Tessere la convergenza contro la guerra e in difesa dei salari.

Per questo, per altro, per tutto. Come abbiamo sottolineato qualche giorno fa, il Collettivo di fabbrica GKN grazie alla solidità del suo radicamento sindacale ha avuto la capacità di occupare lo stabilimento, trasformare la sua vertenza in un elemento di resistenza generale della classe, radicalizzare progressivamente le sue rivendicazioni (sino ad arrivare in autunno a porre il tema della nazionalizzazione e del controllo operaio). Così, il Collettivo di fabbrica ha affrontato questo cupo inverno, oltre che un passaggio delicato della sua vertenza, perseguendo ostinatamente il suo tentativo di generalizzare e radicalizzare il conflitto sociale, in stretto rapporto con i movimenti studenteschi. Per questo ha proposto e rilanciato un corteo nazionale di convergenza, in connessione con lo sciopero globale per il clima del 25 marzo, che dopo la piazza fiorentina del 12 marzo a sostegno dell’Ucraina, si è fatto ancora più carico di delineare un campo generale del lavoro, della sinistra e dei movimenti contro lo sfruttamento, la devastazione ambientale e la guerra. Certo, sappiamo bene che una vertenza, in sé e da sola, non può essere il perno di un fronte unico di massa e di classe (una supplenza non può che esser temporanea, occasionale, in qualche modo parziale). Come abbiamo detto, però, questo corteo non era solo quello che serve: è oggi l’ossigeno che tiene insieme una convergenza possibile, la costruzione di un possibile campo del lavoro e della trasformazione sociale.

Il corteo di Firenze. Il 26 marzo c’è quindi stata una grande manifestazione: molteplice, determinata, colorata, nazionale. Non era scontato. Difficile stimare la partecipazione, considerato lo slargo da cui è partito, le strette vie del centro in cui si è diramato, l’arrivo a Piazza Santa Croce in cui molti sono rapidamente defluiti per raggiungere treni e pullman. In ogni caso abbiamo visto un risultato importante, per dimensioni e composizione: almeno 15mila persone reali (e forse anche di più), di diverse provenienze, realtà e territori. Il compatto spezzone iniziale del Collettivo di fabbrica e delle realtà solidali [dietro il classico striscione di Insorgiamo] era seguito da un composito settore di vertenze e posti di lavoro (alle spalle del grande striscione Siamo classe dirigente): in genere si trattava di delegazioni ridotte, in particolare Comune e Università Firenze, Cotonificio Fiorentino, fabbrica di marroni Marradi, Perini di Lucca, Sanac di Massa, camping cig Piombino, ma anche Same di Treviglio, Pasotti di Brescia, Electrolux di Treviso, Caterpillar di Jesi, Dana Graziano di Rivoli, oltre che lavoratori e lavoratrici dello spettacolo, Alitalia e TIM (questi ultimi prevalentemente CUB). In questa parte del corteo erano presenti anche le due aree programmatiche della CGIL, DemocraziaLavoro e RiconquistiamoTutto (con striscione nazionale, RibelleCiao, Piemonte, Toscana, SPI; un’area che non casualmente ha anche una presenza rilevante in diverse delle aziende prima ricordate), oltre che la FLC CGIL e delegazioni più consistenti, ma comunque ridotte, di Cobas, CUB e USB. Presenti nel resto del corteo erano anche SGB, SLAI e SOL-Cobas, oltre che il recentissimo Sindacato Generale di Classe (Al cobas e FLMU usciti dalla CUB), mentre il SICobas ha organizzato una partecipazione particolarmente rilevante per numeri, bandiere e realtà. Si segnalava poi un significativo e compatto spezzone studentesco (Studenti di Sinistra, Link e Uds) e quindi Siamo natura che insorge, FridayForFuture con un corpo altrettanto grande e compatto di giovani e giovanissimi, seguito da diverse realtà ambientaliste, politiche e associative. In questa parte del corteo si collocava anche Firenze città aperta che ripudia la guerra, con ARCI, ANPI, Unponteper, Altromercato e vari movimenti. Quindi una presenza corposa dei centri sociali del nordest, delle Marche e dell’Adl-Cobas. Sparse soprattutto nella seconda parte del corteo e a chiudere le organizzazioni politiche: Rifondazione (una grande bandiera della pace, diverse centinaia di persone e striscioni di vari territori), Fronte della Gioventù Comunista (alcune centinaia, spesso giovanissimi), Potere al popolo e OSA (comunque con qualche centinaio di compagni/e), Sinistra Anticapitalista (anche alle spalle di un grande striscione della Rete ecosocialista romana), una delegazione di Sinistra Italiana, a chiudere il corteo il PCL e lo spezzone ml (Carc e PC). Il corteo è stato occasione per la prima uscita pubblica dello stesso ControVento, ovviamente in relazione alle nostre limitate dimensioni.

Il risultato importante di una convergenza parziale. In una stagione come l’attuale, segnata soprattutto dalle divisioni del lavoro e dalla frammentazione del conflitto sociale, è stato un corteo significativo. Il Collettivo di fabbrica ha potuto permettersi di proporre questo appuntamento perché la sua esperienza ha sviluppato in questi mesi una penetrazione di massa: basta considerare la pervasività, nei cortei come nell’immaginario diffuso, di quella che è diventata la sua canzone. Però senza il sostegno economico e organizzativo di CGIL e FIOM, anzi con una loro malcelata ostilità nei confronti di questa iniziativa, senza il convinto sostegno di soggetti e strutture di tutta la sinistra politica e sociale, era difficile costruire una partecipazione nazionale che ha bisogno non solo di consenso ma anche di risorse e mezzi di trasporto. La stessa vertenza GKN ha comunque oggi una minor capacità di coinvolgere attivamente la popolazione sul territorio cittadino e toscano: i risultati ottenuti e (soprattutto) la campagna che si è sviluppata su questi risultati (volta in sostanza a silenziare o archiviare questa esperienza di lotta) hanno infatti diffuso la falsa percezione di una minor urgenza e necessità di solidarietà, nonostante proprio oggi si affronti il passaggio cruciale della definizione reale di un piano industriale per lo stabilimento. Così, il corteo del 26 marzo è probabilmente stato più ridotto di quello #insorgiamo dello scorso 18 settembre, in particolar per una partecipazione del territorio meno pronunciata, anche se si è notata la maggior presenza di realtà, strutture e organizzazioni nazionali. A pesare è comunque stata soprattutto un’assenza: quella di CGIL, Camera del lavoro di Firenze e FIOM. Nonostante ci fossero in piazza alcuni dirigenti della confederazione (toscani e nazionali), nonostante l’adesione della FLC nazionale e di alcune aree programmatiche (RT e DeL), nonostante la presenza di molti iscritti e attivisti, la mancata partecipazione delle strutture CGIL e FIOM ha ovviamente inciso nel corteo. Questa scelta ha infatti pesato non solo sulla mancanza di striscioni e bandiere, ma anche sulla ridotta partecipazione di fabbriche, aziende e realtà in lotta (nella composizione delle delegazioni e nel loro numero complessivo), con assenze che colpiscono (ad esempio, la Whirlpool di Napoli o la Saga Coffee). La CGIL comunque non era l’unica realtà scarsamente presente: con un impatto ovviamente diverso si è notata anche la ridotta partecipazione dei principali sindacati di base (la CUB e USB), la sostanziale assenza di settori notav, infoaut e di movimento, come la mancata presenza dell’area programmatica Giornate di marzo e della realtà con un loro radicamento (UPS a Milano, alcune fabbriche di Modena e Bologna, ecc), sebbene militanti e anche dirigenti sindacali di SCR fossero in giro a vendere la propria stampa di organizzazione. Nonostante queste parzialità, si è riuscito a costruire un corteo di poco inferiore a quello di Roma dello scorso 5 marzo, in grado di riunire settori importanti del lavoro, della sinistra politica e sociale, con una determinante impronta di studenti e studentesse, la maggior parte giovanissimi/e.

Ora il problema è proseguire questa convergenza: riprenderla, estenderla, strutturarla, svilupparla. Non è facile. L’assenza di CGIL e FIOM non è legata solo a contingenze, errori occasionali, idiosincrasie nei confronti della propria minoranza e di alcuni suoi protagonisti/e. Questa assenza si è ripetuta in diversi appuntamenti di movimento (pensiamo al corteo contro il G20 di fine ottobre o alla piazza romana di Friday for future) ed è il risultato di scelte consapevoli. Il sindacato di strada proiettato nei movimenti, nei conflitti e nelle coalizioni sociali, a cui la FIOM di Landini ha alluso nei suoi primi anni e che è sembrato riproporsi con la sua elezione in CGIL, non è mai nato. Gli scioperi del marzo 2020 sono stati bloccati proprio perché non si voleva trasformare la paura in rabbia. Lo sciopero generale di dicembre è rimasto occasionale e isolato. Ad un certo momento però, visto il dibattito sulla sua proclamazione, la discussione al direttivo di Natale, l’evidente spaccatura con la CISL, le dichiarazioni sulla sua possibile proiezione nella successiva stagione, è sembrato che potesse riemergere una propensione al conflitto sociale, anche con un possibile ruolo nel prossimo dibattito congressuale. L’inverno ha rivelato un altro scenario: l’immobilismo nella mobilitazione, le ambiguità nel movimento per la pace, la definizione di nuovi assetti alla Conferenza di Organizzazione. La definizione di un nuovo nucleo di maggioranza intorno allo SPI e alle regioni del nord (oltre la FIOM), con la relativa marginalizzazione dei camussiani, ha impresso infatti alla segreteria CGIL una curvatura ancor più responsabile, in cui la centralizzazione organizzativa e sui servizi si accompagna ad un’ulteriore prudenza nell’azione politica e sociale.

Manca il perno di una convergenza. In assenza di un movimento di massa, nessuno ha quindi la forza per innescare e sostenere nel tempo una dinamica di fronte unico, mentre in molti sperano di farle nascere a partire dalle proprie realtà. Così si sviluppano circuiti di coesione tra loro in competizione, ognuno dei quali in realtà non riesce a catalizzare le altre realtà. Lo si vede sul piano politico, su quello sindacale come su quello sociale. Lo si è visto anche allo stesso corteo fiorentino, nelle assenze come in una diffusa propensione ad esserci più che a convergere. Negli interventi si sono infatti notate i diversi protagonismi: come ha detto Dario (proprio in conclusione), le modalità tra di noi devono cambiare se vogliamo che questa giornata si estenda: questa non è una piazza da contendere ma da estendere. La frammentazione del lavoro e del conflitto sociale è infatti parallela ad una frammentazione delle soggettività. Il Collettivo di fabbrica, proprio nella sua capacità di sviluppare una proiezione di massa, ha svolto più volte in questi mesi un ruolo di supplenza: a settembre con il primo corteo di #insorgiamo, a novembre con l’assemblea nazionale su nazionalizzazione e controllo operaio, oggi con il nuovo corteo del 26 marzo, al termine del corteo ancora per domani delineando la possibilità di un nuovo momento assembleare di confronto e anche una giornata nazionale contro il caro vita e contro la guerra. Non ringrazieremo mai a sufficienza il Collettivo di questo impegno e questa fatica.

Serve però una consapevolezza collettiva. Non possiamo semplicemente caricare sulle spalle di una vertenza la costruzione e il mantenimento di un fronte unico di massa e di classe. Serve uno sforzo comune, che sia in grado di coinvolgere almeno una parte rilevante delle diverse soggettività politiche e sociali. Serve cioè dare forma ad un’intenzione, definire una prassi, in grado di sviluppare quel percorso che a Firenze si è delineato. La questione che ora si pone ora, cioè, è come riuscire a tessere un fronte del lavoro, delle sinistre, dei movimenti, in grado di vivere e ricomporre il conflitto sociale nei prossimi mesi. In assenza di un’esplicita dinamica di massa, in grado di sviluppare la forza centripeta che tiene insieme le diverse soggettività, mentre comunque si dispiegano diverse lotte, conflitti e mobilitazioni, è oggi fondamentale che ognuno sia consapevole dei propri limiti. Ognuno deve cioè esser consapevole della propria parzialità: sul piano politico o su quello sociale si è solo parte di una parte, uno dei diversi componenti di un movimento più complessivo. Non ci sono, quindi, inevitabili tendenze alla radicalizzazione di massa sospinte dalla crisi (di cui ci si può ergere a anticipatori); non ci sono progressive polarizzazioni intorno ai settori o alle soggettività più combattive; non c’è una soggettività, una composizione di classe, una dinamica di lotta in grado di emergere come baricentro intorno ai cui raccogliersi. Si può solo, con fatica, pazienza, rispetto e determinazione provare a cogliere le occasioni per costruire convergenze, definendo insieme le forme e le modalità con cui farlo, senza imporre i propri vertici osservazionali, coscienti della forza del colpire uniti, anche per la possibilità che proprio la convergenza offre di riattivare identità e immaginari generali.

Come ha indicato lo stesso Dario concludendo il corteo, come ha ipotizzato il Collettivo di fabbrica con la giornata nazionale contro il carovita e la guerra, due sono i prossimi banchi di prova di queste convergenze.

Contro la guerra. Il conflitto in Ucraina ha reso evidente il salto di qualità nella competizione internazionale che si è determinato con la Grande Crisi. L’invasione russa si è impantanata in una guerra di assedio, che moltiplica distruzioni e vittime, mentre l’esercito ucraino sostenuto da imponenti armamenti NATO prova a logorare quello russo e ribaltare l’esito annunciato (anche con un possibile crollo di Putin). In questa partita tra opposti imperialismi si rischiano pericolose perdite di controllo (a partire dalle centrali nucleari) e soprattutto si rilanciano revanscismi su entrambi i fronti, schiacciando da una parte e dell’altra le soggettività classiste e internazionaliste. Anche in Italia monta il clima di mobilitazione nazionale, mentre si delinea una nuova economia di guerra: dall’irreggimentazione del dibattito pubblico all’aumento al 2% del PIL delle spese militari, dal disegno dell’Europa blocco continentale agli inevitabili sacrifici richiamati da Draghi, dagli attacchi all’ANPI al sostegno militare alle resistenza ucraina, il quadro politico nazionale si infatti rapidamente allineato a questa ondata reazionaria alzata dal ritorno di una grande guerra nell’orizzonte degli eventi possibili. Il movimento della pace (scosso dalle titubanze sulla piattaforma del 5 marzo e dalle spinte all’arruolamento del 12 marzo) subisce questo clima, si confonde, rischia di bloccarsi e quindi scomporsi, determinando un arretramento nelle coscienze di massa. Il punto allora è se oggi si riesce a sviluppare la mobilitazione contro la guerra, approfondendo il solco tra chi sostiene la mobilitazione nazionale e della NATO a fianco dell’Ucraina e chi persegue una posizione disfattista, contro l’invio degli armamenti, con i lavoratori e le lavoratrici russi/e e ucraini/e che si battono contro nazionalismi e guerra. Bisogna cioè trasformare la diffusa paura della guerra e dei suoi orrori nella rabbia contro chi ci comanda. Nel prossimo mese ci saranno due appuntamenti in cui questa frattura del movimento della pace si rinnoverà, con nuove contrapposizioni: il 25 aprile e il 1 maggio. Il clima di mobilitazione nazionale ha già chiamato in campo il paragone tra resistenza antifascista e resistenza ucraina; il primo maggio ha nella sua natura un’evidente spirito internazionalista, in cui il lavoro si contrappone al capitale oltre ogni confine e barriera nazionale. Il punto è se questi appuntamenti saranno occasione dell’ulteriore convergenza di un fronte unitario e di massa contro la guerra e lo sfruttamento, come e più del 26 marzo a Firenze, o se invece si vedranno piazze scomposte in molteplici, diversi e confusi appuntamenti contrapposti. Ancora, il 9 aprile all’ARCI Bellezza di Milano è stata convocata da ADL Varese, COBAS Sardegna, CUB, SGB, UNICOBAS e USI CIT un’assemblea nazionale per uno sciopero generale contro la guerra. E’ indubbio che a fronte del proseguo della guerra, oltre ai primi scioperi tra portuali e metalmeccanici a Genova, o le proteste all’aeroporto di Pisa, è necessario sviluppare la mobilitazione del lavoro. È necessario cioè portare in tutti i posti di lavoro la discussione, l’attivazione e quindi la costruzione di una mobilitazione. Il punto è se questa generalizzazione sarà occasione di convergenza o l’ennesimo episodio di divisione del sindacalismo conflittuale.

Contro il carovita. La guerra ha esacerbato una rincorsa dei prezzi che era già consolidata in tutti i paesi a tardo capitalismo. Nel 2021 l’inflazione in Italia era già al 1,9%, con un quasi 4% a dicembre diventato un quasi 5% a gennaio. Nei paesi OCSE e in quelli Europei era al 5%, negli Stati Uniti ha superato il 7%. Questa inflazione è il risultato degli squilibri del grande rimbalzo del 2021, che non hanno fatto altro che seguire contraddizioni radicate nella Grande Recessione. Indipendentemente dalla guerra, cioè, era già emersa una fiammata dei prezzi non transitoria, che si scaricava in particolare sulle classi subalterne (per la composizione media dei loro panieri di spesa) ma anche sulla produzione. Il conflitto in Ucraina, un territorio cruciale per alcune materie prime (gas, grano, olio di girasole, alluminio, rame, cobalto, palladio e nichel) ha impresso un’accelerazione esponenziale alle tendenze in atto. Il problema è che i salari di questo paese sono oggi indifesi dall’inflazione. Negli ultimi quindici anni, inoltre, si è imposta una progressiva frammentazione degli impianti contrattuali: non solo si sono moltiplicati i CCNL e rafforzati i livelli aziendali (differenziando le condizioni salariali nelle diverse realtà), ma è stato stravolto ogni modello, con una progressiva divaricazione tra i diversi contratti che il patto di fabbrica o gli accordi quadro dei pubblici non hanno scalfito. Certo, quasi dappertutto si sono imposte alcune tendenze, come l’IPCA (il tetto agli aumenti dell’inflazione al netto dell’energia) o il welfare (sostenuto da regimi fiscali di particolare favore). Però in realtà ogni settore ha individuato propri punti di tenuta e di caduta, tant’è che non esiste più neanche una durata uniforme dei contratti (il triennio è puramente indicativo). Il prossimo rinnovo dei pubblici, ad esempio, vede aumenti complessivi differenziati negli stessi CCNL, a causa di diverse ridefinizione degli inquadramenti nei diversi settori. Così, non solo manca ogni meccanismo automatico di rivalutazione dei salari, ma i diversi tempi di rinnovo e le diverse strutture salariali (per esempio le diverse forme e quote del salario accessorio) rischiano di amplificare differenze e sperequazioni. Molti settori prossimi o in corso di rinnovo (vedi i pubblici) vedono i propri aumenti già annullati dall’inflazione, senza che neanche si ponga il tema e la proposta di un adeguamento dei salari all’inflazione. Il punto, cioè, è oggi duplice: ricostruire un meccanismo di scala mobile e anche con questa leva riportare ad una convergenza dei salari. Al di là della questione delle bollette e della benzina (il tema oggi dominante sui mass media) è allora necessario iniziare a porre con forza la questione del salario e del contratti: la domanda che ci poniamo è allora se il fronte politico e sociale che ha avviato una convergenza a Firenze è in grado di avviare una riflessione, un quadro di rivendicazioni e un’azione attraverso cui animare su queste questioni una ripresa del conflitto sociale.

In questa primavera, su questi due banchi di prova, si vedrà allora quanto la mobilitazione nazionale riuscirà ad imporsi, con il sostegno all’Ucraina e una logica di bonus e defiscalizzazioni temporanee, o quanto le dinamiche di convergenza di questo 26 marzo riusciranno a svilupparsi oltre le strade di Firenze, ritessendo un conflitto sociale di massa in grado di delineare la possibilità di un’alternativa.

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