione a riproporre grandi alleanze democratiche contro le destre. Organizzare il nostro scontento, cioè gli interessi e le rivendicazioni di classe, facendoli emergere nelle prossime resistenze. Rilanciare percorsi di mobilitazioni in grado di coinvolgere la moltitudine del lavoro e della sinistra, cioè, fronti unici di massa e di classe che coinvolgano anche i settori riformisti. Soprattutto, però, nel quadro della guerra in Ucraina, dello sviluppo delle contrapposizioni interimperialista, dei processi di nazionalizzazione di massa, provare nuovamente a tessere un polo di classe, a partire da una politica disfattista e antimilitarista. Tutto questo ci racconta di un autunno complicato, in una notte sempre più buia. Come rialzarsi da questi dieci anni di sconfitte diventa infatti sempre più la domanda cruciale che tutti/e dobbiamo porci.

SOMMARIO

  1. L’uscita di scena di un bonapartismo debole. 
  2. Un campo reazionario solido, senza egemonia e disarticolato.
  3. La divisione del campo largo e la sua generale confusione politica.
  4. L’Unione Popolare, oltre la sinistra.
  5. L’insussistenza del campo classista.
  6. Oltre la siepe, resistere.

L’atto conclusivo dell’esecutivo Draghi è stato imprevedibile, per certi versi sorprendente, ma non inatteso. Il gioco politico e parlamentare della crisi di governo (l’apertura dei 5 stelle, la mano di chiusura di Berlusconi e Salvini, la discussione e il surreale voto al Senato) ha sicuramente spiazzato la maggior parte degli osservatori e forse persino diversi partecipanti. In pochi giorni è precipitata un’improvvisa crisi estiva e si sono calendarizzate elezioni anticipate per il 25 settembre (mai viste in autunno nella storia della Repubblica, l’unico esempio a mia memoria è il 16 novembre 1919). Questo voto è segnato da una rapida ricomposizione del fronte reazionario e un altrettanto veloce scomposizione di quello progressista, dopo l’opposto segnale arrivato nelle recenti elezioni amministrative. Tutti o quasi (media, padronato, sindacati e soggettività sociali) si stavano in realtà preparando a dispiegare in autunno molteplici iniziative per ottenere risorse per le proprie priorità (rischi recessivi, risposta all’inflazione su salari o costi produttivi, bonus e superbonus, scuola e sanità) e per incidere sugli ultimi provvedimenti in discussione nella legislatura (legge di bilancio, sviluppo del PNRR, autonomia differenziata, salario minimo). Una dinamica con cui molti, dentro e fuori i Palazzi della politica, speravano di configurare il terreno e quindi indirizzare l’esito di un appuntamento elettorale primaverile che, apparentemente, sembrava incerto. La precipitazione elettorale ha quindi preso quasi tutti in contropiede. Eppure, la crisi è stata così rapida proprio perché, in qualche modo, si stava accumulando da tempo una pressione lungo linee di faglia già tracciate.

1. L’uscita di scena di un bonapartismo debole. 

Le condizioni di questa crisi si erano già determinate da diversi mesi. La scadenza del [primo] settennato di Mattarella all’inizio del 2022 era infatti l’inevitabile snodo di un governo presidenziale. L’esecutivo Draghi era nato un anno prima, con un premier ed un perimetro programmatico eccezionalmente indicato direttamente dal Quirinale, non da una maggioranza parlamentare, in ragione di una sbandierata emergenza e quindi di una presunta impossibilità di votare (pandemia e PNRR). Così, un esecutivo composto dal Presidente del Consiglio più che da rappresentanze parlamentari (Brunetta, Gelmini, Colao, Franco) ha formato un’innaturale unità nazionale, dalla Lega ad Art.1, con un’opposizione limitata a Fratelli d’Italia, la sparuta pattuglia rimasta in Sinistra Italiana (Fratoianni e l’ex-pentastellata Fattori), Alternativa e altri usciti 5stelle (compresa Manifesta). In primo luogo, era allora ovvio che un governo di natura presidenziale avrebbe avuto un momento di verifica e possibile messa in discussione con un nuovo Presidente, attraverso cui si sarebbe potuta configurare anche una maggioranza parlamentare diversa da quella che sosteneva Draghi. In secondo luogo, la natura eccezionale del governo avrebbe potuto esser coronata dall’elezione dello stesso Draghi, delineando così un passaggio che da una parte avrebbe inverato compiutamente l’unità nazionale (garantendo il proseguo dell’esperienza di un esecutivo presidenziale, con un premier a quel punto individuato proprio da Draghi), ma dall’altro avrebbe probabilmente trasformato il profilo politico istituzionale della Presidenza della Repubblica.

Proprio questa duplice prospettiva aveva determinato la rielezione di Mattarella. Così si è infatti evitata sia l’elezione di Draghi (un’ipoteca di lungo respiro sull’assetto del paese), sia la configurazione di una maggioranza politica (una condizione posta dallo stesso Draghi). Svicolando in qualche modo una crisi a febbraio. Una parte di protagonisti e osservatori si era però illuso di poter congelare questi assetti sino alla prossima primavera, magari proiettandone l’ombra anche sulla nuova legislatura. Ad esempio, riproponendo subito dopo le elezioni la candidatura di Draghi per la successione a Mattarella, permettendogli di liberarsi del gravoso fardello della Presidenza una volta che fossero venute meno le ragioni della sua rielezione. A quel punto, però, l’eventuale presidenza Draghi avrebbe assunto un significato diverso: espressione di un nuovo Parlamento, non di un mandato sopra le diverse parti autonomo dalla dialettica politica. In alcuni circuiti dell’establishment, forse anche istituzionali come i corridoi quirinalizi, c’è chi dice fosse coltivato il disegno di comporre un campo politico centrista, draghiano, usando a questo scopo proprio l’autunno e l’inverno, la modulazione dell’azione di governo e la definizione di una nuova legge elettorale: un campo che, anche con numeri limitati, fosse magari in grado di scompaginare anche nella prossima legislatura la possibilità di maggioranze politiche (anche solo in una delle Camere), quindi potesse porre le condizioni di una rinnovata continuità del governo uscente e poi, superati i venti di crisi e assicurato il PNRR, permettere il coronamento presidenziale di Draghi. Fuochi fatui: disegni astratti dai processi di massa, dal sangue e dalla merda della politica, forse non inessenziali nella stessa precipitazione della crisi. In ogni caso, le basi del governo si sono erose proprio a febbraio, logorate dal fallimento presidenziale di Draghi e dalla chiusura della legislatura, che inevitabilmente chiamava ad un protagonismo dei campi politici destinati a contrapporsi alle urne. 

La difficile primavera ha stabilizzato l’esecutivo, ma ha aumentato la pressione sul governo. Lo scoppio della guerra in Ucraina, la tessitura di schieramenti internazionali contrapposti, la crisi energetica, l’inflazione, le politiche monetarie restrittive (prima della FED e poi inevitabilmente anche della BCE) e i nuovi venti di recessione hanno rilanciato le ragioni emergenziali di un governo presidenziale. Così, dopo febbraio non solo l’esecutivo ha tenuto, ma si è rinnovata la sua legittimità e quindi l’influenza sulle dinamiche parlamentari. Non a caso in primavera il governo ha agito molteplici forzature su provvedimenti contrastati (dalla riforma del CSM al DL Concorrenza). Un’illusione di forza, più che un reale consolidamento, per la crescita nel paese di tensioni politiche e sociali. L’improvvisa precipitazione della congiuntura ha infatti rilanciato le divergenze nel paese: le linee di faglia della Grande crisi (debito ed espansione della liquidità, inflazione in USA e in Europa, sperequazioni nei mercati mondiali, frammentazioni produttive) sono state acuite e quindi generalizzate dal conflitto ucraino. Così partiti e movimenti politici, in relazione ai loro diversi radicamenti, sono stati sospinti a sostenere politiche di intervento sulle loro diverse priorità: le fragilità di un sistema produttivo basato sulle esportazioni, la tenuta dei costi in alcuni settori produttivi, lo sviluppo di sacche di povertà ed emarginazione, la questione salariale per il lavoro dipendente, ecc. Il calendario elettorale e la crisi economica si sono quindi intrecciate, consumando lo spazio dell’unità nazionale.

Draghi cioè ha avuto ancora margini, ma il tempo delle contrapposizioni si stava imponendo. Il rimbalzo post pandemico e una politica di spesa sorretta dal PNRR e dal Bilancio (la coda dei 170 miliardi di interventi degli ultimi due anni) hanno trainato una ripresa molto significativa: +6,6% del PIL nel 2021, superiore alla UE (5,4%), agli USA (5,7%) e persino a quella mondiale (6,1%). Un abbrivio arrivato sino ad oggi, nel secondo trimestre 2022 (4,7% annuo), sospinto dalla domanda interna (superbonus edilizi) e dall’occupazione. Questa ripresa è stata comunque segnata da contraddizioni e conflitti: non a caso persino la CGIL ha proclamato uno sciopero generale lo scorso dicembre. Queste tensioni sono però rimaste frammentate, anche per la stessa azione della CGIL che non ha sviluppato la mobilitazione, mentre lo sciopero unitario del sindacalismo di base è rimasto molto limitato e la convergenza si è sostanzialmente contenuta a quella promossa del collettivo di fabbrica GKN il 26 marzo. In ogni caso, l’emergenza gas, l’8% annuo di inflazione (10% per i redditi più bassi), le prospettive di una recessione globale, il possibile intreccio di queste dinamiche nella prevista campagna elettorale 2023 hanno progressivamente aumentato le pressioni sul governo. Al di là delle capacità del Presidente del Consiglio [Se Draghi alla fine deciderà di andarsene sarà perché non ha né la cultura, né gli strumenti, per affrontare la crisi sociale che colpisce il Paese, Andrea Ranieri, il manifesto, 20 luglio], in realtà è stata una sua volontà quella di non farsi carico della mediazione tra queste domande sociali, evitando quindi una rifondazione politica della sua maggioranza (come emerge dallo stesso discorso al Senato e dalla replica del 20 luglio). Draghi infatti si è sempre interpretato come un governo eccezionale [nella vera e propria accezione di stato di eccezione], a cui i partiti avrebbero semplicemente dovuto affidargli la guida del paese.

Un’aspirazione bonapartista. In una fase di crisi generale, quando le classi dominanti sono divise tra diverse frazioni, interessi e strategie di accumulazione, può imporsi nell’agone politico un soggetto autonomo, indipendente cioè dalle rappresentanze di queste frazioni e delle sue diverse parti (partiti e movimenti politici). Questo soggetto non risponde ad immediate esigenze di consenso e non ha quindi la necessità di comporre un blocco di riferimento, ma si propone di individuare soluzioni e di imporle in nome del cosiddetto interesse generale (per meglio dire, in nome della riproduzione dell’attuale modo di produzione e dei relativi rapporti sociali). Cioè, in questi frangenti c’è una spinta ad usare le risorse e il potere dello Stato, in modo autoritario, per costruire una stabilizzazione, anche attraversano la riconfigurazione degli equilibri nelle classi dominanti, la ristrutturazione del sistema produttivo e quindi una diversa composizione tra le frazioni del capitale. Un governo bonapartista, allora, non è espressione dei poteri forti, del grande capitale o più in generale del padronato: al contrario, è un potere che si autonomizza (almeno parzialmente), senza specifici riferimenti politici e sociali, proprio per riorganizzare produzione e assetti sociali, in funzione di settori di capitale minoritari, o comunque non egemoni, nel quadro delle stesse classi dominanti.

Un decennio di crisi e tentativi cesaristi. La Grande recessione e il conseguente decennio di stagnazione (con un calo di quasi il 10% del PIL) hanno ridotto di oltre il 20% la capacità produttiva dell’Italia. Si è così scomposto il salotto buono e frammentato il grande capitale: alcune grandi imprese sono cresciute (Poste, Ferrero, Fincantieri), diverse hanno ridotto fatturato e manodopera (Eni, Enel, TIM), certe hanno dato vita a multinazionali (Luxottica, Atlantia), altre ne sono state acquisite (Fiat/FCA, Pirelli, Italcementi) o sono scomparse (da Alitalia a Parmalat). A fianco è cresciuto un quarto capitalismo, aziende tra 1 e 3 mld di fatturato proiettate sui mercati internazionali (Mapei, Brembo, Calzedonia, Lavazza). Nel contempo, il blocco d’ordine delle classi medie (base sociale di berlusconismo, defiscalizzazioni e federalismo) si è anch’esso disfatto: larga parte della piccola impresa è stata travolta (crollo dei consumi, restrizione del credito, impossibilità di svalutare), come il piccolo commercio (a causa di grande distribuzione e internet) e alcuni settori professionali (sussunti da nuove imprese di servizi); però altri ceti professionali, tecnici e dirigenziali hanno migliorato le proprie condizioni, secondo ISTAT alcuni milioni con una buona educazione e un buon tenore di vita. Queste disarticolazioni nel blocco centrale della politica italiana, a fronte di una parallela scomposizione della classe lavoratrice, ha sviluppato movimenti antipolitici e reazionari (5 Stelle, Lega, Fratelli di Italia). Così, è diventato sempre più difficile comporre maggioranze parlamentari, in un decennio dominato da governi tecnici, larghe intese, unità nazionali segnati da protagonismi personali e propensioni decisioniste (Monti, Renzi, Conte). Questi semibonapartismi hanno provato a forzare gli equilibri sulla base di un ruolo personale ed hanno fallito uno dopo l’altro (Monti e poi la sua coalizione alle elezioni 2013; Renzi e il suo referendum costituzionale nel 2016; Conte, la caduta del suo governo e poi il crollo dei 5stelle).

Draghi ha interpretato forse il tentativo più insidioso. A lui è stato infatti affidato un vero e proprio mandato emergenziale, con un punto di forza che lo distingueva dai precessori (come ha sottolineato più volte Monti): la disponibilità di ampie risorse (PNRR e non solo) e di una politica economica espansiva (bassi tassi di interesse e possibilità di deficit). Anzi, il suo governo è nato proprio con il mandato di gestire questi strumenti per accompagnare il rilancio dopo la recessione pandemica. Questa congiuntura poteva allora esser usata proprio per interpretare pienamente un ruolo bonapartista, indirizzando la ristrutturazione produttiva del paese e costruendosi una propria base sociale. Draghi aveva poi una prospettiva ulteriore, in grado di assicuragli un ruolo per diversi anni: la conquista della Presidenza della Repubblica. Da quella posizione istituzionale avrebbe infatti acquisito la possibilità di plasmare le politiche sopra le diverse fazioni. In primo luogo, avrebbe potuto sorvegliare la composizione del governo: Mattarella nel 2018 ha dimostrato come fare [caso Savona], forzando una prerogativa costituzionale contro l’amplissima maggioranza gialloverde. In secondo luogo, e forse soprattutto, avrebbe potuto indirizzare l’azione di governo, agendo la stessa forzatura interpretativa a tutto campo, a partire dalla promulgazione delle leggi e dalle relazioni internazionali sulla base dell’articolo 87 della Costituzione, invertendo in qualche modo il senso e lo spirito dell’articolo 89.

 Comunque, il suo è stato un bonapartismo debole, contenuto e alla fine sconfitto. Lo abbiamo segnalato subito: nonostante Draghi avrebbe potuto rappresentare il tentativo più strutturato del decennio, nonostante la forza della congiuntura e del PNRR, il suo profilo rimaneva minore. Le svolte bonapartiste, proprio per la loro relativa autonomia dalle diverse frazioni delle classi dominanti, si caratterizzano infatti per esser condotte da apparati forti dello stato (spesso l’esercito), in grado di usare quella forza per incidere sull’organizzazione sociali e quindi poi garantirsi anche un consenso (basato spesso su personalità e politiche clientelari). A Draghi, come ai precedenti cesarismi, sono mancati alcuni fattori cruciali in grado di sorreggere questa aspirazione.

  • È mancato un solido apparato dello stato: l’establishment tecnocratico finanziario, dal quale Draghi proviene e che lo ha sostenuto, non ha una sua struttura autonoma e radicata, in grado di schierarsi e spostare equilibri sociali, per quanto possa esser pervasivo negli uffici di gabinetto e in quelli legislativi dei diversi ministeri (dove pesa l’influenza di Bankitalia e del MEF, il Ministero dell’Economia e della Finanza), come in alcuni salotti e circuiti intellettuali della capitale (dove pesano le opinioni dell’apparato europeo).
  • È mancata una riorganizzazione sociale: Draghi ha cioè imposto scelte e provvedimenti, ma non ha delineato e sviluppato un nuovo blocco dominante. A esempio il PNRR, con il suo impianto ordoliberale (infrastrutture, servizi, scuola, università), è stato segnato soprattutto da interessi territoriali, settoriali o parziali, senza un reale respiro strutturale [l’assenza di una sua osservazione, analisi e critica rivela l’attuale sbandamento della sinistra politica e sindacale, incapace di leggere cosa sta avvenendo nel capitale].
  • È mancato il consenso: nonostante gli apprezzamenti (e forse un po’ per quelli, confondendo immagine e realtà), Draghi non ha mai cercato un sostegno di massa. La frase più surreale nel discorso del 20 luglio è quella in cui segnala che la mobilitazione di cittadini, associazioni, territori a favore della prosecuzione del Governo è senza precedenti e impossibile da ignorare. In realtà, ci sono state solo sparute manifestazioni, l’appello di qualche centinaio di sindaci, poche dichiarazioni del sottobosco istituzionale (come la CRUI).

Così, senza un pieno dispiegamento di una svolta bonapartista, anche l’opzione di sorveglianza del sistema dalla Presidenza della Repubblica è rapidamente tramontata. Una radice di questa debolezza è nelle contraddizioni dell’Unione Europea e nella faglia produttiva che attraversa il paese (alcuni territori settentrionali sostanzialmente integrati nel nucleo mitteleuropeo, alcuni territori meridionali saldamente nella periferia). Le diverse frazioni delle classi dominanti italiane si appoggiano infatti a contrapposte tendenze europee (centripete e federaliste, sospinte dalla competizione internazionale; centrifughe e nazionaliste, sospinte dalla molteplicità degli imperialismi europei), trovando in queste la forza per strutturarsi e quindi erodere i tentativi cesaristi che si ripetono.

 2. Un campo reazionario solido, senza egemonia e disarticolato. 

Le elezioni anticipate sono un’occasione per la reazione. Scomposto il campo largo, la destra si è ricucita sulla scelta di far cadere Draghi, riuscendo quindi a definire una procedura condivisa per l’individuazione del premier, possibili assetti e un primo nucleo programmatico. La divisione tra PD, Azione e 5Stelle ha già delineato il probabile risultato parlamentare (vedi il rapporto dell’Istituto Cattaneo), dal quale sarà difficile che alla fine ci si discosti sostanzialmente. A vincere, in ogni caso, non sarà il centrodestra. Perché il campo reazionario che si è andato a comporre in questi anni non può più esser definito centrodestra. Le uscite da Forza Italia di Brunetta, Gelmini e Carfagna (oltre altri deputati) non raccontano solo parabole personali, comunque simboliche: sottolineano la difficoltà di settori liberali e conservatori al prevalere della destra nazionalista di Fratelli d’Italia e della Lega per Salvini. Nonostante la storia, le iconografie e le basi sociali, queste organizzazioni non sono fasciste, in quanto non si fanno carico di un’organizzazione della violenza (milizie e contrasto armato delle forze di classe) e di un ruolo eversivo degli attuali assetti democratici (proprio per annullare l’espressione politica della classe). Una tale funzione, al fondo, è inutile a causa dell’attuale disorganizzazione politica e sociale della classe. Il loro impianto è comunque reazionario, in quanto a partire da ceti medi e intermedi minacciati dalla crisi, prospettano una soluzione comunitaria (nazionalista e identitaria) che nega la contrapposizione fra diversi interessi sociali (a partire da quelli di classe) e investe lo Stato di una funzione autoritaria di gestione della crisi. Così, questi partiti negli ultimi anni hanno sviluppato e stabilizzato un consenso reazionario intorno al 40% dell’elettorato. Alle politiche 2013 la Lega ha preso il 4,09%, FdI 1,96%, la Destra 0,65%, Forza Nuova 0,26%, la Fiamma Tricolore 0,13%, Casapound 0,14%, per un totale di 2,5 milioni di voti. Alle europee 2014 la Lega ha conquistato il 6,15% e FdI 3,67% (non c’erano altre liste), per un totale di quasi 2,7 milioni di voti. Alle politiche 2018 la Lega ha raggiunto (superando Forza Italia) il 17,35%, FdI 4,35%, Casapound 0,95%, Italia agli Italiani 0,39%, per un totale di 7,5 milioni di voti. Alle europee 2019 la Lega primeggiava con il 34,26%, FdI 6,44%, Casapound e FN solo uno 0,5% complessivo, per un totale di oltre 11 milioni di voti. Tra 2018 e 2019, cioè, si è realizzato uno sfondamento che ha assorbito lo spazio politico dell’estrema destra (la quale, come si è visto, negli ultimi anni si è per la maggior parte ritirata dal terreno elettorale, spesso decidendo di candidare suoi esponenti nelle forze reazionarie, talvolta camuffandosi in movimenti sovranisti e novax). La Lega ha sicuramente conosciuto da allora un importante declino (dimezzando e forse più il suo voto alle ultime europee), ma Fratelli di Italia si è parallelamente espansa. Nel suo insieme, il consenso reazionario è rimasto stabile: nelle attuali rilevazioni FdI è data al 23%, la Lega al 14% e Italexit è al 2,8% (con un profilo nazionalista e novax). 

Uno sfondamento popolare. Come mostrano diverse analisi (ad esempio sulla Lega, il voto 2018, la provincia italiana, lo storico bacino rosso dell’Emilia Romagna), Lega e Fratelli di Italia hanno mantenuto i loro tradizionali riferimenti sociali (ceti medi, piccoli imprenditori, professionisti, commercianti, borghesia impiegatizia), ma hanno avuto la capacità di penetrare anche aree periferiche e marginali (la provincia profonda, pensionati/e, casalinghe, disoccupati e inoccupati), classi subalterne e lavoro dipendente, persino la classe operaia organizzata. Lo sfondamento reazionario si è cioè basato sulla sua capacità di farsi popolare, a fronte di una sinistra marginalizzata e un centrosinistra circoscritto alle ZTL. Una dinamica evidente nella conquista di quartieri, paesi e città storicamente rossi, non solo per tradizione ma anche per composizione sociale: pensiamo a Piombino, Terni, Pistoia, Sesto San Giovanni, Pisa, Siena, Imola. Lo si vede anche nella cartina dei collegi blindati, anche quella che unisce PD e Terzo Polo: fuori dall’onda reazionaria (dominante al nord, nei dintorni del Lazio, in Sicilia, Puglia e Calabria meridionale), rimangono roccaforti del centrosinistra solo a Firenze, nella città diffusa emiliana (in particolare bolognese), nel livornese e nei centri storici delle aree metropolitane (Torino, Milano, Roma in particolare), mentre sono in discussione le borgate romane, i quartieri popolari torinesi a nord della città, la cintura meneghina. Certo, diversamente da altri contesti (pensiamo all’argentina peronista) i movimenti reazionari non hanno un radicamento organizzato nella classe lavoratrice, anche se proprio negli ultimi anni è stata evidente la loro nuova capacità di interloquire con settori del lavoro (ad esempio il precariato della scuola e i suoi comitati, in una categoria che non guardava a destra da almeno un cinquantennio). In questo sfondamento, come risulta dagli studi sopraindicati, ha avuto un ruolo transitorio il movimento 5 stelle, con un impianto qualunquista che ha ribaltato identità e configurazioni storiche (pensiamo al voto tra gli iscritti CGIL o la scelta di alcuni settori del sindacalismi di base). Così, proprio nel biennio 2018/19, intorno al governo giallorosso, alle politiche razziste e ai suoi temi sociali (pensioni e reddito di cittadinanza) si è consolidato questo consenso reazionario.

Una vittoria probabile. Con questa legge elettorale e la riduzione dei collegi (voluta dai 5 Stelle e votata dal PD) la vittoria della destra è quasi scontata. Quasi: in un quadro frammentato, con diffuse tentazioni astensioniste e fluidità di appartenenze, è sempre un errore dare per acquisiti gli esiti elettorali. In ogni caso, le previste elezioni a primavera avrebbero comunque avuto il polo reazionario come soggetto favorito, anche a fronte della tenuta del campo largo e di un’eventuale revisione delle legge elettorale. Certo, gli esiti parlamentari sarebbero stati più incerti, soprattutto con norme proporzionali (proprio per questo improbabili senza un qualche riequilibrio), ma si sarebbe dovuto comunque fare i conti con il consenso delle due forze reazionarie. Le aspettative innescate dalle ultime amministrative (la facile vittoria romana per il centrosinistra; la sua riconquista di Piacenza, Alessandria e Lodi; le disfatte della destra a Verona, Catanzaro e Monza) non erano cioè fondate, basandosi su specifiche debolezze di Lega e Fratelli di Italia poco generalizzabili, come emergeva delle stesse conferme reazionarie a Genova, Palermo, Pistoia, La Spezia, Sesto San Giovanni. Una vittoria delle destre il 25 settembre, in ogni caso, segnerebbe una svolta politica. Da un decennio manca in Parlamento una maggioranza espressione di una coalizione elettorale: il suo concretizzarsi permetterebbe soluzioni che ad oggi possono sembrare poco credibili a molteplici settori delle classi dominanti. I numeri parlamentari le imporrebbero nei fatti. Così, probabilmente vedremo Berlusconi al Senato con un ruolo preminente, Meloni a Palazzo Chigi e Salvini al Viminale.

Una reazione solida. La vittoria della destra comunque non si limiterebbe alla conquista di queste posizioni. Questa coalizione si presenta con un’ipotesi di revisione istituzionale coerente con le aspirazioni bonapartiste di una parte dell’establishment e con le articolate esigenze dei diversi capitalismi territoriali (presidenzialismo e autonomia differenziata), una politica con una presa sulle proprie basi sociali (quota 100, defiscalizzazioni, revisione del reddito cittadinanza, misure securitarie e razziste), un’azione conservatrice sui diritti civili che rispecchia i valori e il sentire del proprio elettorato (lgbtq+, matrimoni civili, eutanasia, proibizionismo, magari aborto). Cioè, nelle sue prospettive immediate l’azione di governo potrà anche innescare divisioni nel paese, una risposta popolare e forse anche dissensi rilevanti, ma potrebbe da una parte accogliere alcune domande delle classi dominanti, dall’altra consolidare lo stesso consenso reazionario nelle proprie basi sociali. Si delinea ad oggi cioè la possibilità di una stabilizzazione conflittuale, segnata appunto da una prevalenza reazionaria che attraverso il controllo di governo e Parlamento potrebbe imporsi con scelte autoritarie, in grado di sconfiggere le altre parti politiche e sociali.

Certo, il blocco reazionario non è prevalente nel paese, ma potrebbe esser dominante. Se il 25 settembre confermasse o superasse il 40% dei voti, il suo peso sulla popolazione non sarebbe maggioritario. Alle ultime politiche (2018) ha votato il 72,9%, alle ultime europee (2019) il 56,1%, alle ultime regionali (2020) il 57,9%. Il 40% del 70% è il 28%: possiamo quindi ritenere che il consenso reazionario, alla fine, si avvicini ma nemmeno raggiunga un terzo della popolazione. È comunque una massa non priva di conseguenze. Nei processi sociali, infatti, quando una componente raggiunge una certa dimensione, può sviluppare un senso comune: le sue espressioni possono cioè diventare punto di riferimento anche per chi non sente quell’appartenenza o non è convinto di quell’impostazione. Quando non si palesa un contraltare altrettanto significativo, quel pensiero (anche se minoritario) può allora esser in grado di plasmare le rappresentazioni collettive, diventare norma sociale, con un’influenza a quel punto generale. Si può discutere su quali dimensioni siano necessarie per innescare un simile processo (alcuni hanno pensato alla sezione aurea). In ogni caso, un terzo è una massa che rende consapevoli della propria forza, permette di non sottostimare la propria influenza, sviluppa l’idea di porsi come componente dominante. Una dinamica che si afferma soprattutto quando la gestione del potere (governo, parlamento, istituzioni) gli permette di diventare l’asse di riferimento dei media e indirizzare il dibattito pubblico. Un effetto che in fondo abbiamo già sperimentato con il governo gialloverde. La forza di un campo reazionario di governo, del resto, l’abbiamo vista con Modi, Orban, Kaczyński e Trump (nonostante la sua sconfitta, anzi proprio con la sua sconfitta, nella pervasività della sua influenza).

Una gestione capitalistica della crisi liberale e logorata. Questo campo reazionario, nonostante la probabile vittoria, manca però di una politica organica e di una reale capacità di egemonia. La gestione capitalistica della grande crisi nell’ultimo quindicennio è infatti rimasta neoliberale, non stravolgendo né i modelli di accumulazione dominanti, né la dimensione finanziaria globale che le governa. Anzi, proprio in questo decennio si è moltiplicato il debito globale, con una liquidità senza precedenti messa a disposizione da Banche centrali e politiche monetarie, arrivando oltre i 300mila miliardi di dollari (più di tre volte il PIL mondiale). Certo, questa gestione mostrava la corda già prima della pandemia. Da diversi decenni la dinamica capitalista ha conosciuto una divaricazione tra tassi di profitto, accumulazione e produttività (Husson, 2014), con lo sviluppo di controtendenze rivolte a comprimere il salario globale, indirizzare la spesa pubblica a sostegno del capitale (una sorta di keynesismo imprenditoriale, senza capacità di rilanciare la domanda aggregata), espandere la finanziarizzazione e sviluppare un crescente ruolo del debito privato (una sorta di sussunzione reale del lavoro alla finanza entro un money manager capitalism, secondo Bellofiore e Vertova, 2014). La Grande recessione ha imploso questo precario tentativo di evitare la crisi (vedi Adam Tooze in Lo Schianto, 2018). L’incapacità, nel punto inferiore di un onda lunga, di determinare le condizioni di un rilancio del ciclo senza una massiva distruzione di capitale (più o meno creativa) ha quindi prodotto nell’ultimo quindicennio una gestione della crisi segnata da un continuo rilancio delle stesse politiche che la sottendono: una coerenza instabile (Husson, 2012) con aumento dello sfruttamento (riduzione salari, intensificazione lavoro, aumento degli orari), finanziarizzazione e sovraindebitamento, a cui possiamo aggiungere l’uso sempre più rilevante di una spesa pubblica diretta all’impresa, con una matrice mercantilista. In ogni caso questa gestione della crisi è instabile, incapace di superare le tendenze depressive e messa in discussione dalla competizione imperialista, dal rallentamento del commercio mondiale e dal parziale arretramento della globalizzazione. Le nuvole di una nuova recessione erano infatti ben visibili all’orizzonte prima del marzo 2020.

 L’ulteriore acuirsi delle contraddizioni. La pandemia e la conseguente profonda recessione mondiale hanno stravolto questa dinamica in un contesto emergenziale, che per certi versi ha riprodotto alcune sue tendenze, per altri versi ha sviluppato un nuovo intervento pubblico sull’economia. Oltre ad un massivo rilancio degli investimenti monetari, che hanno portato ad una ricomposizione degli stessi asset delle banche centrali, è da sottolineare il rilancio della spesa pubblica, anche sociale, con un intervento straordinario che per alcuni ha complessivamente superato i 17mila mld di euro, in ogni caso con un balzo sul PIL nei diversi paesi. La spesa italiana ha superato i mille mld di euro, a fronte di un PIL di circa 1.880 mld. Questa dinamica ha acuito le contraddizioni con il massiccio rimbalzo post pandemico, portando ad evidenti squilibri sui mercati ed una ripresa dell’inflazione, molto significativa negli USA (secondo alcuni proprio per il rilancio della domanda). La guerra in Ucraina ha ulteriormente sospinto tendenze e controtendenze: da una parte alzando i costi delle materie prime (in particolare dell’energia) e quindi l’inflazione generale (innescando politiche monetarie restrittive e una prossima probabile recessione), dall’altro incentivando un nuovo intervento statale, nei settori strategici (vedi EDF in Francia) e nella contrapposizioni tra blocchi imperialisti.

La difficoltà a configurare una nuova coerenza instabile. Le diseguaglianze, le contraddizioni e l’inefficacia di questa gestione capitalistica hanno posto da tempo l’esigenza di una diversa politica, in particolare nelle classi sociali che più l’hanno subita (compresi ceti medi ed intermedi che hanno misurato la precarietà della loro condizione). L’assenza di un’alternativa di classe (per la disorganizzazione e l’arretramento del lavoro, la marginalizzazione della sinistra, la capitolazione e poi la sconfitta dell’unica apparente resistenza di massa e di governo, SYRIZA tra 2012 e 2016), l’acuirsi delle contrapposizioni internazionali e il nuovo ruolo delle politiche pubbliche hanno rilanciato le aspettative di una svolta popolare, nazionalista e reazionaria. È apparsa cioè plausibile la definizione di una nuova coerenza instabile, una gestione alternativa della crisi, con una chiusura delle economie nei blocchi continentali di riferimento, una ripresa di politiche keynesiane della domanda (in competizione tra loro), un rinnovato protagonismo statale dal profilo totalitario, un’ulteriore compressione del salario globale inquadrata in politiche di divisione di classe e mobilitazione comunitaria (la percezione sociale di una protezione sociale su base professionale, territoriale o etnica). Una politica che appunto non supera le contraddizioni strutturali della crisi, ma semplicemente configura una loro diversa gestione capitalistica. La crescente contrapposizione imperialista rende credibile una simile risposta, che in qualche modo sembra già indirizzare realtà importanti (come India o Cina). In realtà, questa diversa gestione non si sta dispiegando. Dopo la massiva espansione emergenziale, in molti paesi si sta tornando all’austerità. La spesa militare (un elemento centrale di questa eventuale nuova coerenza instabile) ha raggiunto nel 2021 il suo valore più alto nella storia (oltre 2mila mld di dollari), con una crescita del 12% dal 2012. La guerra Ucraina rappresenta un’ulteriore importante passaggio (basti pensare ai 100 mld della Germania). Complessivamente, però, le spese militari rimangono ancora al 2% del PIL (4% per USA e Russia): un valore costante dagli anni ’90 e soprattutto molto inferiore a quello degli anni ’50 e 60’ (10% in USA, 8% in UK, sopra al 5% in Francia: la stagione dominata dal complesso militar-industriale e da politiche keynesiane sulla domanda aggregata).

Una reazione senza egemonia. Così, l’ascesa di Trump negli Stati Uniti non ha innescato un reale cambio di politiche economiche, nonostante la propaganda (Make America Great Again). Cioè, anche quando forze reazionarie e nazionaliste sono arrivate al governo, anche in paesi centrali (Xi in Cina, Abe in Giappone, Modi in India, Bolsonaro in Brasile, Orban in Ungheria, il PIS in Polonia), hanno portato avanti politiche di destra (migranti, sicurezza, compressione delle libertà civili, svolte autoritarie) e aggressive (Belt and Road Initiative, l’avvio del containment verso la Cina, il riarmo Giapponese, la Brexit, l’AUKUS), senza però sviluppare una diversa e organica gestione della crisi. Il problema è che larga parte del grande capitale non è convinto di una simile svolta: non solo la sua frazione finanziaria (banche e assicurazioni), ma anche una parte significativa di quella commerciale (grande distribuzione, piattaforme e.commerce), oltre che settori rilevanti della logistica (operatori globali del settore) e produttive (corporation IT, energetiche, automotive e servizi) che dominano le classifiche mondiali. Queste sezioni del capitale, infatti, nonostante tutto prosperano con questa gestione neoliberale, sfruttando l’integrazione dei mercati, le gerarchie del lavoro, gli investimenti finanziari (inquadrati nelle loro strategie di accumulazione, come ha rivelato un libro illuminante sulla FIAT negli anni ‘80). Al di là delle loro divisioni (tra settori e nazioni), queste frazioni preferiscono evitare radicali revisioni delle loro strategie di profittabilità e, pur con le attuali contraddizioni, non hanno interesse a sostenere svolte. Così le forze reazionarie sono guardate con diffidenza e, al limite, sono usate per portare avanti le attuali politiche. Contro la parte centrale delle classi dominanti è infatti difficile sviluppare una politica di governo, per qualunque assetto reazionario come per qualunque bonapartismo, che comunque inquadrano in una prospettiva nazionalista e autoritaria le gerarchie sociali dell’attuale modo di produzione. La precipitazione di una stagione di contrapposizione tra imperialismi e la possibile nuova recessione aprono forse l’orizzonte per dinamiche diverse. In un paese centrale dell’Unione Europea, ma dagli assetti capitalistici fragili e divisi, è però difficile che queste capacità egemoniche si impongano nel breve periodo.

 Una reazione disarticolata. Questo campo è allora solido, ma al contempo è scomposto. In primo luogo, nella competizione tra le diverse forze, a partire da quelle principali (Fratelli di Italia e Lega). Le amministrative 2020 e 2021, le diverse posizioni rispetto al governo Draghi, le tensioni di questa campagna elettorale lo rendono evidente. Non è solo il gioco competitivo tra Meloni e Salvini per la leadership del campo reazionario e la conquista della guida del governo. Sono due diversi circuiti che ci scontrano per la conquista di uno stesso spazio politico: il primo (FdI) è storicamente cresciuto nell’alveo della Destra nazionale e del MSI, a partire dalla rivendicazione della fiamma che si sprigiona dalla bara di Mussolini; il secondo (Lega) si è sviluppato coltivando le ipotesi autonomiste dei ceti imprenditoriali della padani, inseriti strutturalmente nel nucleo mitteleuropeo, e oggi si proietta con una declinazione razzista sull’insieme del paese. Senza dimenticare le residue forze liberali e conservatrici (organizzate in Forza Italia e nell’Unione di Centro), subordinate nei rapporti di forza, ma politicamente importanti proprio per la loro marginalità (per assicurarsi collegi e una copertura internazionale, vedi Tajani e il PPE). Questa dialettica si intreccia con altre disarticolazioni, interne ai diversi partiti. Forza Italia ha visto in questo passaggio l’uscita di larga parte della sua anima moderata, ma non tutta (vedi Tajani, ma anche l’ombra sempre presente di Gianni Letta). La Lega ha visto in questi anni una dialettica pubblica tra i suoi settori più nazionalisti (raccolti intorno a Salvini) e quelli liberal/imprenditoriali (che si sono espressi attraverso Giorgetti, Ministro dello Sviluppo Economico, e Zaia, Presidente del Veneto con quasi il 77% dei consensi). Anche Fratelli di Italia ha una simile faglia interna, sebbene meno evidente per il suo collocamento all’opposizione: l’attenzione di un certo establishment a Guido Crosetto, il profilo politico e istituzionale di La Russa (sebbene ex missino), le ipotesi sulla composizione del governo evidenziano comunque la presenza nelle sue fila di settori attenti ad interessi, pressioni ed equilibri del capitale. Nel caso di una vittoria, al di là di una fase immediata probabilmente segnata da politiche identitarie (i fatidici primi 100 giorni), il nuovo governo dovrà affrontare scelte dirimenti: il contrasto all’inflazione, la crisi energetica, la probabile recessione, l’eventuale prosecuzione e approfondimento della guerra, le linee di fragilità dell’Unione Europea (a partire da governance e politica fiscale comune), lo sviluppo di una politica continentale (in primo luogo energia e difesa). La legge di Bilancio sarà allora solo il primo banco di prova di una stagione inevitabilmente complessa. Le tendenze a sviluppare una politica nazionalista e popolare ed i limiti di una sua reale implementazione rischiano di rivelare e far divergere linee di faglia profonde, nell’assetto del campo reazionario ed entro le sue principali forze, prima ancora che nel suo blocco elettorale (come è stato per il governo gialloverde, tramontato più per le divisioni del suo quadro politico che per erosione di un consenso rimasto massiccio sino al suo tramonto).

3. La divisione del campo largo e la sua generale confusione politica. 

Un’estate teatrale di contese reali. La caduta del governo, la divisione tra PD e 5stelle, l’accordo cercato, mancato, siglato e poi rotto tra PD e Azione hanno assunto nel corso di questi mesi contorni melodrammatici, con esiti incerti e colpi di scena a ripetizione. In questa dinamica ha avuto un ruolo la particolare volatilità dell’attuale quadro politico, legato spesso a formazioni personali e a un ceto politico talvolta improvvisato, in cui si distinguono protagonismi e parabole individuali (da Di Maio a Conte, da Calenda a Renzi). Una vera e propria commedia all’italiana. Tutto questo è vero, ma in qualche modo è forma. Alle spalle di questa dinamica, al di là della polvere delle dichiarazioni e delle svolte di queste settimane, si possono individuare solide ragioni politiche: da una parte alcune questioni di merito, provvedimenti ed indirizzi economico sociali che hanno scavato i solchi su cui poi sono corse le divisioni; dall’altra, la stessa prospettiva elettorale, che in qualche modo ha obbligato a riportare al centro una funzione di rappresentanza, inevitabilmente radicata in schieramenti sociali (e che quindi risponde ad interessi, richieste e immaginari collettivi, non esclusivamente legati a quelli soggettivi dei protagonisti politici). Così, ad esempio, la spaccatura nella maggioranza di governo non è stata causata da elementi capziosi, incomprensibili o strumentali, ma si è aperta sulla costruzione del nuovo inceneritore a Roma, cioè sugli indirizzi di gestione della questione ambientale e della crisi energetica, rispetto a cui il governo Draghi non ha avuto una capacità di mediazione e proposta politica oltre la semplice imposizione del provvedimento (con la presenza, sullo sfondo, di una simile contesa e una possibile identica soluzione su reddito di cittadinanza e salario minimo). Così, ad esempio, i giorni di passione del Partito Democratico con Calenda e Fratoianni sono stati motivati dal confronto (e dalla reciproca competizione) per dare alla coalizione un asse e un assetto politico sociale: liberal-democratico (e quindi rivolto a ricomporre prioritariamente le rappresentanze dei ceti medi e delle diverse frazioni del capitale) o progressista (e quindi rivolto a ricomporre un blocco più ampio, con riferimenti al lavoro dipendente e alle tradizioni della sinistra). Per certi versi questa volatilità, questa drammaticità e questi colpi di scena sono solo l’espressione della particolare distanza che oggi, in una fase di grande crisi e fluidità sociale, segna il rapporto tra politica e classi. La generale disorganizzazione e scomposizione delle classi sociali (che in Italia interessa sia il grande capitale, sia i ceti medi, sia il lavoro), le riconfigurazioni a cui sono soggette in questa fase di Grande Crisi, rende complicato costruire forme e canali strutturati di rappresentanza. Questa stessa rappresentanza, comunque, si impone nei passaggi cruciali, costringendo a scarti improvvisi, svolte impensabili, scelte complicate. Lo abbiamo visto più volte in questa legislatura, con il succedersi di ben tre diverse maggioranze (gialloverde, giallorossa, unità nazionale), lo si è visto ieri a destra sulle amministrative, oggi nel campo largo sulle politiche.

Draghi ha diviso il campo largo progressista. Il governo di unità nazionale e la sua agenda hanno tracciato e poi divaricato le linee di frattura dell’ampia coalizione progressista composta con il governo giallorosso. A metà dello scorso decennio, Renzi aveva provato a sviluppare nel PD un impianto liberaldemocratico e contro il lavoro (scontro con la CGIL, Jobsact, revisione costituzionale), determinando la scissione di una parte significativa del gruppo dirigente storico (da D’Alema a Bersani in LEU). La netta sconfitta al referendum 2016 e poi quella alle politiche 2018 aveva portato Nicola Zingaretti alla guida del partito, con un profilo esplicitamente riformista, in cui indicava l’esigenza di un campo largo contro le destre (prima le persone, con un programma focalizzato su salario minimo, tutela dell’ambiente, diritti del lavoro, rilancio della spesa per scuola, sanità e ricerca). In un partito in cui oramai prevaleva l’impostazione liberaldemocratica, un consenso nelle classi sociali medio-alte, un’attenzione prioritaria alle esigenze del grande capitale europeista, Zingaretti ha cioè provato a riequilibrare l’asse riproponendo elementi socialdemocratici, aprendosi al cosiddetto popolo di sinistra: per far vivere questa impostazione, cioè, si è rivolto ad una piazza grande che avrebbe dovuto articolarsi anche in strutture oltre il perimetro del partito. Con la caduta del governo gialloverde nell’estate 2019 quel progetto si è compiutamente allargato ad una logica di alleanze, nell’ipotesi di consolidare sul fronte progressista la parabola reazionaria dei 5stelle: cioè ha provato a inglobare il movimento nella coalizione, nonostante le iniziali contrarietà e titubanze dello stesso Zingaretti. L’esecutivo presidenziale di Draghi ha però oggettivamente posto al centro un’altra agenda politica: non tanto il rilancio di una spesa pubblica sociale, quanto una piegatura ordoliberale dello Stato agli interessi dell’impresa; non tanto la ricomposizione di un ampio blocco sociale con il lavoro e i ceti medi (in un’ottica riformista ed europeista), quanto la ristrutturazione delle classi dominanti nel quadro dello sviluppo di un Europa atlantista e federale. Al di là delle specifiche contingenze che le hanno determinate, le dimissioni di Zingaretti due settimane dopo la fiducia a Draghi e la sua sostituzione con Enrico Letta sono state esemplificative: ad uno storico esponente del PCI e del PdS romano (ex presidente dell’Unione Internazionale della Gioventù Socialista, o IUSY) è subentrato un politico della DC, ex Presidente dei Giovani del Partito Popolare Europeo, ex vicesegretario del PPI. Letta ha quindi provato a riplasmare il campo largo nella nuova fase dell’unità nazionale, in una logica liberale, riuscendo sul terreno delle amministrative [dove si prescindeva dal governo] e fallendo sul prioritario terreno nazionale. Del resto, solo l’abitudine trasformista oramai diffusa poteva illudere di tenere insieme quello che si contrappone nelle pratiche e nelle coscienze. Proprio le scelte su politiche energetiche, inflazione e salario minimo hanno divaricato la linea di faglia e determinato la rottura, in reazione al crescente disagio che la base elettorale e sociale dei 5stelle segnalava, in particolare al Sud. Pensare di considerare l’unità nazionale una parentesi e riprendere come se nulla fosse il campo largo contro le destre si è rivelata proprio un’illusione.

La deriva incompiuta del Partito Democratico. Così, il governo Draghi ha impresso al PD una nuova curvatura nel suo percorso, invertendo la direzione della segreteria Zingaretti, spingendo ancora una volta il partito nell’alveo di un’impostazione liberaldemocratica. Nonostante Renzi e Letta siano personalità contrapposte, nonostante l’attuale astio tra PD e Italia Viva (in cui pesa il profilo di Renzi), nonostante la prossima competizione tra queste forze, proprio l’attuale segretario del PD ha di fatto ritessuto il filo della strategia renziana. Il PD, il partito che più ha sostenuto l’esecutivo e cercato di evitare la caduta di Draghi, si qualifica oggi su quella esperienza, facendone l’elemento cardine su cui tessere le alleanze per la prossima legislatura. La scelta non era obbligata ed è stata netta. Il PD ha infatti respinto ogni ipotesi di fronte democratico, ogni tentativo di ritessere un’alleanza elettorale contro la destra, nonostante gli ampi ed autorevoli appelli in questa direzione. Il voto del movimento 5 stelle (o meglio, la sua presenza non votante) ha infatti segnato per il PD un cambio di paradigma e di scenario (nonostante qualche titubanza di Orlando sull’agenda sociale). Il patto di governo con Azione/+Europa ha quindi provato a far assumere al PD un definitivo profilo liberaldemocratico, a quel punto erede compiuto della DC e del liberismo progressista europeo (Craxi, Gonzales e Blair). Il PD, però, si è fondato sulla vocazione maggioritaria, sull’aspettativa di poter comporre un ampio blocco sociale (il ma anche) e quindi sull’aspirazione ad esser il perno di ampie coalizioni. Allora, proprio nel momento in cui ha pienamente ripreso un’asse liberaldemocratico, il PD non ha voluto rinunciare a proseguire una logica di ampie alleanze. Così, ha distinto tra patti di governo e elettorali e ha voluto accordi con SI/Verdi e con Impegno civico (i protagonisti minori del campo largo). Cioè, dopo aver respinto ogni ipotesi con i 5stelle (potenzialmente competitiva anche se probabilmente perdente), ha comunque tentato di costruire un fronte disomogeneo con la sinistra riformista e chi aveva motivato la rottura di Calenda nel 2019. Alla fine, la maionese è impazzita, il patto con Calenda (ma non con +Europa) si è rotto. Una linea confusa, segnata da una parte dalla logica bipolare di un polo maggioritario nel solco riformista europeo, dall’altra parte dalla tensione a farsi riferimento del grande capitale e organizzatori dell’insieme delle classi dominanti. Il PD con il suo programma elettorale ha quindi provato a riproporre un’agenda sociale (contrasto a povertà e precariato), oltre che sui diritti civili, però in realtà senza modificare l’impianto degli ultimi anni (come sottolinea l’economista Pianta in radio) Così, la deriva del PCI è da decenni in mezzo al guado, sempre in transizione verso un approdo sempre più moderato. Il campo oramai ristretto, senza il richiamo dell’utilità (la contendibilità dei collegi), rischia alla fine di indebolire lo stesso PD. In ogni caso, sia il governo Draghi sia queste settimane peseranno sulla futura configurazione del partito, nonostante i richiami a sviluppare impostazioni laburiste: anzi proprio il risultato elettorale potrebbe diventare l’occasione per l’assunzione di una compiuta impostazione liberaldemocratica

L’ansia di sviluppare una continuità dell’agenda Draghi: l’asse tra Italia Viva e Azione. Renzi e Calenda, da diversi anni, si propongono come riferimento dei settori europeisti delle classi dominanti. Matteo Renzi ha sperato, assumendo il controllo del PD durante la Grande Recessione contro il gruppo dirigente ex-PCI, di cavalcare i nuovi assetti capitalistici e organizzarli nella gestione cesarista dello Stato (riforma Costituzionale), in-formando così un partito liberaldemocratico e di massa. Il progetto è sembrato concretizzarsi con le politiche aggressive del suo governo (industria 4.0, defiscalizzazioni, Jobsact) e le europee 2014 (11 milioni di voti e il 40%, 5stelle oltre il 20% e il centrodestra sotto al 30%). La ripresa è però rimasta impantanata nella lunga stagnazione, le classi dirigenti sono rimaste frammentate, il colpo referendario è fallito nel 2016: Renzi è quindi stato emarginato anche nel PD. La sua influenza parlamentare (prima nel PD poi in IV), però, gli ha permesso di guidare la legislatura: ha impedito nel 2018 un governo PD-5stelle (la logica dei pop corn: abbiamo visto come è finita sul consenso reazionario), costruito nel 2019 il governo giallorosso, determinato nel 2020 la caduta di Conte e il governo Draghi. Il suo obbiettivo era contenere le destre da un versante padronale: il governo Draghi è stato il suo capolavoro, anche al prezzo dell’impopolarità. Oggi, di fronte alla probabile vittoria reazionaria, ha un doppio e difficile obbiettivo: sopravvivere e ricostruire un governo draghiano. Qui si incontra con Carlo Calenda. Uomo di organizzazione di Cordero di Montezemolo e della sua Italia Futura, rapidamente sussunta dal tentativo politico di Monti, viene coinvolto da Renzi nel suo governo, raggiunge il PD ma ne esce proprio per il suo rapporto con i 5 stelle. In questi anni, fuori dal Parlamento, tesse quindi le fila di un terzo polo liberaldemocratico insieme a una parte dei radicali (+Europa), ottenendo risultati alle comunali di Roma. Su questa base lui, e non Renzi, è diventato il polo attrattore dei liberisti in uscita dal centrodestra, come Carfagna e Gelmini. Un’alleanza esclusiva con il PD e la sua definitiva configurazione liberaldemocratica avrebbe potuto esser il suo capolavoro politico. Il fallimento e la rottura con +Europa, comunque, è stato determinato anche dalla sua paura di lasciare uno spazio centrista proprio a Renzi. L’accordo tra Azione e Italia Viva rappresenta a questo punto l’aspirazione ad un blocco draghiano in grado di scompaginare le carte. Alcuni osservatori l’accreditano di risultati a 2 cifre (più o meno quelli di Monti per l’Italia nel 2013), scambiando forse lo spazio potenziale per quello effettivo. Il risultato sarà probabilmente più contenuto. In ogni caso, anche con una peso limitato, questo polo potrà da una parte agire sul PD per fargli assumere un compiuto profilo liberaldemocratico, dall’altra premere sulle contraddizioni del campo reazionario per farlo implodere. La speranza, improbabile ma da non escludere nel corso della legislatura, è stata esplicitata in questi giorni: puntiamo al pareggio [evitando una maggioranza al Senato], per essere il perno di un ribilanciamento verso il centro e fare una maggioranza larga che consenta a Draghi di rimanere.

L’inane subordinazione della sinistra riformista. La sinistra alleata al PD è stata stravolta da questa dinamica. Marginalizzata dal governo Draghi, dalla rottura del campo largo, dalla curvatura del PD, dal nuovo profilo progressista e indipendente dei 5stelle. Certo, l’ingloriosa fine dell’alleanza tra PD/Azione le fa tirare un sospiro di sollievo, evitando la percezione di massa di un ruolo da utili idioti e cacciatori di poltrone. La loro situazione, in ogni caso, non è molto migliore. Sono sopravvissuti a stento negli ultimi 14 anni ed oggi sono all’angolo. La Sinistra-Arcobaleno, nel 2008, doveva garantire da una collocazione di opposizione una configurazione riformista al PRC, unendolo ai fratelli del PdCI, le soggettività ecologiste e Sinistra Democratica. Copriva un campo potenzialmente assai superiore alle semplici due cifre (alle politiche 2006 il PRC raggiunse il 5,8%, PdCI al 2,3%, Verdi al 2%, con gli allora Democratici di Sinistra al 16,6%): prese il 3% e nessun parlamentare. Quella sconfitta ha cancellato da allora la presenza dei Verdi, diviso il PRC, dato vita a Sinistra Ecologia e Libertà e dal 2017 a Sinistra Italiana. La sinistra riformista ha riconquistato così una rappresentanza nel 2013 (3,2% di SeL, alleata al PD, più una sua presenza nella maggioranza di Bersani) e nel 2018 (3,4%, con Articolo 1, pochissimi gli spazi nel PD ancora di Renzi): uno spazio elettorale autonomo sempre sul filo, circa 1,1 milioni di voti, nonostante la molteplicità di soggetti e percorsi. Oggi Articolo 1 si è ricollocata nelle liste PD insieme a esponenti di area come Elly Schlein o Susanna Camusso, con preoccupazione ma al fondo subendone il profilo (del resto, ha avuto un ruolo centrale nel governo Draghi con Speranza). Sinistra italiana e Verdi (i cocomeri), pur all’opposizione di Draghi, spiazzati dalla rottura con i 5stelle, hanno puntato le loro carte sull’alleanza con il PD, la conquista di una rappresentanza parlamentare e quindi la sopravvivenza. La scelta, però, è stata contestata persino negli organismi di SI: l’assemblea nazionale (prima dell’accordo con Azione/+Europa) ha approvato l’ipotesi con soli 89 favorevoli, 41 contrari e 6 astenuti (oltre il 30% contrari), con un’esplicita sollecitazione di Castellina e Vendola; dopo il patto Letta/Calenda e il dissenso di 300 dirigenti, con il 61% di favorevoli, ma forzando le regole statutarie (senza il voto degli iscritti, per paura di perderlo). Oggi, come poche volte nella storia, questa opzione appare senza senso a larga parte degli stessi militanti di queste formazioni.

La parabola reazionaria e trasformista dei 5 stelle. Il Movimento ha sempre avuto una sostanza reazionaria. E’ fondamentalmente espressione politica di ceti intermedi colpiti dalla Grande Crisi (in particolare nuove professionalità, piccoli imprenditori, precariato con alti titoli di studio) e di un sottoproletariato metropolitano disorganizzato (in particolare al sud), come risulta dalla stessa composizione dei suoi gruppi dirigenti e delle sue rappresentanze parlamentari; portatore di una spinta antipolitica, solcata da qualunquismo e antiparlamentarismo (la scatoletta di tonno); focalizzato su un’impostazione comunitaria (i cittadini del web), in cui riteneva di risolvere divisioni e contrasti sociali nell’indistinta imposizione nell’annullamento di ogni interesse particolare, a partire da quelle della classe lavoratrice. Non a caso, in particolare ai primordi, si possono rintracciare posizioni nazionaliste e identitarie (contro migrazioni e nei rapporti internazionali), antisindacali, a favore della piccola impresa. Questo movimento reazionario ha però inglobato anche tratti, storie e pratiche progressiste. Come altre volte nei momenti di grande crisi, la reazione infatti non assume un profilo conservatore. Così, il movimento è stato attraversato da tendenze e componenti partecipative, ecologiste, antistituzionali, di contrasto al grande capitale. Nella pratica si è declinato questo impianto e queste contraddizioni (tipiche dell’ascesa di ogni movimento reazionario di massa) con un’inaspettata spregiudicatezza politica e capacità trasformista di occupazione del potere. Così, i 5 stelle hanno prima sostenuto un intransigente autonomia di azione (governiamo da soli), poi hanno dato vita ad un blocco di destra (il governo gialloverde), quindi un blocco progressista (il governo Conte II e il campo largo), infine hanno sostenuto il governo presidenziale di unità nazionale. In questa legislatura, hanno sostanzialmente governato con tutte le formazioni possibili. Oggi, per riconquistarsi una spazio politico ed elettorale, nella contrapposizione all’agenda Draghi (che hanno condiviso per un anno), contro il PD e contro le destre, declinano il loro trasformismo su un versante progressista. Per collocarsi a sinistra del PD, riscoprono le proprie radici autonome e provano ad interpretarsi come polo ambientalista, dialogando con Santoro (che ha evidentemente cambiato idea rispetto qualche anno fa) e i cocomeri. Tutto questo con la faccia di Giuseppe Conte, esponente del sottobosco amministrativo, presidente del Consiglio con la Lega e con il PD. Questa declinazione è allora proprio solo una forma congiunturale, poco credibile e probabilmente di breve durata.

4. L’Unione Popolare, oltre la sinistra.

Il ripiegamento della sinistra nella Grande Crisi. Nella primavera 2006, il Partito della Rifondazione Comunista entrò a pieno titolo nella maggioranza parlamentare dell’Unione, dopo esser stato uno dei fondatori di quell’alleanza, prima eleggendo il presidente della Camera (Fausto Bertinotti), poi un ministro nel governo (Paolo Ferrero). Il compiuto coinvolgimento in un governo interclassista scioglieva la natura contraddittoria di una formazione che se da una parte aveva sempre avuto una maggioranza che guardava a quella prospettiva (Progressisti nel 1994, Ulivo nel 1996, giunte in città e regioni come Torino, Genova, Venezia, Padova, Bologna, Firenze, Perugia, Roma, Pescara, Napoli, Bari, Palermo, Piemonte, Emilia Romagna, Umbria, Lazio, Abruzzo, Puglia, Basilicata, Sardegna), dall’altra aveva mantenuto un profilo di opposizione e in qualche modo confusamente anticapitalista in momenti cruciali dello scontro di classe (la scissione del PCI e la ricomposizione con settori della nuova sinistra, il ’92 e l’autunno dei bulloni, il ‘94/’95 e la riforma delle pensioni, la guerra in Kossovo, il 2001 e il movimento noglobal). Il risultato disastroso di quell’esperienza, esitato nel fallimento de La Sinistra – L’arcobaleno, ha disegnato un nuovo campo. Alle politiche 2001 il PRC prese 5,03%, i Verdi il 2,17%, il PdCI 1,67%; per un totale di circa 3,3 milioni di voti (1,8 fuori dal perimetro dell’Ulivo), con i Democratici di Sinistra (un partito oramai liberal-socialista, ma comunque con venature riformiste) al 16,6% (6,1 milioni di voti). Alle europee 2004, il PRC 6,06%, Verdi 2,46%, PdCI 2,42%, per complessivi 3,5 milioni di voti (i DS non c’erano giù più come lista indipendente, presentandosi con Uniti nell’Ulivo, 31,1%). Alle politiche 2006 il PRC prese il 5,84%, PdCI 2,32%, Verdi 2,06%, per un totale di 3,9 milioni di voti (Ulivo 31,2%): a questi si potevano aggiungere quindi alcune componenti e consensi che mantenevano impianti riformisti in settori DS. Alle politiche 2008 La Sinistra Arcobaleno prese lo 3,08%, PCL 0,57%, Sinistra Critica 0,46%, Per il bene comune 0,33%, per un totale di 1,6 milioni di voti (PD 33,18%). I 3-4 milioni di consensi precedenti, nonostante il nuovo profilo del PD, si erano più che dimezzati. La grande recessione (2009-12), la linea concertativa della CGIL e le divisioni dei sindacati di base, la sconfitta con Marchionne nel 2012, la progressiva disorganizzazione di classe, l’arretramento dei movimenti di massa si sono quindi intrecciati a questa dinamica, tenendo negli anni successivi il campo della sinistra in un perimetro ristretto. Alle europee 2009 il PRC-PdCI prese il 3,39%, SeL 3,12%, PCL 0,54%, per un totale di 2,1 milioni di voti. Alle politiche 2013 SeL 3,2%, Rivoluzione civile 2,25%, PCL 0.26%, per complessivi 1,9 milioni di voti. Alle europee 2014 AltraEuropa prese il 4,03% e Verdi 0,9%, per un totale di 1,3 milioni di voti. Alle politiche 2018 LeU prese il 3,39%; Potere al Popolo! 1,13%; PC 0,33%; per una sinistra rivoluzionaria 0,09%, per complessivi 1,6 milioni di voti. Alle europee 2019 Verdi 2,29%, Sinistra 1,74%, PC lo 0,88%, per un totale di 1,3 milioni di voti. Il PD in questi anni ha assunto sempre più un profilo liberaldemocratico, con esponenti e settori riformisti che ne sono usciti (SD, Articolo1). La sinistra nel suo complesso si è cioè drammaticamente ristretta, sia quella riformista alleata al PD sia quella di opposizione.

La divisione e gli improbabili cartelli della sinistra di opposizione. Il VII congresso del PRC, nel luglio 2008, ha segnato la sconfitta della gestione bertinottiana del partito (allora guidata da Nicki Vendola), riunendo diverse componenti sulla linea della permanenza del PRC, del rilancio dell’opposizione sociale, dell’autonomia dal PD (342 delegati/e su 646). Rifondazione, pur rimanendo un partito riformista con tratti centristi, si è quindi sganciato dal rapporto con il centrosinistra (presentandosi da allora in alternativa), mantenendo in alcune occasioni la partecipazione a giunte locali, anche in realtà rilevanti (Toscana, Milano, Cagliari, Padova). La componente bertinottiana, come abbiamo visto, ha poi dato vita a Sinistra Ecologia e Libertà, raggruppando intorno a sé la sinistra riformista di governo. La sinistra di opposizione si è quindi ridotta elettoralmente tra l’uno e il due per cento, tra i tre e i quattrocentomila voti, senza prospettive di eleggere rappresentanti. Questa situazione ha paradossalmente portato questo spazio a popolarsi di diversi soggetti, che complessivamente organizzano un’avanguardia politica relativamente consistente (alcune decine di migliaia di attivisti), ma oramai isolata, scarsamente radicata in una classe disorganizzata o in dinamiche di movimento inaridite. Così, oltre al PRC e al PdCI (ora rinominato in PCI), possiamo oggi trovare Potere al Popolo (oggi basata sui due circuiti politici di Rete dei Comunisti/USB e Clash City Workers/jesopazzo), il PCL (uscito nel 2006 dal PRC), Sinistra Critica e poi Sinistra anticapitalista (usciti nel 2008 dal PRC), Sinistra Classe e Rivoluzione (usciti nel 2014 dal PRC), il Partito Comunista (uscito nel 2009 dal Pdci) e poi quindi il Fronte Comunista/Fronte della Gioventù Comunista (scissione nel 2020 del PC), oltre ad altre varie organizzazioni (PMLI, Carc, La Comune, Risorgimento socialista, ecc) e un variegato mondo di circuiti locali, nati da esperienze elettorali e politiche legate alla Federazione della Sinistra, AltraEuropa, In Comune, Sinistra Unita (rimasti in vita oltre il tramonto di quelle esperienze, in quanto capaci di aggregare realtà molteplici nei propri territori). Questi soggetti sono spesso tentati dal protagonismo elettorale, perché cercano su quel terreno una proiezione di massa difficile nello scontro sociale. Nelle amministrative, allora, questo spazio è stato spesso confusivamente affollato da molteplici liste, talvolta in cartello, spesso a geometrie variabili e con simboli inediti. A livello nazionale, invece, si è quasi sempre cercato di avviare liste unitarie, per superare il problema della raccolta firme o con la speranza di raggiungere il quorum. Così nell’ultimo decennio si è dato vita ad una pletora di processi: Federazione delle sinistre, Rivoluzione civile, Lista Tsipras, lista Potere al popolo!, La Sinistra. Tentativi che hanno avuto diverse dinamiche e diversi esiti (Tsipras ad esempio ha eletto parlamentari), ma tutte tramontate o diventate altra cosa rispetto il progetto iniziale (come PaP).

Le ultime elezioni amministrative (2021 e 2022) hanno visto il tentativo di sperimentare diverse ipotesi, anche intrecciate tra loro, al di là della tendenza del PCL a presentarsi da solo: coalizioni (Parma, 2 liste PCI-PRC e PaP; Torino, 3 liste, il cartello Sinistra in comune di PRC DEMA SA, quella di PAP e quella del PCI, al di là degli indipendenti PCL e lambertisti; Calabria, con De Magistris, un buon risultato e molta dispersione), cartelli (Genova, lista PRC-PCI-SA e PCL indipendente; Puglia, con PRC-PCI-RS), cartelli e competizioni (Bologna, con il cartello Sinistra Unita, Pap e il PCL; Toscana con il cartello Sinistra [PRC-SI-PaP] e a parte PCI e PC; Campania con il cartello Terra [SI-PRC-PCI-Sud-altri] e a parte PaP), competizioni a tutto campo (Milano, con Milano in comune, PCI, PaP, PCI e PCL; Emilia Romagna con AltraER, PC e PaP). Un quadro complesso, in cui anche le coalizioni più ampie non sono riusciti ad eleggere consiglieri (Parma e Torino), eccetto che in Calabria (dove però ha superato il quorum solo la lista De Magistris), mentre le divisioni hanno avuto un peso dove il risultato complessivo era significativo (Bologna, Toscana). In questo quadro, la formazione della componente parlamentare di Manifesta, per l’uscita di alcune deputate dai 5 stelle, ha creato nei mesi scorsi un terreno di incontro tra PRC e PaP (le due formazioni più significative), che hanno trovato proprio in De Magistris un possibile punto di incontro, con la speranza di conquistare consensi come in Calabria. Da diversi mesi (diciamo nel corso dell’inverno) era quindi partito il percorso di costruzione di una lista elettorale comune, con la prospettiva di svilupparla nell’autunno (si era parlato di una campagna e forse una manifestazione su salario e salario minimo), in prospettiva dell’appuntamento elettorale della primavera 2023.

Verso l’Unione popolare. Il 9 luglio, in un hotel di Roma, questo percorso si è concretizzato, a partire da un appello contro la guerra e l’economia di guerra, per l’ambiente, la giustizia sociale e i beni comuni. L’articolato parterre delle firme raccoglieva diversi esponenti di movimenti e conflitti degli ultimi decenni. Nel testo, però, si nota l’assenza di ogni riferimento alle contraddizioni di questo modo di produzione, allo sfruttamento del lavoro e allo scontro di classe. Non è infatti un caso che nei colori della sala, nella bozza di simbolo, nella caratterizzazione del nuovo soggetto non ci sia alcun riferimento al movimento operaio, a simboli della sinistra, ad una prospettiva socialista (anche solo riformista). Lo stesso nome, sebbene assonante con Unitad popular, in altri paesi indica formazioni di centro o di destra (Belgio, Estonia, Germania, Ucraina, Slovacchia, Russia pre e post rivoluzionaria, Argentina, Perù, Canada). Certo, il riferimento è all’Union Populaire di Mélenchon, creata per la recenti presidenziali francesi, e alla successiva Nouvelle Union Populaire Ecologique et Sociale. Un nome, per lo stesso Mélenchon, indicativo della dimensione nazionalista e populista del progetto, nell’accezione proposta da Ernesto Laclau (ripresa da Podemos, Sanders in USA, Correa e la révolution citoyenne, in qualche modo riferimenti de La France Insoumise): il progetto, cioè, di sviluppare una radicale democratizzazione, animata da un movimento antagonista pluralistico che superi gli schieramenti di classe e che quindi, in qualche modo, prescinda anche dall’obbiettivo di cambiare il modo di produzione.

Mélenchon e De Magistris. In queste settimane, allora, ci si è spesso riferiti a De Magistris come al Mélenchon italiano. Sicuramente un auspicio sulla possibilità di diventare terzo polo, come in Francia. Le due figure e le due esperienze, però, non credo possano esser paragonate tra loro. Mélenchon e la NUPES, infatti, sono radicati in una sinistra francese che ha ancora un radicamento nel conflitto di classe, oltre che uno spazio elettorale significativo. Negli ultimi anni abbiamo infatti visto esprimersi in Francia movimenti di massa, non solo dal profilo ambiguo e qualunquista come i gilets jaunes (2018/19), ma anche Nuit Debout contro la Loi du Travail (2016); il lungo sciopero dei ferrovieri sulla revisione di SNCF (2018); la mobilitazione CGT e Solidaires nel corso dei gilets jaunes; lo sciopero generale e poi il movimento contro la riforma delle pensioni (2019); la giornata di mobilitazione sulle politiche sociali (2021); il massiccio sciopero della scuola; (2022); lo sciopero generale sui salari (2022). Jan Luc Mélenchon ha un lungo percorso nella sinistra, prima nell’OCI e poi nella  sinistra riformista: per oltre vent’anni senatore del Partito Socialista, componente del governo Jospin, perfino iscritto alla massoneria (il Grande Oriente lo sospenderà solo nel 2018). L’Italia invece è in una condizione assai diversa, con lotte sociali disarticolate e scomposte, una sinistra marginalizzata, un interprete come Luigi De Magistris (un esponente senza alcun passato e radicamento nella sinistra, essendo stato magistrato, europarlamentare con Italia dei Valori e quindi sindaco di Napoli).

La sinistra, poi, in Francia ha un significativo spazio elettorale, nonostante la crescita della destra lepenista e lo sviluppo del movimento liberaldemocratico di Macron. Alle presidenziali 2002 il candidato del PS prese il 16,2%, quelli de il Movimento dei cittadini il 5,3%, Verdi il 5,2%, il PCF 3,4%, ma inoltre Lotte Ouvriere 5,7%, Ligue Communiste Révolutionnaire 4,2%, il Partito dei Lavoratori 0,5%, per un totale di 8,5 milioni di voti alla sinistra riformista e radicale, quasi 3 milioni a quella rivoluzionaria. Questo risultato (forse unico, con una sinistra rivoluzionaria con questo consenso) non si è tradotto nelle politiche: al primo turno delle legislative 2002 il PS prese il 24,1%, PCF 4,8%, Verdi 4,5%, per circa 8,7 milioni di voti; LCR 1,3% e LO 1,2, altri candidati 0,3%, per circa 700mila voti. Bisogna poi tener presente che alle europee 1999 la lista LO-LCR prese il 5,2%, 914mila voti, eleggendo 5 deputati, ma nel 2004 prese solo il 2,5% (440mila voti), perdendo gli eletti. Cinque anni dopo, in un quadro diverso, alle presidenziali 2007 il candidato PS prese il 25,9%, PCF 1,9%, Verdi 1,6% (10,7 milioni di voti), il candidato LCR 4%, LO 1,3%, PT 0,3% (2 milioni di voti). Alle legislative 2007 il PS prese il 24,7%, PCF 4,3%, Verdi 3,2%, altri di sinistra il 2% (8,9 milioni di voti), la sinistra rivoluzionaria (LCR e LO) 3,4% (800mila voti). Alle europee 2009, dove si presentò per la prima volta il NPA, questi ottenne 4,9% e LO 1,2% (1 milione di voti). Con la Grande recessione però anche in Francia la sinistra si è ridotta, in particolare quella rivoluzionaria, anche se non è stata marginalizzata: qui infatti a crollare è stato il PS (e in parte il PCF), ma nel complesso la sinistra ha mantenuto un consenso tra 6 e 10 milioni di voti. Alle presidenziali 2012 il candidato PS ha preso 26,6%, Fronte di Sinistra (Mélenchon) 11,1% (14 milioni di voti), NPA 1,1% e LO 0,6% (610mila voti). Alle legislative 2012 il PS ebbe il 29,5%, Fronte di Sinistra 6,9%, Ecologisti 5,46%, altri di sinistra 3,4%, LO e NPA 0,98%, per un totale di oltre 11,8 milioni di voti. Alle presidenziali 2017 Mélenchon (France Insoumise) 19,6% e il candidato PS 6,4% (9,2 milioni voti), NPA 1,1% e LO 0,6% (620mila voti). Alle legislative 2017 il PS ebbe 7,4%, France Insoumise 11%, Ecologisti 4%, il PCF 2,7%, altri di sinistra 1,6%, LO e NPA 0,8%, per oltre 6,3 milioni di voti. Alle presidenziali 2022 Mélenchon (UP) 21,2%, il candidato dei Verdi 4,6%, PCF 2,3%, PS 1,7% (in totale 10,7 milioni di voti), NPA 0,8% e LO 0,6% (465mila voti); alle legislative 2022, NUPES ha preso il 25,7%, altri di sinistra 3,14%, Ecologisti 2,7%, LO e alcuni NPA 1,2%, per oltre 6 milioni di voti. Mélenchon, cioè, ha provato a rappresentare una lotta di classe persistente unificando la sinistra riformista e quella radicale su un impianto nazionalista popolare: una risposta che riteniamo sbagliata (per questo abbiamo visto positivamente candidature alternative alle presidenziali e alle politiche, e avremmo ritenuto utile un polo di classe LO/NPA), ma che ha una sua base politica. In Italia l’Unione Popolare rischia di esser solo la caricatura di tutto questo.

Il profilo costituzionale e aclassista di Unione Popolare. Come emerge dagli interventi dell’assemblea romana, oltre che dalle interviste a De Magistris, due sono i punti su cui si caratterizza questa lista: la difesa della Costituzione e De Magistris stesso (una proposta…costituzionalmente orientata, per la giustizia sociale, sostanziata da persone credibili). Come nell’appello iniziale, senza riferimento al lavoro e allo scontro di classe. Si afferma cioè un impianto democratico sociale, che non mette in discussione lo sfruttamento di questo modo di produzione sull’uomo e sull’ambiente. Da una parte, l’orizzonte della trasformazione è ingabbiato nel perimetro costituzionale (nella migliore delle ipotesi nell’accezione programmatica di Calamandrei), cioè su un compromesso tra capitale e lavoro realizzato nel dopoguerra ed oramai estinto, che prova oggi ad esser riportato in vita senza interrogarsi sulle dinamiche che l’hanno da tempo stravolto (nelle pratiche e nella stessa Costituzione, dal pareggio di Bilancio al nuovo Titolo V). Dall’altra parte, la credibilità di questo progetto si lega all’esperienza napoletana di De Magistris, segnata da giravolte, una gestione bonapartista, una politica confusa, come riconoscono anche settori che lo hanno sostenuto. Unione popolare è allora un evidente passo indietro rispetto al profilo anticapitalista di Potere al popolo nel 2018 (sviluppato anche per il fallimento del tentativo costituzionalista di Falcone e Montanari). Lo si vede proprio nelle aspirazioni sociali della lista, quando De Magistris invita a non parlare solo ai dipendenti pubblici e agli operai ma anche al vasto mondo dei professionisti, delle partite Iva, dei lavoratori autonomi. Meno burocrazia e più incentivi se creano lavoro e rigenerazione urbana. Come in alcune strizzate d’occhio alla vulgata novax. In fondo, questa è la cifra della sua amministrazione. In questo quadro, non sorprende l’appello ai 5stelle prima di De Magistris, poi persino del PRC, a formare insieme un polo progressista. Non è una sorpresa, perché lo spostamento sul versante progressista di un movimento reazionario si incontra naturalmente con l’impostazione nazional populista di Unità Popolare. Al di là del fatto che quel progetto non è andato in porto (avendo Conte più interesse a rivolgersi alla sinistra riformista di governo e poi a sottolineare la sua autonomia), al di là del profilo politicista dell’operazione (la prospettiva di un polo politico/parlamentare del 15%, senza omogeneità politiche e sociali), al di là del trasformismo un po’ ridicolo di Conte (presidente del consiglio con Di Maio e Salvini, animatore dell’alleanza con il PD ed oggi alfiere dell’alternativa di sinistra), è un passaggio che dice tutto sulla natura dell’Unione Popolare. La sua gestione in questi mesi, in ogni caso, ha rivelato una verticalizzazione che, oltre sollevare perplessità, ha determinato la decisione del PCI di presentarsi autonomamente (un partito con un impianto surreale, che vive una contraddizione di fondo tra le sue aspirazioni e il suo corpo, la sua identità da Gramsci a Berlinguer e la limitatezza della sua pratica concreta).

Una nota a margine: la parabola di Rizzo. Nel 2009 Marco Rizzo, emarginato nel gruppo dirigente PdCI, assunse una posizione sempre più critica su Prodi e il centrosinistra, fino ad esserne espulso ed a fondare una propria organizzazione, che si rifaceva allo storico stalinismo di sinistra di matrice operaia e secchiana. La prospettiva era quella di polarizzare su un terreno ideologico le aree dello stalinismo italiano (articolato in diversi circuiti, da Marx21 all’Ernesto, da La Città Futura al Concetto Marchesi). Proprio la complessità di questo mondo ha sospinto Rizzo (cresciuto nella linea togliattiana e moderata di Cossutta) su posizioni sempre più radicali e settarie, collegandosi strettamente al KKE e al suo raggruppamento internazionale. Su questa base avvia una politica di costante proiezione elettorale e si lega al Fronte della Gioventù Comunista nel 2016, con un simile impianto politico. Così, negli ultimi anni ha conquistato visibilità (Europee 2019, PC 0,88%; Marche 2020, lista comunista 1,41%; Toscana 2020, PC 1,05%; Umbria 2020, PC 1,05%) proprio sulla sua identità stalinista, oltre che per posizioni antieuropee, sovraniste, contro l’immigrazione e contro i diritti civili (anche facendosi intervistare da Provita&Famiglia). Queste posizioni, nel corso della pandemia, si sono ulteriormente polarizzate verso posizioni novax: così, oggi, il PC alle amministrative ha appoggiato liste sovraniste (Parma e Palermo), poi ha concluso la sua parabola decidendo di dar vita ad un’organica politica di alleanze nella lista Italia Sovrana e Popolare, con forze come Ancora Italia (tra i suoi fondatori, Diego Fusaro), Riconquistare Italia (con il suo sovranismo costituzionalista), Azione Civile di Ingroia (!! il punto terminale di una parabola iniziata con Rivoluzione civile, a cui aveva tragicamente dato credito la sinistra di opposizione, come oggi a De Magistris), i Comitati no Draghi (in realtà una proiezione d’intervento di PC e Riconquistare Italia), Rinascita Repubblicana (nata da un’europarlamentare della Lega per Salvini, uscita con posizioni radicali novax) e Italia Unita (un movimento nazionalista centrato su commercianti e piccole imprese). Una lista che ha trovato il sostegno anche di Claudio Messora (ex responsabile comunicazione 5 stelle al Parlamento europeo, fondatore di Byoblu, il canale youtube e poi la piattaforma complottista e novax) e Bianca Granato (la senatrice novax ex-5stelle). Un accrocchio nazionalista, senza alcun riferimento di classe e neanche di sinistra, che per di più prova a rilanciarsi in uno spazio politico angusto e anzi oramai dominato da Italexit.

  5. L’insussistenza del campo classista.

In questo quadro politico ed elettorale è evaporata è la sinistra classista. Nel centrosinistra sono stati sommersi e cancellati i riferimenti al lavoro, per il rilancio della sua curvatura liberaldemocratica nel governo Draghi e in questa campagna elettorale, in concorrenza con il terzo polo di Calenda e Renzi. La presenza di qualche candidatura e Sinistra Italiana non scalfiscono questo asse, ed infatti sollevano perplessità in diversi settori attivisti e simpatizzanti che forse (e purtroppo) indirizzeranno il loro consenso sui 5 stelle, oramai prigionieri di una generale deriva politicista e della logica del voto utile. Le principali forze riformiste e centriste della sinistra di opposizione hanno invece assunto una logica di unione popolare, la costruzione di una moltitudine antagonista, riprendendo dal riformismo il perimetro di questo modo di produzione senza mantenerne il riferimento alla classe lavoratrice. Le forze che mantengono un’impostazione classista, anticapitalista e internazionalista si sono invece disperse su diversi impianti. Il Partito Comunista dei Lavoratori la prospettiva di raggruppare avanguardie e settori di classe nella demarcazione con le altre forze, a partire dalla propria azione propagandista ed elettorale. Sinistra Anticapitalista l’obbiettivo di raggrupparsi con la sinistra di opposizione, a partire dal PRC, per svolgervi una funzione di polarizzazione movimentista e radicale. Sinistra Classe e Rivoluzione il progetto di radicarsi nella classe (l’area Giornate di marzo) e nei giovani (studenti e FFF), per diventare nel tempo l’unico soggetto di riferimento. La direzione SiCobas e la TIR l’ipotesi di sviluppare un Fronte anticapitalista in grado di riunire l’avanguardia delle lotte sociali, raggruppate dall’inevitabile radicalizzazione del conflitto intorno al settore più avanzato della logistica padana (i grandi magazzini sull’asse della via Emilia). Il Fronte Comunista e della Gioventù Comunista la costruzione di un blocco rivoluzionario anticapitalista di forze sociali, in un progressiva mobilitazione e con una prospettiva insurrezionalista (assonante con il tipico terzioperiodismo delle tradizioni staliniste di sinistra). A queste realtà si aggiunge una molteplicità di soggettività e circuiti nazionali piccoli o limitati (tra cui il nostro), ma anche collettivi e strutture locali (talvolta ancora inserite in altre organizzazioni), senza percorsi o strategie compiute.

Dispersione e limiti delle sinistre anticapitaliste. L’impressione è però che principali organizzazioni della sinistra anticapitalista tendono oggi a proporre le proprie strategie in modo parossistico. Proprio questa complessa stagione di arretramento e frammentazione di classe mi sembra infatti che evidenzi limiti e problemi delle loro diverse strategie: il fallimento del raggruppamento, l’indebolimento del partito e i limiti della strategia propagandista di demarcazione nell’attuale dinamica (PCL); l’irriducibilità dell’asse riformista del PRC e lo sviluppo di derive popolari, l’incapacità di tracciare un solco e aprire un diverso percorso (SA); l’illusione di una prossima esplosione sociale e la proiezione nello scontro di classe delle strategie settarie di costruzione sviluppate nei partiti di massa (SCR); la convinzione di un’inevitabile radicalizzazione e di essere il soggetto intorno a cui questa si polarizzerà, senza leggere la molteplicità di conflitti e soggettività di classe (SiCobas e TIR); la focalizzazione sulle lotte sociali, senza affrontare il tema di una strategia e di un programma di transizione (FC/FGC). Il tentativo nel 2018 di provare a sviluppare un polo di classe sul terreno elettorale è comunque fallito nei modi e nei risultati. Per una sinistra rivoluzionaria, nata per iniziativa di SCR (prima della sua attuale linea politica), ha infatti provato a raggruppare diverse forze, cercando di tracciare nella sinistra di opposizione un solco nei confronti di impianti riformisti o populisti. La sua proposta iniziale era rivolta a tutte le forze dell’opposizione classista, l’appello è stato raccolto dalle forze di matrice trotskista, alla fine sono rimasti solo PCL e SCR, perché SA è rimasta impigliata in Potere al Popolo (la lista nata dal fallimento dell’opzione costituzionalista e riformista di Falcone e Montanari). Sinistra Rivoluzionaria ha avuto un risultato insussistente (0,09%, 30mila voti), ma soprattutto una prassi segnata dalla demarcazione e dalla competizione tra le sue due forze costitutive, senza alcun reale sviluppo di un percorso comune (come qualcuno sottolineò). Quel percorso è così tramontato senza che nessuno provasse a recuperarlo. La conclusione è che oggi alle elezioni manca una qualunque lista che proponga un riferimento di classe o una prospettiva transitoria.

Il PCL e la sua ridicola deriva. Un ultima nota sul PCL e la proposta dello scorso 26 luglio di un cartello di classe, anticapitalista e internazionalista. Un anno fa la sua tendenza Anticapitalismo e Rivoluzione aveva sottolineato l’impasse elettorale del partito, negli organismi dirigenti e nel suo bollettino, proponendo proprio con quel respiro un polo di classe. Una proposta che riprendeva riflessioni avanzate nel percorso della sinistra rivoluzionaria e nel confronto del V congresso. Oggi dovremmo allora esser contenti che i fatti (notoriamente con la testa dura) abbiamo portato il gruppo dirigente PCL a farsi carico di una presenza classista alle elezioni. Purtroppo, non è così. Non solo perché si è ribadito che in caso contrario, il PCL attiverà naturalmente la propria presentazione di partito nei collegi del Senato ovunque risulti possibile, rendendo da subito esplicito il punto di caduta reale di questa iniziativa. Non solo perché la proposta è rimasta segnata dall’obbiettivo prioritario di guadagnare una tribuna nazionale [la presenza televisiva], in cui preservare rigorosamente l’autonomia e la riconoscibilità di ogni soggetto, rendendo evidente che dall’esperienza 2018 non si è tratto alcun bilancio (a partire dalla necessità di dare credibilità al polo, pur nella sua articolazione). Soprattutto, non è vero che tardi è meglio di mai: in politica, infatti, i tempi sono fondamentali. Avanzare il 26 luglio l’ipotesi di un blocco elettorale non ha senso. Una simile proposta deve infatti fare i conti con divergenze, contrarietà e resistenze. Un anno fa non si sarebbe ridotto la difficoltà e la complessità del percorso: però la determinazione nel perseguirla, eventuali sperimentazioni in coalizioni locali, occasioni di iniziative e confronti l’avrebbero resa se non altro credibile. Quattro settimane prima della presentazione delle liste è un appello semplicemente ridicolo o strumentale. Tanto più a fronte di un elemento politico nuovo, che ora divide questo possibile campo, come la guerra in Ucraina (da una parte PCL e SA con un sostanziale sostegno alla resistenza, dall’altra le altre forze con un coerente disfattismo bilaterale, e noi con loro). Così, si è solo arrivati a confermare il tentativo di presentarsi in qualche collegio (probabilmente nessuno, forse qualcuno qui è là), solo per segnalare la propria esistenza in vita al proprio esausto quadro militante. La conferma, purtroppo, della deriva del PCL di questi anni e non un reale segnale di svolta, che rappresenterebbe comunque una novità.

 6. Oltre la siepe, resistere.

Un decennio dopo la Grande Recessione, una possibile stabilizzazione reazionaria. Certo, come abbiamo sottolineato il nuovo governo sarà messo alla prova, nella sua composizione e nelle sue faglie, dalla profondità della crisi. La sua azione reazionaria potrebbe però consolidare identità e appartenenze del suo blocco elettorale proprio nella conflittualità su alcuni temi civili e sociali, in contrapposizione con settori delle classi dirigenti e della borghesia metropolitana. In ogni caso (al di là della crisi, delle diverse tendenze nella UE, delle contrapposizioni interimperialiste), il passaggio indispensabile a raggiungere una più solida stabilizzazione politica è il compimento di una nuova revisione costituzionale: da una parte il presidenzialismo alla francese (che potrebbe dare sfogo alle tendenze bonapartiste del decennio), dall’altro l’autonomia differenziata (che potrebbe prender atto dell’articolazione di apparato produttivo e classi dirigenti). Un passaggio non scontato (come non lo fu quello di Renzi nel 2016), che dovrà passare non solo per una prova parlamentare, ma probabilmente anche per una referendaria. Quello che comunque si chiude è un decennio senza maggioranze parlamentari, segnato dalla fluidità negli schieramenti, la parabola dei 5 stelle, l’emersione di un asse liberaldemocratico nel campo progressista, la costruzione del campo reazionario. Questo decennio si conclude nel modo peggiore, in linea con le dinamiche sociali, con un arretramento sostanziale della coscienza politica di massa, in cui il conflitto di classe sbiadisce e scompare dalle rappresentazioni e dalle identità collettive.

Si potrebbe ritenere quindi irrilevante il terreno elettorale, a fronte della priorità, per ricostruire una qualunque prospettiva di trasformazione, del conflitto sociale nelle piazze e nei rapporti di produzione. In realtà non penso sia così. Le elezioni sono infatti uno dei terreni dello scontro di classe. Certo, per noi (Riforme sociali o rivoluzione?) non sono lo strumento del contenimento e della progressiva trasformazione degli istinti bestiali del capitale (come per Millerand, Vollmar, Bernestein e la corrente riformista che nacque con loro). Però le tendenze riformiste non nascono nelle competizioni elettorali: al contrario, si sviluppano proprio nella classe e nei suo conflitti, nell’articolazione della sua composizione, nell’azione mutualistica di difesa del lavoro e nelle tendenze burocratiche nei sindacati di massa. Inoltre, il programma di una riorganizzazione dei rapporti di produzione attraverso il potere politico si basa non solo sullo sviluppo del conflitto e dell’autorganizzazione di classe [Classe, partito e consigli], ma anche sulla definizione di un progetto transitorio [l’uso anticapitalista dello Stato per riorganizzare nuove relazioni sociali]. Cioè, si costruisce anche attraverso un progetto politico, la sua organizzazione e lo conquista di un consenso di massa. Lo sviluppo di un progetto politico di trasformazione sociale avviene quindi su tutti i diversi terreni dello scontro di classe: le lotte quotidiane nei rapporti di produzione (la capacità di collegarli alle condizioni più generali dell’insieme del lavoro e alle prospettive di una trasformazione transitoria), i conflitti che si sviluppano a livello sociale (mobilitazioni e movimenti contro situazioni, provvedimenti e offensive antipopolari, parziali ma che al contempo rivelano i rapporti più generali tra le classi e formano identità collettive), la costruzione e la diffusione delle ideologie (credenze, valori, atteggiamenti attraverso cui le classi dominanti inquadrano, giustificano e danno senso agli attuali rapporti sociali), l’elaborazione collettiva di una coscienza politica di massa (la formazione cioè di aspettative, immaginari, rivendicazioni e obbiettivi più complessivi del proprio agire sociale). Il conflitto di classe, quindi, intreccia su questi diversi terreni la formazione di rappresentazioni collettive, prospettive, atteggiamenti e identità sociali. Le elezioni sono uno di questi momenti, come più in generale le scelte e le decisioni che vengono poi assunte a livello politico-istituzionale. In queste occasioni, in una dinamica di massa, lavoratori e lavoratrici sono appunto chiamati a confrontarsi con l’espressione dei propri interessi e l’identificazione di una parte. La campagna elettorale, il discorso pubblico sviluppato sui media, le discussioni molecolari che attraversano la società in queste occasioni diventano infatti momento di composizione proprio di rappresentazioni collettive, domande sociali e immaginari. Certo, questo non è l’unico momento di formazione di questa coscienza di massa e non è neanche quello di maggior impatto, basti pensare alle esperienze di vita, lo sfruttamento quotidiano e i conflitti parziali che nascono contro questo sfruttamento. Però le elezioni coinvolgono l’insieme della società, in qualche modo registrano i rapporti di forza e nel contempo plasmano le tendenze sociali. Proprio in una stagione di disorganizzazione della classe, in cui prevale la divisione delle lotte e delle identità che nascono dalle lotte, l’assenza sul terreno elettorale di una proposta rivolta ad affermare l’indipendenza di classe amplifica questo arretramento della coscienza politica di massa. Vuol dire non solo non riuscire a stare su un terreno sviluppo di un progetto politico e generalizzazione dello scontro di classe, ma vederselo usare contro, incidendo nelle rappresentazioni di massa.

Oltre la siepe, ritessere una resistenza di classe. Il probabile rapporto di forze che uscirà dalle urne segnerà allora un’ulteriore arretramento nello scontro di classe. Non bisogna né ridere (di disperazione), né piangere, ma capire e provare a cambiare questo contesto. Con la vittoria delle destre, ci saranno inevitabili spinte a sviluppare un fronte democratico di resistenza, una nuova dinamica da Comitato di Liberazione Nazionale, come in parte fu il 25 aprile 1994, passaggio fondamentale di sviluppo di quell’antiberlusconismo di massa che fu nel decennio successivo il principale collante delle grandi alleanze democratiche. Del resto, un simile spirito ha già animato sindacati e mondo associativo non molto tempo fa. La possibile dinamica conflittuale dei primi mesi di governo, su politiche sociali e diritti civili, come l’impronta liberaldemocratica dell’opposizione parlamentare, non potrà che rafforzare queste tendenze. Il primo elemento di una ripartenza, oltre la siepe del 25 settembre, sarà allora quello di riprendere e sviluppare le ragioni sociali, di classe, del lavoro contro il governo e le sue politiche. L’obbiettivo principale della prossima fase, cioè, sarà quello di radicare l’opposizione nelle ragioni e nelle lotte che si sviluppano nei rapporti di produzione, conquistando una nuova visibilità e centralità del lavoro contro le destre.

Per un autunno di visibile nostro scontento. Prima della precipitazione elettorale, l’autunno si stava dispiegando su diverse direttrici di mobilitazione: un corteo nazionale CGIL e un possibile sciopero sulla legge di bilancio (probabilmente con la UIL); il proseguo della mobilitazione sul contratto dei sindacati della scuola (CGIL CISL UIL SNALS GILDA), oggi rafforzata da DL 36 e dall’approvazione estiva del docente esperto; il tenetevi liberi rinnovato dal Collettivo di fabbrica GKN, che si rapporterà con il global strike di FFF del 23 settembre e altri appuntamenti di convergenza in autunno; lo sciopero generale del sindacalismo di base (che pare fosse ipotizzato per il 22 ottobre), su salari, inflazione e redditi;  una possibile campagna e manifestazione nazionale su salario e salario minimo (promossa dal circuito di unione popolare); la conferenza su crisi e imperialismo del circuito sopravvissuto al fronte anticapitalista e le possibili iniziative Sicobas. Vedremo se e come questi diversi fili saranno ritessuti nel nuovo contesto post-elettorale. A questi si aggiungeranno comunque mobilitazioni e dinamiche specifiche: la scuola e gli studenti, la logistica e la repressione, il rinnovo di alcuni contratti, la possibile esplosione di alcune crisi industriali e emergenze ambientali (come il rigassificatore a Livorno). In questo quadro complesso, sarà fondamentale in primo luogo far emergere il nostro scontento: quello del lavoro, non semplicemente quello civile o democratico. Un primo parziale passaggio in questa direzione potrebbe esser quello deciso dalla CGIL a fine luglio: la doppia giornata di manifestazioni l’8 ottobre a Roma e il 9 ottobre nei territori, aperte a soggettività sociali e politiche. Questa potrebbe cioè esser una prima occasione per far emergere gli interessi del lavoro nella crisi, contro le destre, ben oltre un nuovo 25 aprile democratico. Sarebbe cioè utile, in particolare per la percezione di massa, riuscire in qualche modo a contenere la tendenza ad usare quell’occasione per forgiare nelle piazze una grande alleanza democratica contro le destre, presente nello stesso gruppo dirigente riformista della CGIL. Per questo sarebbe importante valorizzare le rivendicazioni sociali e del lavoro (presenti nello stesso impianto dell’iniziativa), amplificandole e radicalizzandole oltre l’impostazione compatibilista proposta dalla maggioranza della CGIL (come la defiscalizzazione dei salari), cercando di portare in quelle piazze le priorità della reale difesa del salario, una nuova scala mobile, la riduzione dell’orario di lavoro, la tassazione degli extraprofitto e la patrimoniale, le nazionalizzazioni delle aziende in crisi.

Ricostruire un fronte unico di massa e di classe. Il secondo, e più importante, passaggio è quello della mobilitazione di autunno: la contrapposizione alla Legge di Bilancio, prima occasione di verifica delle politiche del nuovo governo. Il problema, e il compito principale di questa stagione, sarà quello di evitare troppe divisioni, la moltiplicazione dei percorsi di mobilitazione (come si stava delineando prima della precipitazione elettorale), impegnandosi per una convergenza delle iniziative sindacali e di movimento, una confluenza delle diverse resistenze, in primo luogo quelle che partono dal lavoro e si qualificano su quel terreno. La priorità dovrebbe cioè essere quella di arrivare ad uno sciopero generale di fronte unico, costruito nella progressiva mobilitazione e generalizzazione dei settori, in rapporto ai processi ed alle percezioni di massa più che alle dinamiche dell’avanguardia politica e sociale. Sarebbe cioè utile, se non fondamentale, scansare la riproposizione di date e forzature volte sostanzialmente a segnare la posizione della propria organizzazione (o del proprio insieme di organizzazioni). Iniziative programmatiche o di sigla, volte ogni tanto a demarcarsi dal resto che manca in quella occasione, più che ad incidere sulla realtà. Una pratica, quella degli scioperi di primavera o di autunno, a cui negli ultimi anni è ricorsa anche la CGIL. Questo obbiettivo, però, sta anche e forse soprattutto nella capacità di ogni soggetto (a partire dal sindacalismo conflittuale) di saper cogliere e usare in questa direzione qualsiasi data, appuntamento o percorso possa arrivare, a partire dalle possibili mobilitazioni del sindacalismo confederale (probabilmente orfano di una CISL sempre più governativa e conservatrice). Una responsabilità, ovviamente, che sta in primo luogo alla CGIL, alla sua volontà e capacità di costruire mobilitazioni, senza bloccarsi come nel 2018 nelle contraddizioni della sua linea concertativa. Bisogna cioè provare a ricostruire realmente un fronte unico di classe, mobilitazioni e movimenti generali che siano in grado di segnare nella percezione e nella coscienza di massa il solco di classe, gli interessi del lavoro contro quelli del capitale, coinvolgendo da una parte la moltitudine del lavoro (l’arco più ampio possibile dell’insieme delle diverse frazioni e soggettività della classe) e dall’altra le diverse forze sindacali e politiche della sinistra (con la loro diversità di identità, prospettive, programmi e rivendicazioni), comprese quelle riformiste.

Tessere un polo di classe Tutto questo non basterà. La difficile, ma possibile ripresa sul fronte dell’iniziativa di massa avrebbe bisogno anche di un parallelo rilancio di un punto di vista di classe: un soggetto in grado di porsi come riferimento politico di massa e di sostenere l’organizzazione delle avanguardie politiche e sociali. Anche perché su tutto questo aleggerà la guerra in Ucraina, il suo proseguimento e le possibili nuove precipitazioni delle contrapposizioni imperialistiche: si approfondiranno cioè nei prossimi tempi le tendenze ad inquadrare le strategie riformiste (e forse anche alcune popolari) nel quadro di questi conflitti generali, portandole quindi ad accompagnare processi di nazionalizzazione di massa segnati dalle accelerazioni della crisi economica e di quella ambientale, l’aumento dello sfruttamento, le migrazioni di massa. Nessuna delle diverse forze della sinistra classista è oggi in grado di proporsi come punto di riferimento di massa. Per le loro dimensioni e per i loro limiti. In questo quadro, rischiano tutte di esser travolte o di rimanere marginali: tanto dalla marea reazionaria quanto da una possibile ripresa del conflitto sociale. Per questo sarà necessario, a partire da un bilancio sul 25 settembre e questi ultimi dieci anni, provare nuovamente a tessere le fila di un polo di classe, un coordinamento di azione e proposta in grado di assumersi questo compito immediato, nella molteplicità dei progetti e dei programmi che lo animano. Una tessitura che non potrà certo astenersi dalla questione centrale di questa stagione politica: la guerra Ucraina e la tendenza alla contrapposizione tra blocchi imperialisti. Proprio il conflitto in Ucraina, la contrapposizione tra imperialismi, la nazionalizzazione di massa e la vittoria delle destre, potrebbero essere il primo terreno su cui verificare e sviluppare le convergenze in questo polo, a partire dallo sviluppo di una politica disfattista e antimilitarista.

Tutto questo ci racconta di un autunno complicato, inoltrandoci in una notte sempre più buia. Come rialzarsi da questi dieci anni di sconfitte diventa infatti sempre più la domanda cruciale che tutti/e dobbiamo porci.

Aosta, 15 agosto 2022
Luca Scacchi

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