Una riflessione su processo rivoluzionario e prospettiva comunista.

[Contributo pubblicato sul sito del PCL il 2 settembre 2021]

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Nelle discussioni degli ultimi due anni ci è capitato più volte, come tendenza Anticapitalismo e Rivoluzione del PCL, di sottolineare il rapporto contradditorio e dialettico tra classe e partito. L’esperienza del novecento ha infatti reso evidente l’importanza del partito, cioè di un’avanguardia organizzata in grado di darsi il progetto politico di costruire un nuovo modo di produzione, attraverso la presa del potere e l’uso dello Stato per modificare i rapporti sociali. Questo è in particolare il contributo teorico di Lenin e quello pratico del bolscevismo. Quest’esperienza storica, però, ha reso nel contempo evidente il ruolo fondamentale dell’antagonismo tra capitale e lavoro, che sorge e si organizza nei processi di produzione sviluppando una propensione anticapitalista nella classe lavoratrice. È infatti questa disposizione e questa radicalità di massa che apre la prospettiva di abbattere l’attuale ordine costituito: senza di essa la volontà politica di trasformare l’esistente rischia infatti di rimanere una semplice intenzione soggettiva, uno spirito che si fa interprete della storia sospinto da illusioni necessarie e tendenze avanguardiste. In ogni caso, proprio l’esperienza bolscevica ha mostrato come dopo la presa del potere una scorretta relazione tra classe e partito possa accompagnare possibili degenerazioni bonapartiste, come si è visto con la deriva termidoriana, l’instaurazione del regime staliniano, il consolidamento di uno stato operaio degenerato e dopo la seconda guerra mondiale la sua capacità di regolazione di tutte le esperienze rivoluzionarie. Questa relazione contradditoria e dialettica è quindi fondamentale per ogni processo rivoluzionario, prima e dopo la presa del potere. Tanto più lo è oggi, in una delle Grandi Crisi che segnano la storia del capitalismo, di fronte all’attuale scomposizione e debolezza dell’avanguardia, con rivolte e rivoluzioni che non innescano processi transitori.

LA CLASSE E LA SUA ARTICOLAZIONE

La lotta contro questo modo produzione si innesca infatti nella produzione. Nella società contemporanea si è oramai strutturato un mercato mondiale capitalista: questo rapporto sociale è quindi dominante sulle diverse formazioni sociali, sussunte (per larga parte realmente) nel suo sviluppo ineguale e combinato. Certo, una parte della popolazione è ancora impiegata in autoproduzioni o mercati locali (agricoli e artigiani), relativamente sganciati dai rapporti generali di produzione: una realtà significativa soprattutto nelle periferie (in formazioni sociali economicamente arretrate e spesso dipendenti), ma che talvolta si riproduce in nicchie e interstizi anche nelle metropoli capitaliste. In alcune formazioni, inoltre, possono ancora sopravvivere rapporti che hanno ancora forme apparentemente precapitaliste, parafeduali o semischiavistiche. In ogni caso, tutte queste diverse strutture sociali sono in-formate dalla produzione di merci e dagli scambi a livello mondiale, penetrati anche in queste realtà con prodotti necessari per la loro sopravvivenza o che comunque migliorano sostanzialmente la qualità della vita delle persone (dall’energia alle medicine, dai trasporti alle comunicazioni). Il nucleo centrale dei lavoratori e lavoratrici, nelle metropoli e nelle semiperiferie, è quindi integrato in processi di valorizzazione del capitale. Le merci realizzate dalla loro attività sono vendute per accumulare un profitto, cioè un di più rispetto a quanto si è investito per crearle. Attraverso lo sfruttamento della loro forza lavoro viene quindi accumulato nuovo capitale, in un sistema il cui equilibrio necessita di una perenne espansione, indipendentemente dalla materialità delle merci che si contribuisce a produrre [cioè, indipendentemente dal fatto che esse siano automobili, software, connessioni internet, lezioni universitarie o prestazioni sanitarie in strutture per l’appunto profit]. Il lavoro subisce quindi anche il movimento del capitale [boom, recessioni, onde lunghe espansive e depressive, Grandi Crisi], scontrandosi con le instabili tendenze e controtendenze di questo modo di produzione. Di conseguenza, in questo rapporto sociale i lavoratori e le lavoratrici ogni giorno sperimentano che le loro condizioni di vita dipendono da un conflitto diretto e continuo con il proprio padrone e, più in generale, con le regolazioni sociali che sostengono il loro sfruttamento [lo Stato, con le sue norme e i relativi apparati ideologici e repressivi]. Nella lotta quotidiana nella produzione (salari, orari, ritmi) e contro queste regolazioni  (i  governi e  le loro politiche),  lavoratori e lavoratrici sviluppano cioè la loro coscienza e la loro organizzazione o, al contrario, sperimentano stagioni di sconfitte, disorganizzazioni e involuzione politica. Da una parte, cioè, la consapevolezza del proprio antagonismo con le classi dominanti prende forma o si stempera attraverso il quotidiano scontro di classe. Dall’altra parte è proprio in questo conflitto che gli interessi del lavoro si organizzano, dando vita a comitati di lotta, consigli e coordinamenti dei delegati/e, sindacati e partiti. L’emersione di un’opposizione di massa contro l’attuale ordine sociale trova quindi una sua radice nel lavoro, strutturalmente contrapposto al capitale. Nella classe, cioè, risiede sia uno spirito che una prassi rivoluzionaria, indipendentemente dalla presenza e dal radicamento di un partito, come si è mostrato tante volte nella storia [basti pensare alla Russia nel 1905 o nel febbraio 1917, alla Germania nel 1918, alle tante insurrezioni improvvise ed impreviste da allora].

La classe però non è omogenea, è composta da diversi strati e diverse frazioni. Coscienza e organizzazione di classe si sviluppano diversamente a seconda dei settori (composizione tecnica del lavoro, professionalità, mansioni, titoli di studio), anche in relazione a divisioni sociali agite dal capitale (per esempio sulla base di genere, età, appartenenza etnica, condizioni contrattuali, cittadinanza e permessi di lavoro). Ad esempio, alcuni lavoratori e lavoratrici sono inseriti in processi produttivi in cui lo stesso capitale struttura una dimensione collettiva, come nelle fabbriche o nelle grandi aziende; altri sono invece dispersi in piccole realtà, dove subiscono una relazione diretta se non individuale con il proprio datore di lavoro (come nei laboratori artigiani o nelle piccole aziende); altri ancora sono isolati, talvolta gestendo autonomamente i propri strumenti di lavoro (l’antico Verlagssystem oggi riprodotto in alcune forme di contoterzismo, nei lavori su commissione, tra i raiders). Le diverse modalità produttive, inoltre, possono dare forma a diverse composizioni nel quadro delle stesse aziende (per esempio la catena di montaggio, che isola e nel contempo connette lavoratori e lavoratrici, o le isole produttive, che li struttura in squadre e li/le gerarchizza). Alcuni lavoratori e lavoratrici sono poi inseriti in processi produttivi segnati da particolari composizioni di genere (pensiamo al tessile da una parte, alla metallurgia dall’altra) o etnico-nazionali (pensiamo ai tanti migranti oggi nei macelli, nella logistica, in edilizia o tra le cosiddette badanti, ma anche negli anni sessanta/settanta ai meridionali nelle fabbriche torinesi, ai muratori bergamaschi, ai braccianti del basso veneto). Inoltre, ci sono lavoratori e lavoratrici che non sono inseriti in processi di valorizzazione del capitale, ad esempio i dipendenti pubblici: certo, subiscono gestioni aziendalistiche e sono subordinati alle più generali relazioni di classe del paese (in primo luogo su salari e orari), ma i loro processi di lavoro non sono determinati da un antagonismo diretto col capitale, bensì sono mediati dal quadro politico e dal suo sistema di regolazione (spesa pubblica e welfare). Non tutto il proletariato, infine, è classe lavoratrice (occupata e disoccupata): ci sono infatti settori inoccupati (ad esempio, nell’organizzazione familiare fordista centrata sul maschio lavoratore, le donne sono socialmente inquadrate nel ruolo di mogli e madri) e emarginati, che vivono di lavori informali, occasionali e illegali, se non di espedienti [il cosiddetto Lumpenproletariat]; senza dimenticare che nella società contemporanea ci sono condizioni transitorie, la cui radice di classe è ancora in formazione [gli studenti, adulti ma socialmente subordinati] o non è più operante [pensionati che ricevono un salario differito o sociale].

La società capitalista, infine, non è segnata da una semplice dialettica tra due classi sociali, ma fra tre soggetti: ogni seria analisi della situazione politica deve [infatti] prendere come punto di partenza le mutue relazioni tra la borghesia, la piccolo borghesia ed il proletariato [Trotsky, La sola via, 1932]. Nel mondo attuale ci sono cioè molteplici ceti intermedi e mezze classi, che si riproducono negli interstizi della produzione capitalista: condizioni di rendita (proprietari di terre, appartamenti, piccole concessioni), piccoli produttori diretti (artigiani, contadini, imprenditori indipendenti o inseriti in catene di subfornitura), commercianti autonomi (negozianti e venditori), persone che vendono le loro particolari competenze (professionisti vecchi e nuovi: notai, avvocati, informatici, veterinari, attori, farmacisti, ecc). In questo quadro possiamo anche far rientrare i manager e i dirigenti di impresa (spesso remunerati con percentuali dei profitti, ma non sempre), gli alti dirigenti dello Stato (prefetti, magistrati, funzionari e manager pubblici) e alcuni tecnici molto specializzati (che di fatto hanno un monopolio para professionale nelle proprie attività). Invece larga parte degli impiegati e dei tecnici, pubblici e privati, sono semplicemente forza lavoro più o meno qualificata (sebbene talvolta, nella propria autocoscienza, si rappresentino come classe media, aspirando a condizioni manageriali e professionali che percepiscono vicine). I ceti intermedi sono quindi compositi e multitudinari, avendo nature e configurazioni diverse: per larga parte, in ogni caso, non sono residui di altri epoche e in molte formazioni sociali non sono neppure residuali, ma anzi possono comprendere una parte significativa della popolazione. Diversamente da contadini e artigiani che hanno a lungo segnato le società capitaliste, inoltre, questi ceti intermedi contemporanei hanno una ridotta autonomia, essendo strettamente connessi ai processi produttivi: gettando in rovina certi strati piccolo-borghesi, il capitalismo ne creava altri; artigiani e piccoli bottegai attorno alle fabbriche, tecnici e impiegati all’interno delle fabbriche…più della metà del popolo tedesco [Trotsky, Cos’è il nazionalsocialismo? 1932]. Proprio per questo sono particolarmente instabili, in quanto ne subiscono direttamente il movimento e le conseguenti ristrutturazioni. Queste riorganizzazioni, infatti, talvolta aprono spazi per un’espansione quantitativa o per un ascesa di alcuni di questi settori, in altre occasioni invece avviano processi di proletarizzazione e quindi di loro dissoluzione. I loro confini, allora, sono fluidi e talvolta indistinti, con soggetti in transizione da una condizione all’altra.

La strutturazione del capitale, il suo movimento e la dinamica dello scontro di classe incidono quindi sulla configurazione e l’organizzazione del lavoro. Questa articolazione tra diverse organizzazioni produttive e differenti composizioni sociali non è per l’appunto statica, ma è in continua trasformazione in relazione alla dinamica ciclica ed alle tendenze di fondo del capitalismo. Boom, onde lunghe, depressioni e Grandi Crisi sospingono e modellano processi di concentrazione o di dispersione, ristrutturazione delle filiere, ridefinizione delle mansioni e delle professioni, movimenti migratori e relazioni tra i generi. L’organizzazione e la coscienza di classe dipende inoltre dalla dinamica ineguale e combinata del mercato mondiale, con le sue gerarchie nella divisione internazionale del lavoro e il loro progressivo mutare nel tempo. Così, negli ultimi decenni, il relativo declino degli imperialismi occidentali e la prorompente esplosione di quello cinese hanno modellato profonde riorganizzazioni produttive e sociali, con una scomposizione del lavoro nei primi e l’emergere di una nuova classe operaia nel quadrante asiatico (giovane, concentrata e di recente migrazione dalle campagne). In questo quadro, alcuni settori del proletariato assumono poi configurazioni ibride: per esempio, la grande espansione urbana degli ultimi decenni, soprattutto nelle periferie e nelle semi-periferie del mondo [da Lagos a Istanbul, da Karachi a San Paolo, dal Cairo a Mumbai] è segnata da masse di contadini sradicati, la cui definizione sociale è ancora instabile e magmatica. Infine, le vittorie e le sconfitte parziali che segnano i periodi di ascesa come le lunghe depressioni, la strutturazione di organizzazioni sociali e politiche, la cristallizzazione di immaginari ed aspettative sociali, influenzano le stesse trasformazioni economiche e plasmano le identità collettive. Nella società contemporanea, cioè, da una parte il rapporto sociale dominante è quello capitalista, dall’altra il proletariato è comunque frammentato e segnato da una continua composizione e scomposizione delle diverse consapevolezze del suo antagonismo con il capitale.

IL PARTITO E IL SUO RUOLO PER UNA TRANSIZIONE DI SISTEMA

Il partito, l‘avanguardia politica organizzata intorno ad un programma, ha in questo quadro un ruolo fondamentale. In primo luogo, nella costruzione di una progettualità transitoria. Anche se le classe ha un suo spirito ed una sua prassi rivoluzionaria, infatti, la prospettiva di una trasformazione del modo di produzione non può che definirsi attraverso un’avanguardia politica organizzata. A questo proposito, è importante distinguere tra processo rivoluzionario inteso come abbattimento delle classi dominanti e processo rivoluzionario inteso come presa del potere e suo uso per la trasformazione del modo di produzione capitalista. L’antagonismo di classe che si sviluppa nei processi produttivi, come il più generale sfruttamento dell’uomo e della natura determinato dal sistema capitalista, sospinge cioè conflitti e resistenze sociali che possono anche abbattere le classi dominanti: come abbiamo detto è già capitato tante volte in questi ultimi due secoli e lo abbiamo visto anche negli ultimi decenni in diversi paesi della periferia e della semi-periferia. La costruzione di una società diversa è però qualcosa che va oltre la conquista del potere ed interessa una profonda trasformazione delle relazioni produttive.

In realtà, riprendendo alcune pagine di Marx, c’è chi ritiene che le forme di un diverso modo di produzione siano già maturate all’interno dello sviluppo capitalista (anche grazie alla sua contestazione operaia) e debbano solo esser liberate dalle relazioni di dominio che attualmente le costringono. L’automazione e la produzione di macchine a mezzo di macchine avrebbe cioè da una parte frantumato e sussunto il lavoro nella loro semplice supervisione, dall’altra spostato la produzione del valore nella conoscenza diffusa e nella prassi sociale (il cosiddetto general intellect). La cooperazione sociale si organizzerebbe quindi sempre più fuori dall’impresa e dai tempi di lavoro (infatti per loro dovrebbe esser remunerata attraverso un salario sociale). La sua attuale subordinazione alle classi dominanti sarebbe allora determinata semplicemente dalla sua oppressione politica (o meglio, biopolitica), non dall’organizzazione della produzione. È questa in fondo la matrice di quel composito movimento radicale, democratico e costituente che ritiene che queste nuove relazioni sociali possano affermarsi attraverso la rottura del comando politico del capitale [vedi ad esempio le Venti tesi sul comunismo di Toni Negri, 1989]. Però c’è anche chi ritiene che sia possibile costruire, nel quadro delle attuali formazioni sociali, forme estese di cooperazione a carattere mutualistico o comunitario: facendole crescere negli interstizi dello sviluppo capitalista, queste potranno progressivamente estendersi e quindi far germogliare diverse relazioni sociali [in sostanza, sono forme contemporanee di proudhonismo e anarchismo]. Alcuni riprendono questa impostazione intrecciandola con le Temporary Autonomous Zone (Hakim Bey, 1991), spazi autogestiti in grado di eludere temporaneamente le strutture e le istituzioni imposte dal controllo sociale. Infine, c’è anche chi ritiene che l’antagonismo del lavoro, sviluppando una dimensione politica democratica costretta a guardare all’interesse sociale complessivo, possa piegare la dinamica del capitale senza bisogna di spezzarlo, costruendo società che potremmo definire ibride (a capitalismo sotto controllo pubblico): il dilemma politico contemporaneo, da questo punto di vista, sarebbe tutto nella costruzione di forme statuali internazionali, capaci di imbrigliare la dimensione globale e neoliberale dell’attuale capitale (questa, al fondo, la matrice che domina l’attuale riformismo, spesso nella veste di teorie neokeynesiane, e che purtroppo funge da riferimento anche di diversi settori centristi).

Il movimento comunista, sin dalla teorizzazioni di Marx ed Engels, ritiene invece necessario l’uso del potere politico per cambiare processi produttivi e relazioni sociali. Marx, infatti, analizzando la formazione della società capitalista aveva individuato con precisione il ruolo determinante che il potere politico aveva assunto nella costruzione di quei rapporti sociali. Lo possiamo vedere in particolare nella sua analisi sull’accumulazione originaria (Libro I, capitolo XXIV, del Capitale). Da una parte è lo Stato che determina la formazione di un proletariato libero, attraverso l’espropriazione della popolazione rurale e la sua espulsione dalle terre, il disciplinamento della nuova forza lavoro con la legislazione sanguinaria contro gli espropriati (vedi le politiche su poveri e vagabondi), le leggi per l’abbassamento dei salari. [Così la popolazione rurale espropriata con la forza, cacciata dalla sua terra, e resa vagabonda, veniva spinta con leggi fra il grottesco e il terroristico a sottomettersi, a forza di frusta, di marchio a fuoco, di torture, a quella disciplina che era necessaria al sistema del lavoro salariato]. Dall’altra parte è lo Stato che permette la formazione del primo capitale necessario a sottomettere il lavoro, costruendo un sistema commerciale di selvaggia depredazione di altri popoli e proteggendo lo sviluppo di una propria industria nazionale. [I vari momenti dell’accumulazione originaria si distribuiscono ora, più o meno in successione cronologica, specialmente fra Spagna, Portogallo, Olanda, Francia e Inghilterra. Alla fine del secolo XVII quei vari momenti vengono combinati sistematicamente in Inghilterra in sistema coloniale, sistema del debito pubblico, sistema tributario e protezionistico moderni. I metodi poggiano in parte sulla violenza più brutale, come per esempio il sistema coloniale. Ma tutti si servono del potere dello Stato, violenza concentrata e organizzata della società, per fomentare artificialmente il processo di trasformazione del modo di produzione feudale in modo di produzione capitalistico e per accorciare i passaggi. La violenza è la levatrice di ogni vecchia società, gravida di una società nuova. È essa stessa una potenza economica]. Marx aveva svolto con rigore l’analisi del capitale e delle sue contraddizioni, ma si era rifiutato di teorizzare la futura società socialista: era cioè restio a prescrivere ricette per l’osteria dell’avvenire (prefazione alla prima edizione del Capitale). Nonostante questo, in diversi scritti (Manifesto, Lotte di classe in Francia del 1850, lettera a Weydemeyer del 1852, Critica del programma di Gotha del 1875) Marx ed Engels precisano che lo strumento necessario per riorganizzare i rapporti di produzione è il potere politico (il controllo della violenza e l’uso economico di questa violenza), come per la precedente transizione tra modi di produzione, attraverso un uso anticapitalista dello Stato e dei suoi poteri dittatoriali, sia per difendere la rivoluzione sia per riorganizzare nuove relazioni sociali (espropriazione della proprietà fondiaria, requisizioni di siti produttivi, statalizzazione dei mezzi di produzione e del credito, ecc.).

Nei primi del novecento si definisce con più precisione l’impostazione e il ruolo del partito. Kautsky [in diversi articoli sulla Neue Zeit, il principale quotidiano della SPD, 1901] e Lenin [Che fare?, 1902] sottolineano infatti come questo progetto transitorio debba necessariamente organizzarsi intorno ad un programma, raccogliendo un’avanguardia politica che lo condivide. Intendiamoci, nel movimento comunista e rivoluzionario c’erano (e ci sono) settori che ritengono che in realtà la classe lavoratrice abbia in sé non solo una forza antagonista in grado di abbattere le classi dominanti, ma anche la capacità di autorganizzarsi e sviluppare un processo transitorio, gestendo direttamente con comuni e forme consiliari di autogoverno la costruzione di un diverso modo di produzione (settori sostanzialmente consiliaristi, talvolta di matrice anarchica, spesso federalisti, ma non sempre). Le elaborazioni di Kautsky e di Lenin, però, sono state condotte in un preciso scontro politico contro altre e diverse tendenze del movimento operaio. La crescita dei partiti socialdemocratici alla fine dell’ottocento aveva infatti iniziato a porre al movimento socialista il problema di come usare quella forza nella politica quotidiana. In particolare, questo avvenne in Germania (dove era cresciuto un forte partito, la SPD, con le sue rappresentanze parlamentari e le sue organizzazioni sindacali) e in Francia, dove sebbene le organizzazioni operaie erano diverse e non particolarmente strutturate, nel quadro dell’ondata antimilitarista scatenata dall’affaire Dreyfus erano stato eletto nel 1898 un significativo gruppo parlamentare. Nel frattempo, in Russia si era sviluppata un’imponente concentrazione industriale ed erano emerse le prime grandi lotte operaie: in questi conflitti sociali si svilupparono allora tendenze che focalizzavano i compiti del movimento nella difesa degli immediati interessi di classe (a partire da salari e condizioni di lavoro).

La Germania e il bernestein-dibatte. Nell’estate del 1894 il gruppo SPD nella Dieta Bavarese, guidato da Georg Vollmar, decise di votare a favore del Bilancio annuale. La scelta cadde nel silenzio più o meno disattento del partito e, in particolare, del suo gruppo dirigente. Un giornalista socialdemocratico di Dresda, però, scrisse sulla Neue Zeit un articolo che denunciava la scelta bavarese (non un singolo uomo e non un solo centesimo per il governo borghese: il sostegno al bilancio è equivalente al sostegno dell’ordine politico predominante). L’articolo era firmato Parvus (uno dei primi con questo pseudonimo) e per certi versi diede il via a una discussione che dominò il decennio successivo. Il dibattito si scatenò in realtà solo nell’ottobre 1897, quando uscirono una serie di articoli sui problemi del socialismo a cura di Eduard Bernstein (uno dei principali e più conosciuti dirigenti della SPD insieme a Kautsky, Bebel e Liebknecht). Il sistema capitalista, sosteneva Bernstein, era tutt’altro che in crisi, a partire dal fatto che alcune sue evoluzioni non erano state previste da Marx: in particolare la diffusione dell’azionariato (in controtendenza alla concentrazione della proprietà), il diffondersi di nuovi ceti medi e intermedi (piccole imprese, tecnici, professionisti), la capacità delle politiche di trust di attenuare le crisi. Nel quadro del suffragio universale maschile, di una sempre viva minaccia reazionaria e di persistenti diseguaglianze economiche (bassi salari e insicurezza del lavoro), si apriva però la strada di una politica di difesa della democrazia e di progressiva socializzazione della produzione, attraverso riforme che avrebbero gradualmente inculcato nel capitalismo un diverso sistema sociale (il movimento è tutto, il fine è nulla). Come precisarono conseguentemente Bernestein e Vollmar sulla Petite republique (vedi punto successivo), se il principio della lotta di classe ci costringesse effettivamente a restare in disparte, con le braccia conserte e a guardare con indifferenza tutte le volte che la classe operaia non è direttamente coinvolta nella vicenda, il socialismo non sarebbe mai il movimento che abbraccia il mondo ed al quale appartiene l’avvenire, ma soltanto una setta limitata e sterile, presto messa al margine degli eventi: quindi si deve riconoscere che nell’evoluzione delle nazioni moderne possono presentarsi delle fasi in cui l’impossessarsi parzialmente del potere governativo può essere per il partito socialista, più che una cosa lecita, un dovere fondamentale. È la teorizzazione della compartecipazione a governi interclassisti. Le posizioni di Bernstein e Vollmar furono tema di ampia discussione, iniziata ancora una volta da Parvus con diversi articoli tra gennaio e marzo 1898 [Il rifacimento bernsteiniano del socialismo] e proseguita poi dalla Luxemburg nel 1899 in Riforma sociale o rivoluzione?, riprendendo ipotesi sull’attualità di una politica rivoluzionaria contro le politiche capitaliste ed i rischi reazionari già avanzati dallo stesso Parvus nel 1896 in Colpo di stato e sciopero politico di massa. Le tesi riformiste furono respinte come opportuniste al congresso di Stoccarda (1898), anche se Bernstein fu invitato ad approfondire le sue ipotesi (invito da cui nacque, nel 1899, I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia). L’ala moderata della SPD, in particolare quella sindacale (che poteva contare sul sostegno di organizzazioni con molti più iscritti del partito, solide risorse finanziarie e un imponente apparato che gestiva anche cooperative, giornali e strutture mutualistiche), vide infatti in questa strategia la possibilità di focalizzare la politica del partito sul miglioramento delle condizioni di lavoratori e lavoratrici, senza mettere a rischio strutture e apparati conquistati nel quadro della società capitalista: per questo ne sostenne con sempre maggior determinazione l’approccio, mettendo sotto accusa nel successivo congresso di Lubecca (1901) proprio l’ala sinistra (e straniera) di Parvus e Luxemburg (la più polemica con Bernstein). In ogni caso, Kautsky intervenne con vigore contro l’impostazione riformista proprio dopo quel congresso, con il saggio Riforma e rivoluzione sociale (1902), in cui sottolineò come lo sviluppo capitalista aveva rafforzato il potere dello stato e il comando delle classi dominanti (contrastando quindi la visione di Bernstein di un progressivo allargamento della democrazia), il capitalismo finanziario accresciuto il proprio peso (contro ogni ipotesi di socializzazione con politiche antidemocratiche e spinte imperialistiche) e le trasformazioni economiche espanso la classe operaia e quindi il conflitto sociale (che ora si esprimerebbe attraverso lo sciopero di massa, anche con valenza politica).

La Francia e il riformismo pratico. Nel 1894 Alfred Dreyfus, ufficiale di artiglieria ebreo ed alsaziano, fu accusato di spionaggio e condannato all’Isola del Diavolo, in Guayana. Nel 1896 uscì L’Affare Dreyfus: un errore giudiziario e il 13 gennaio 1898 Emile Zola pubblicò il suo famoso J’Accuse. Il giorno dopo apparve la Petizione degli intellettuali, firmata tra gli altri da metà dei professori della Sorbona, Renard, Gide, Anatole France e il giovane Proust. L’affaire tracciava cioè un solco politico generale tra democratici e reazionari. Le elezioni del maggio 1898 videro un buon risultato dei primi e un consolidamento del gruppo socialista (oltre una sessantina di deputati su 586). Alla precedenti elezioni c’era già stata una notevole affermazione (più di 40 deputati), anche se il movimento era diviso tra il Partito operaio francese di Lafargue e Guesde (d’area marxista), il Partito socialista rivoluzionario di Vaillant (blanquista e nel Consiglio della Comune), il Partito operaio socialista rivoluzionario di Allemane (altro comunardo, scissione della Federazione dei lavoratori socialisti di Brousse) e soprattutto i cosiddetti indipendenti (cappeggiati da Millerand e Viviani, tra cui ci sarà anche Briand, tutti poi con importanti incarichi di governo nel corso della prima guerra mondiale). Queste formazioni svilupparono però un’unità d’azione, sancita da Millerand al congresso dei Comuni socialisti tenutosi a St. Mande il 30 maggio 1896: un movimento politico che si propone la sostituzione necessaria e progressiva della proprietà capitalista, da perseguirsi con lo strumento necessario e sufficiente del suffragio universale, inteso come mezzo per la conquista dei pubblici poteri, e con quello dell’intesa internazionale dei lavoratori. Come si vede, era in sostanza la prospettiva poi teorizzata da Bernstein. Allora passò comunque inosservata e le divisioni sorsero con la precipitazione dell’affaire Dreyfus, che tra 1898 e 1899 vide dispiegarsi complotti monarchici, pronunciamenti militari e un aspra lotta per la presidenza della Repubblica (vinta alla fine da Loubet, dreyfusista). Il POF, infatti, denunciò il rischio di una subordinazione alle politiche borghesi e sin dal luglio ‘98 fece venir meno il sostegno al campo dreyfusista. La frattura fu però successiva. ll 3 giugno 1899 la Corte di Cassazione decise la ripetizione del processo, il giorno successivo Loubet fu aggredito ad Auteuil e a fronte di manifestazioni contrapposte il governo si dimise. In quel contesto, segnato da timori di colpi di mano reazionari, il presidente affidò l’incarico per un governo di coalizione a Waldeck-Rousseau, un senatore dreyfusista e repubblicano. Millerand accettò allora di farne parte a titolo personale, nonostante la presenza di un generale dell’esercito che aveva guidato la repressione della Comune. Il POF denunciò questa scelta e il gruppo parlamentare si spaccò. Lo scandalo era innescato più dalla presenza di quel generale e dalla decisione individuale di Millerand più che dalla sua impostazione strategica: bisogna infatti notare che già nel novembre 1895 quasi tutti i deputati socialisti, guesdisti compresi, avevano votato a favore del governo radicale di Leon Bourgeois (l’episodio però era passato inosservato, in Francia come in Europa). In ogni caso, la discussione nel socialismo francese portò ad un ampio dibattito internazionale, promosso dalla Petit republique (il giornale degli indipendenti) su due quesiti (possono le forze socialiste intervenire nei conflitti tra i partiti borghesi per salvare la libertà politica? e in quale misura il proletariato socialista può partecipare al potere borghese?). Ad intervenire (tra gli altri) furono i tedeschi Bebel, Kautsky, Liebknecht, Schohlank, Bernestein e Vollmar; gli inglesi Hardie, Mann, Hyndman e Quelch; gli italiani Ferri e Labriola; i belgi Bertrand e Vandervelde, il russo Plechanov. I socialisti indipendenti voteranno negli anni successivi più volte a favore del governo, tra polemiche e aspre discussioni: Jean Jures sostenne con convinzione la scelta ministeriale, mentre POF, blanquisti e anarchici guidarono il fronte intransigente. Nel 1900 si tenne proprio a Parigi il congresso della seconda internazionale, che fu dominato dalla discussione sul nono punto all’ordine del giorno (conquista dei pubblici poteri e alleanze con i partiti borghesi): in quell’occasione si affermò una mozione unitarista redatta da Kautsky (contro una versione intransigente), che pur affermando che la lotta di classe non permetteva qualunque sorta di alleanza con qualsiasi frazione della classe capitalista, ammetteva che le coalizioni possano rendersi necessarie in situazioni eccezionali, da valutarsi in sede nazionale, con l’assenso del partito e le dimissioni quando il governo dia evidenti prove di parzialità nel conflitto capitale/lavoro. La mozione cioè, pur contestando la possibilità di una conquista graduale del potere, apriva di fatto la possibilità a partecipazioni governative (non a caso fu sostenuta da Bernstein, Vollmar e Jures, ritenendo che potesse esser il punto di partenza di un’azione riformatrice di vasto respiro). Vaillant si chiese pubblicamente come Kautsky, che in Germania aveva lottato contro Bernstein, potesse capitolare di fronte alle stesse tesi. La mozione, infatti, era il tentativo di evitare una spaccatura, in particolare nella SPD, ed evidenziava da una parte la particolare preoccupazione del leader tedesco per l’unità del movimento socialista, dall’altra le sue future evoluzioni politiche. Lo stesso Kautsky, comunque, subito dopo il congresso ne diede una lettura più intransigente sulla Neue Zeit: le alleanze tra forze socialiste e liberali, precisò, sono un indizio della forza della reazione e sono possibili solo in funzione difensiva, escludendo ogni possibilità di usarle per delle riforme o che i partiti operai si facciano promotori di vasti schieramenti popolari. Non a caso l’articolo innescherà un’aspra risposta di Vollmar e quindi una replica della Luxemburg, di fatto segnando un cambio di atteggiamento della SPD nei confronti di Millerand e quindi il suo progressivo isolamento. La risoluzione di Parigi non rimase però senza effetti: nel 1901, ad esempio, il PSI votò la fiducia al governo Zanardelli-Giolitti (anche se, ricordiamolo, nel 1912 Bissolati, Bonomi e Cabrini furono espulsi per la scelta di partecipare alle consultazioni per un nuovo governo: fonderanno il Partito Socialista Riformista Italiano ed entreranno nell’esecutivo di guerra del 1916, come gli indipendenti francesi). Il VI congresso della seconda Internazionale, tenutosi ad Amsterdam nel 1904, in ogni caso portò a bocciare esplicitamente le strategie riformiste di Bernstein e le tattiche di difesa repubblicana di Jures, adottando di fatto la stessa risoluzione che la SPD aveva approvato l’anno prima al suo congresso di Dresda. [Da notare che lo stesso Jures, in un articolo del 1903 sull’italiana Critica sociale, aveva delineato con abbastanza precisione la parabola kautskyana della SPD: quando il socialismo tedesco, malgrado la ristrettezza pedantesca di taluni suoi dottrinari, avrà assunto, nello stesso interesse del proletariato e della rivoluzione sociale, il compito di un grande partito di democrazia, Kautsky ostinato a rimanere il teorico ufficiale di un’evoluzione che non avrà potuto impedire, saprà ben trovare qualche combinazione arbitraria di concetti astratti per accomodare alla vita nuova le massime di Marx].

La Russia e l’economicismo. La Russia si trovava allora in una condizione alquanto diversa. Era una dittatura autocratica che vedeva fuori legge tutte le organizzazioni politiche, anche quelle liberali e conservatrici. Una formazione sociale sostanzialmente rurale che, nel quadro dello sviluppo del mercato mondiale innescato dalla grande depressione del 1873/95 (la prima globalizzazione che terminerà con la prima guerra mondiale), aveva visto l’emergere di importanti concentrazioni industriali, con processi produttivi anche avanzati. Una situazione analizzata da Lenin in una delle sue prime opere (Lo sviluppo del capitalismo in Russia, 1899) e ancor di più da Parvus negli anni successivi (con una serie di saggi ed articoli, pubblicati sulla Neue Zeit e poi sull’Iskra sul mercato mondiale, la spinta a costruire blocchi economici sempre più grandi, il destino di una prossima contrapposizione tra USA e Russia a fronte di un Europa divisa, le contraddizioni russe tra fame e sviluppo capitalista, le conseguenza della guerra russo-giapponese e la probabilità dello scoppio di una rivoluzione nel paese). In questo quadro, negli anni novanta dell’ottocento si svilupparono in Russia le prime grandi lotte operaie: nel 1893 un primo imponente sciopero a Rjazan, un centinaio di chilometri da Mosca; nel 1894 a San Pietroburgo, Mosca, Minsk, Vilna e Tiflis; nel 1895 le officine Putilov, seguiti prima dalle industrie delle calzature e del tabacco della capitale e poi da realtà in tutto il Paese; nel 1896 infine gli scioperi scossero San Pietroburgo, anche con manifestazioni di massa, e si ripeterono poi a Rostov nel 1902 e in Russia meridionale nel 1903. In questo contesto, mentre diversi gruppi si stavano unificando nel Partito Operaio Socialdemocratico Russo (POSDR, primo congresso a Minsk nel 1898 e secondo a Bruxelles/Londra nel 1903), alcuni di questi circuiti si definirono in stretta relazione con questi movimenti di massa (in particolare, quelli aggregati intorno a due giornali: Rabočaja Mysl’ e Rabočee Delo, il Pensiero Operaio e la Causa operaia): la lotta per una posizione economica, la lotta contro il capitale sulla base dei quotidiani interessi essenziali e gli scioperi come mezzo di tale lotta, ecco il motto del movimento operaio; questa lotta rimane comprensibile a tutti, tempra le forze e unisce gli operai. Il profilo ed il programma di questi circuiti, cioè, consisteva nello sviluppare le rivendicazioni economiche di lavoratori e lavoratrici, nel quadro dei loro conflitti nei processi di produzione. Veniva quindi respinta ogni ipotesi di impegno politico, sia quello immediato contro la dittatura sia quello in prospettiva per cambiare il modo di produzione. L’iniziativa doveva invece rimanere strettamente connessa all’aumento dei salari, la riduzione della giornata lavorativa, lo sviluppo di sindacati, casse di mutuo soccorso e centri ricreativi. L’idea di fondo era che lavoratori e lavoratrici dovevano autorganizzarsi, costruendo da soli le proprie strutture, perché l’emancipazione degli operai è compito degli stessi operai. In questo quadro, la Rabočee Delo sviluppò un gradualismo programmatico sostanzialmente coincidente con il riformismo pratico francese e con quello teorico di Bernstein, pur in un quadro totalmente diverso. Lenin quindi, nel percorso di formazione del POSDR passerà dalla polemica contro i gruppi populisti (in particolare Narodnaja volja, la Volontà del popolo, che si poneva l’obbiettivo politico di abbattere il regime tramite una vasta azione terrorista, interrompendo così lo sviluppo capitalista guidato dallo Stato e sviluppando un diverso modo di produzione centrato sull’obščina, la comunità contadina russa) a quella contro questi nuovi settori economicisti (che al contrario rifiutavano qualsiasi rivendicazioni politica, l’obbiettivo della conquista del potere e quindi anche ogni progetto politico socialista).

Kautsky e Lenin, nei primi anni del novecento, arrivarono quindi a precisare la necessità dell’organizzazione di un partito di avanguardia in relazione a questi scontri. Il ruolo del partito, organizzato intorno ad un programma, è stato cioè precisato contro l’emergente tendenza di altri settori del movimento operaio che si focalizzavano sulla difesa ed il miglioramento delle condizioni del lavoro, sul movimento piuttosto che sull’obbiettivo. Sia Kautsky sia Lenin, cioè, hanno sottolineato la differenza tra antagonismo della classe [la classe operaia con le sue sole forze è in grado di elaborare soltanto una coscienza tradunionista, cioè la convinzione della necessità di unirsi in sindacati, di condurre la lotta contro i padroni, di reclamare dal governo questa o quella legge necessaria agli operai,..] e progetto politico transitorio [la coscienza socialista è un elemento importato nella lotta di classe del proletariato e non qualche cosa che ne sorge spontaneamente … il compito della socialdemocrazia è di introdurre nel proletariato la coscienza della sua situazione e della sua missione], contro chi sosteneva che questo passaggio si sarebbe sviluppato più o meno spontaneamente, sostanzialmente per limitare la propria azione nei confini di una linea riformista (difesa degli interessi di classe nella società capitalista).

Lenin, nel Che fare? tenderà come spesso gli capita a piegare il bastone, cioè a radicalizzare le sue argomentazioni per meglio contrapporsi all’oggetto della sua polemica. Nello specifico, lo fece sottolineando eccessivamente il ruolo degli intellettuali e in fondo del partito, cioè di una coscienza esterna alla classe. Lo riconobbe già nel 1903 [tutti noi sappiamo che gli economisti avevano piegato il bastone da una parte, per raddrizzarlo era necessario curvare dalla parte opposta], lo ribadì contro gli uomini dei comitati nel 1904 [contro chi voleva escludere gli operai dai comitati di partito, in nome di quella presunta mancanza di coscienza della classe] e infine ancora più nettamente nel 1908 [la classe operaia si distingue, grazie a cause economiche oggettive, da tutte le classi…Senza questa condizione, l’organizzazione dei rivoluzionari di professione sarebbe stata un giocattolo, un’avventura, una vacua insegna…solo quando esiste una classe veramente rivoluzionaria che spontaneamente si leva alla lotta ha un senso l’organizzazione che esso propugna].

Nella prospettiva di Kautsky e di Lenin il progetto politico del partito agisce anche nella lotta quotidiana della classe, contro le tendenze riformiste che si sviluppano al suo interno. Entrambi, infatti, sono consapevoli che le tendenze che stanno contrastando non trovano radici solo nella deriva soggettivista di alcuni, e neanche nella semplice proiezione degli interessi degli apparati politici e sindacali che si sono sviluppati nel quadro della società capitalista, ma in qualche modo si fondano anche sulla stessa stratificazione della classe. Il ruolo del partito, cioè, non è solo quello di connettere la resistenza parziale con la prospettiva rivoluzionaria [come preciserà Trotsky con lo sviluppo del metodo e del programma transitorio], ma anche di sostenere la ricomposizione delle diverse frazioni di classe, contrastando le inevitabili tendenze riformiste che si radicano nel suo seno. Queste tendenze si sviluppano soprattutto in alcune fasi del ciclo, in relazione ad un miglioramento di salari compatibili con l’ascesa dei profitti [grazie all’aumento della produttività e quindi dello sfruttamento relativo] e nelle metropoli capitaliste, in relazione allo scambio ineguale e quindi alla possibilità di aver migliori condizioni di vita grazie alla subordinazione di altri territori. Però questi processi si possono rintracciare anche in dinamiche più generali, per la stessa compartecipazione della classe lavoratrice alla produzione: il lavoro in fondo è parte del capitale [è infatti capitale vivo] e nei rapporti di produzione lavoratrici e lavoratori trovano quindi non solo occasione di sviluppare l’antagonismo contro le direzione aziendali e il padronato, ma sono soggetti anche ad una spinta ad identificarsi con i processi produttivi di cui fanno parte (in particolare quando determinate composizioni tecniche o sociali tendono a sviluppare identità professionali o aziendali).

In fondo è questo il concetto di aristocrazia operaia, a cui Lenin si riferì come radice del revisionismo nel movimento operaio (quando con lo scoppio della prima guerra mondiale arrivò ad una rottura con la seconda internazionale). Lenin lo riprese da un’introduzione di Engels del 1885 a La situazione della classe operaia in Inghilterra, ma era un concetto ricorrente nel dibattito inglese di fine ottocento. La supremazia industriale della Gran Bretagna, infatti, aveva determinato molteplici stratificazioni nella classe lavoratrice, in base a mansioni e settori industriali, come al genere e le nazionalità. Ad esempio, i lavori qualificati, operai e artigiani erano prettamente maschili mentre le donne si concentravano nel tessile e nelle ceramiche, con salari molto inferiori. Su queste dinamiche di classe, inoltre, pesava la riserva di manodopera dell’Irlanda (la vicina isola che il capitale inglese aveva destinato alla produzione agricola e in particolare a grandi monoculture di patate): in particolare la Grande carestia degli anni 40 dell’ottocento spinse in Inghilterra un’ondata di migranti, socialmente stigmatizzati e disposti a lavorare a salari inferiori. Non a caso lo stesso Marx [lettera a Meyer e Vogt, 1870] arrivò a sottolineare come la rivoluzione in Inghilterra poteva esser accelerata dell’indipendenza irlandese: cioè, la liberazione di quel paese, eliminando o riducendo la stratificazione etnica del proletariato in Inghilterra, avrebbe potuto portare a radicalizzare lo scontro di classe nella metropoli imperialista. I settori più qualificati, maschi e inglesi furono quelli che più si organizzarono nelle Trade Unions, che iniziarono a perseguire anche politiche di alleanza con il padronato [vedi le cosiddette Birmingham Alliances] e comunque furono la base di massa che sospinse le politiche di riformiste dei coniugi Webb. Engels era convinto che questa particolare stratificazione era stata resa possibile dal monopolio mondiale della Gran Bretagna e sarebbe stata quindi riassorbita nel tempo. Lenin si rese però conto che lo sviluppo imperialista strutturava e generalizzava le gerarchie del mercato mondiale (grazie ai sovrapprofitti di monopoli e multinazionali), impedendo così quel riassorbimento previsto da Engels. Come nota Hobswbam [1992], inoltre, anche se questi fenomeni interessano una minoranza possono comunque interessare una parte importante del movimento operaio organizzato.

Nel secondo dopoguerra gli Stati Uniti e l’Europa conobbero un lungo ciclo ascendente, i cosiddetti trenta gloriosi, a lungo negato sia dallo stalinismo sia dai suoi critici di sinistra (anche comunisti rivoluzionari), che non ritenevano possibile un’onda espansiva dopo l’esplosione della crisi nella fase suprema del capitalismo. Proprio partendo dalle considerazioni sull’aristocrazia operaia e dal costante miglioramento dei salari in alcuni settori delle metropoli imperialiste, si svilupparono diverse teorie sulla definitiva integrazione piccolo borghese della classe operaia centrale occidentale. Il testo che è inevitabile citare a questo proposito è L’uomo ad una dimensione di Herbert Marcuse, che sottolineava come la società industriale avanzata avesse oramai inquadrato i lavoratori e le lavoratrici attraverso il benessere diffuso, i falsi bisogni e una cultura individualistica rilanciata da mass media e pubblicità. Per questo è importante sottolineare come le articolazioni del lavoro, pur fornendo la ragione fondante e una base di massa alle tendenze riformiste o conciliazioniste nel movimento operaio, non strutturano realmente delle aristocrazie (cioè dei ceti stabili e relativamente autonomi dallo scontro di classe). Da una parte, infatti, questi lavoratori (più che lavoratrici) essendo inseriti in processi di valorizzazione del capitale subiscono comunque anche loro uno sfruttamento, con i relativi conflitti con il padronato (non solo su salari, orari e ritmi di produzione, ma anche sui loro stessi corpi: pensiamo ad esempio ai chimici, per molti versi un idealtipo del concetto di aristocrazia operaia, che hanno vissuto in prima persona la consapevole disattenzione del capitale per salute e sicurezza). Dall’altro le loro particolari condizioni contrattuali sono comunque transitorie, nel quadro dei continui rivolgimenti del capitale, con le sue espansioni e le sue distruzioni creatici: le conquiste salariali, sociali e nelle condizioni di lavoro, cioè, sono spesso messe in discussione nei momenti di passaggio del ciclo, nelle ridefinizioni ineguali e combinate del mercato mondiale, nelle stagioni di Grande Crisi. Proprio la forte organizzazione e coscienza di questi settori, allora, può in queste occasioni innescare lotte molto radicali, se non veri e propri processi rivoluzionari (pensiamo alle Officine Putilov nel 1917, agli stabilimenti Ford negli anni trenta in USA, al lungo ’69 italiano).

CLASSE E PARTITO.

Organizzazione di classe e tendenze soggettivistiche del partito. Le prassi e le teorie degli ultimi due secoli ci dicono che la capacità della classe di difendere i propri interessi collettivi, organizzarsi e sviluppare un’identità sociale è una componente determinante di un’opposizione sociale anticapitalista. A partire dall’esperienza sovietica, però, ci dicono anche che questa capacità è uno strumento indispensabile per contrastare la tendenza soggettivistica delle avanguardie organizzate a sostituirsi alla classe. Questa tendenza vive sia prima che dopo la presa del potere, sebbene con dinamiche ed effetti ben diversi. In un caso, nella lotta anticapitalista, porta a sviluppare derive avanguardiste con interventi ben oltre una spanna sopra la coscienza di massa, nella convinzione e nell’illusione di trascinare così le masse nel processo rivoluzionario (alle spalle e in qualche modo sulle spalle del partito). Una dinamica politica che spesso si accompagna a feticismi organizzativi, leaderismi e centralizzazioni disciplinari. Una deriva che porta l’avanguardia organizzata ad isolarsi dai movimenti di massa, talvolta dividendosi lungo linee di faglia inessenziali e personalistiche, rendendola incapace di sospingere i processi rivoluzionari quando se ne presenta l’occasione. Nell’altro caso, alla guida dello Stato rivoluzionario, questa tendenza porta a sviluppare degenerazioni burocratiche e autoritarie, sospinte dalle insufficienze delle forze produttive e dalle difficoltà del processo rivoluzionario (con i conseguenti isolamenti). Una dinamica alimentata da una dittatura di partito in cui la casta governante usa gli organi della coercizione anche contro il lavoro, per limitare la sua coscienza e disorganizzare le sue strutture. La differenza tra queste due derive soggettiviste (prima e dopo la presa del potere) è cioè rilevante: in una caso il partito manca nella sua capacità di collegarsi alla lotta di classe, nell’altro diventa un fattore controrivoluzionario di repressione della classe. In un caso come nell’altro, però, si impone nel partito e del partito una concezione bonapartista, che si pone al di sopra della classe nell’illusione di determinarne teleologicamente [in funzione dei fini ultimi] lo sviluppo. Rivendicando l’autonomia politica, cioè, ci si sgancia dalla rappresentanza della classe. Queste tendenze hanno segnato la storia del movimento comunista con le tragiche degenerazioni staliniane, ma purtroppo hanno agito anche nei frequenti settarismi e nelle involuzioni dei partiti comunisti rivoluzionari prima della presa del potere (come si vede ad esempio con le derive dei partiti e delle internazionali frazioni nell’esperienza storica trotzkista).

Se il partito è quindi strumento indispensabile del processo rivoluzionario, è fondamentale bilanciare il suo ruolo attraverso l’autorganizzazione e la democrazia di classe. Questa relazione dialettica e contradditoria, infatti, non è mai definita e non è mai stabile (come mostra l’evidente e ripetuto sviluppo di tendenze riformiste e avanguardiste). Si riproduce continuamente nella storia, attraverso il contrasto tra diverse linee e impostazioni, nel movimento operaio ed in quello comunista. L’importanza del contrasto e dell’equilibrio di queste diverse tendenze ha anche risvolti non indifferenti nella stessa concezione e organizzazione del partito (come abbiamo sottolineato in diversi contributi nel dibattito del PCL, a partire da Il PCL delle origini. Centralismo e democrazia nel percorso di costruzione del partito: un patrimonio da conservare e rilanciare, documento alternativo a quello della segreteria su tendenze e frazioni al CC dell’ottobre 2020].

Questa dialettica tra classe e partito, per certi versi, è presente sin dalle origini del movimento comunista. Il problema dell’indipendenza politica, il ruolo del partito e l’autorganizzazione del proletariato, almeno in nuce, sono infatti già presenti in alcuni scritti di Marx ed Engels. Hanno segnato la loro riflessione, in particolare, dopo l’esperienza del 1848/49 in Germania, l’alleanza con la borghesia ed il bilancio fallimentare di quella linea. L’Indirizzo al CC della Lega dei comunisti del 1850 pone infatti in modo chiaro la necessità di sviluppare un’organizzazione indipendente dei lavoratori, centralizzata ed autonoma dalla borghesia, in grado di difendere gli interessi e la prospettiva politica del proletariato. Proprio in quel testo, vent’anni prima della Comune di Parigi, Marx ed Engels pongono anche il tema del dualismo di potere attraverso la dimensione di massa dei consigli: a fianco del nuovo governo ufficiale borghese essi dovranno erigere i loro propri governi rivoluzionari, sia in forma di consigli e esecutivi municipali, sia in formati di clubs e comitati di lavoratori, così che non solo i governi democratici perderanno il sostegno dei lavoratori, ma anche che propria dall’inizio saranno loro stessi guardati e minacciati da istituzioni dietro alle quali sarà l’intera massa dei lavoratori. Marx ed Engels scrivono ovviamente inconsapevoli degli sviluppi successivi: il dispiegarsi di tendenze riformiste nel movimento operaio, le derive avanguardiste, le degenerazioni staliniste. Colpisce però anche per questo il parallelo che emerge, nel loro ragionamento, tra l’indipendenza del partito di classe e il ruolo dei consigli in termini di massa e di contropotere (governo della classe, non strutture di difesa sindacale o di semplice azione rivoluzionaria).

In realtà, però, questo rapporto tra classe e partito è emerso con evidenza nel percorso delle due rivoluzioni russe (1905 e 1917), integrando e in realtà modificando l’originaria impostazione bolscevica, proprio con lo sviluppo di strutture autorganizzate di governo (di contropotere) da parte della classe lavoratrice: i consigli. Un’impostazione che ha poi confermato il suo valore (a negativo) con l’emersione della progressiva deriva burocratica, prima nel termidoro e poi nella degenerazione stalinista. Può allora forse esser utile riepilogare dinamiche e avvenimenti dell’emergere dei consigli e del loro rapporto con il partito tra 1905 e 1917.

CONSIGLI E PROCESSO RIVOLUZIONARIO

Il rapporto tra classe e partito è quindi contradditorio e dialettico: non nasce sul piano teorico, ma emerge nella prassi del processo rivoluzionario. Nonostante il fugace accenno nell’Indirizzo del 1850, infatti, sino al 1905 l’esperienza dei Consigli non era sostanzialmente emersa né da punto di vista pratico né da quello teorico. La Comune di Parigi del 1871 si era infatti sviluppata prima intorno ai comitati della Guardia nazionale (ed al suo Comitato centrale), poi intorno all’elezione a suffragio universale di un suo consiglio. Lo sviluppo del partito socialdemocratico tedesco (SPD), la principale organizzazione del movimento operaio, era avvenuto attraverso le elezioni, le campagne politiche e lo sviluppo di sindacati, giornali ed organizzazioni collaterali. L’esperienza dei Consigli in Russia, per certi versi, nacque proprio dall’assenza di queste strutture.

La nascita dei Consigli. Da dove nascono allora i soviet? Dalla lotta di classe nei rapporti di produzione. Nei primi scioperi in Russia negli ottanta e novanta del 1800, infatti, furono spesso le stesse direzioni aziendali, di fronte a proteste spontanee e disorganizzate, che sollecitarono lavoratori e lavoratrici ad indicare dei propri rappresentanti per poter avviare le negoziazioni e quindi riprendere la produzione: una dinamica sindacale primordiale che, ad esempio, è oggi diffusa nel movimento operaio cinese. Si è così sviluppato in quel periodo un tessuto informale di delegati/e, fluido e occasionale, che però ha consolidato prassi ed abitudini nelle fabbriche russe. Questi Consigli, essendo strutture spontanee e temporanee, hanno assunto a seconda dei tempi e delle situazioni forme e nomi differenti (come sottolinea Anweiler, 1974): comitati di sciopero [stacecnyj komitet], commissioni operaie [komissija rabocich], rappresentanti autorizzati [upolnomocennye], consigli dei rappresentanti autorizzati [soviet upolnomocennych], assemblea dei delegati o dei deputati [delegatskoe, deputatskoe sobranie], commissioni elette [komissija vybornych], consigli dei delegati/e [soviet starost, letteralmente consiglio degli anziani, nel senso di esponenti rappresentativi]. A favorire questa dinamica è anche la grande familiarità che gli operai russi mantenevano con le prassi e le abitudini delle assemblee di villaggio [il Mir delle obščine], essendo spesso di recentissima immigrazione, potremmo dire per certi versi metalmezzadri (avendo residenze, legami e la tendenza a tornare nei propri villaggi nei periodi di difficoltà: anche qui, è evidente la somiglianza con la composizione di classe degli attuali mingong cinesi).

I movimenti sono improvvisi, ma non sono spontanei. Come abbiamo più volte sottolineato nel dibattito del PCL, le grandi mobilitazioni che coinvolgono la masse non sono imprevedibili, perché si sviluppano a partire da conflitti, soggettività, relazioni, reti, identità e immaginari che si condensano nel tempo. L’esplosione della rivoluzione del 1905 non nasce solo dalle evidenti tensioni sociali che si stavano accumulando nel paese e dalla sconfitta nella guerra russo giapponese [come aveva infatti previsto Parvus tra l’estate e l’autunno del 1904], ma si innesta su un tessuto operaio che aveva già sviluppato scioperi importanti. Non a caso Zubatov (un dirigente delle polizia zarista) diede impulso in quegli anni alla nascita di associazioni operaie reazionarie, attraverso cui sperava di dar sfogo alla pressione delle lotte sociali e al contempo di controllarle (evitando qualunque loro trascrescenza politica, in qualche modo in parallelo con le tendenze economiciste presenti nel movimento). Queste associazioni, però, aiutarono proprio a consolidare, generalizzare e strutturare quel tessuto di delegati/e, soggettività, relazioni e immaginari su cui si sviluppò poi il movimento operaio di massa. Ne fu un esempio l’Assemblea degli operai russi di fabbrica e d’officina, guidata dal famoso pope Gapon, che diede il via alla rivoluzione il 9 gennaio 1905 con una manifestazione di protesta per il licenziamento di 4 operai delle Putilov [la domenica di sangue]. Questa associazione aveva infatti a San Pietroburgo 7/8000 iscritti [di cui almeno 700 alle Putilov] e nello sciopero iniziato il 3 gennaio non a caso fu subito eletta una delegazione di 37 delegati/e. Questa dinamica non rimase contenuta a San Pietroburgo: a Mosca e a Kharkov, ad esempio, nella successiva primavera (segnata da scioperi che avevano costretto lo Zar a dismettere ogni repressione) si svilupparono comitati e consigli con un profilo sindacale (in particolare tra tipografi, tessili, metallurgici): il più significativo fu quello dei tipografi di Mosca, che includeva 264 delegati di 110 imprese, con un esecutivo di 15 componenti. Con lo sviluppo del movimento di massa, infatti, crebbe il bisogno di coordinamento delle iniziative: in quei mesi non c’era però una chiara distinzione tra coordinamenti, comitati di sciopero, rappresentanze di settore, consigli di delegati/e.

Il primo soviet si sviluppò a metà maggio ad Ivanovo-Voznesensk, nei dintorni di Mosca, allora forse il più importante distretto tessile della Russia. Nacque sulla base di una mobilitazione economica (abolizione del lavoro notturno e degli straordinari, salario minimo mensile), con uno sciopero che coinvolse in pochi giorni oltre 40mila operai/e. Davanti a questa lotta, a consigliare l’elezione di un consiglio fu l’ispettore governativo [!], per poter avviare delle trattative. Il 15 maggio fu eletto un consiglio di rappresentanti di fabbrica [Ivanovo-Voznesenskii soviet upoInomocennych], composto da un centinaio di delegati/e, per la maggior parte tessili, ma anche incisori e meccanici. Il Consiglio aveva come obbiettivo quello di condurre lo sciopero e condurre negoziati, ma anche assicurare l’ordine nelle piazze. L’approfondirsi dello scontro fece da una parte evolvere la piattaforma (suffragio universale, pensioni, diritti del lavoro), dall’altra ne sviluppò i compiti, anche per contenere la repressione (dal 3 giugno infatti intervenne l’esercito, con scontri sanguinosi). A fine luglio il movimento fu sconfitto ed il Consiglio sciolto. L’impressione fu comunque grande in tutta la Russia. Nella vicina Kostroma, proprio a luglio iniziò uno sciopero che coinvolse oltre 10mila lavoratori e fu guidato da un consiglio di 108 delegati/e, i quali a loro volta costituirono un comitato esecutivo di 12 membri. Questo comitato aprì una diretta collaborazione con il partito socialdemocratico [di cui alcuni rappresentanti furono fatti sedere nel Consiglio] e pubblicò un proprio bollettino [le Izvestija]: un modello che poi si impose in moltissime realtà.

Il regime zarista fu messo all’angolo con l’estate dall’andamento disastroso della guerra e dalle mobilitazioni. Il 6 agosto lo Zar fu costretto ad istituire una Duma, il 23 firmò la pace col Giappone. L’autunno non portò però ad una stabilizzazione, ma ad una seconda ondata di scioperi. Ad iniziare furono tipografi e stampatori di Mosca, a cui seguirono quelli di San Pietroburgo e quindi le ferrovie (in tutte le stazioni nacquero Comitati di sciopero). A metà ottobre si estesero alle fabbriche e diventò generale. Uno sciopero politico, che chiedeva l’amnistia, il suffragio universale e l’assemblea costituente. Lo Zar, sotto questa pressione, fu costretto con un nuovo manifesto a garantire diritti civili, un ruolo parlamentare della Duma, elezioni con un suffragio esteso.

In questo contesto, si formò a San Pietroburgo il Consiglio dei Deputati Operai. La proposta fu inizialmente avanzata dall’organizzazione menscevica della città, per coordinare lo sciopero in corso. I delegati/e [gli storosti] furono eletti in ragione di uno ogni 500 lavoratori: questa procedura era già stata utilizzata a febbraio, quando il senatore Shidlovsky guidò una commissione governativa con il compito di investigare lo scontento dei lavoratori, in cui furono inseriti alcuni rappresentanti eletti in città sulla base di nove divisioni [per tipologia di industria]. Come sottolinea Anweiler (1974), il soviet di San Pietroburgo nacque quindi da diversi percorsi: la pratica diffusa di eleggere comitati nelle fabbriche in lotta, le forme di rappresentanza sollecitate dalle stesse controparti (direzioni aziendali e funzionari governativi), la propaganda menscevica sulla necessità di un congresso dei lavoratori, l’esempio del consiglio di tipografi e stampatori di Mosca, l’esperienza di Ivanovo e di Kostroma. Alla prima riunione presero parte solo 40 delegati/e, con una composizione spuria (alcuni erano i rappresentanti della Commissione Shidolvsky, alcuni delegati/e di fabbrica, solo 15 erano stati eletti per questo Consiglio). Le elezioni, in ogni caso, si tenevano generalmente in assemblea per alzata di mano, in condizioni precarie e talvolta confuse, di fatto con un meccanismo nominale e maggioritario.

I Soviet crebbero velocemente. In primo luogo, in termini di dimensioni (alla seconda riunione parteciparono una novantina di delegati/e, alla terza oltre 200 da un centinaio di fabbriche e 5 sindacati). Al Consiglio furono quindi ammesse anche le organizzazioni politiche: nello specifico i menscevichi, i bolscevichi e i socialisti rivoluzionari (cioè, i tre partiti socialisti). La scelta non fu presa senza discussioni: alcuni delegati/e non affiliati sostennero che nel Consiglio non dovevano esserci polemiche di partito e che l’assemblea avrebbe dovuto focalizzarsi solo sulle questioni del lavoro. Alla fine, si decise comunque di ammettere le tre organizzazioni del movimento operaio proprio in funzione del coordinamento e dello sviluppo delle lotte: questo nuovo organismo, infatti, doveva esser percepito da parte delle masse con la necessaria autorevolezza, a partire da un forte riconoscimento del suo ruolo di rappresentanza generale. Per questo fu scelto di dare ai partiti socialisti la stessa rappresentanza nell’Esecutivo [tre per ciascuno], con la possibilità di partecipare e intervenire ma senza potere di voto. Nella terza riunione il nuovo organismo arrivò anche a nominarsi come Consiglio dei deputati operai [Sovetrabocich deputatov], formando un comitato esecutivo di 22 componenti [2 per ognuno dei 7 quartieri della città, 2 per ognuno dei maggiori sindacati, più i 9 non votanti in rappresentanza delle organizzazioni politiche]. Il Comitato esecutivo crebbe poi ancora, arrivando a novembre a 35 componenti e 15 membri non votanti. In secondo luogo, il Soviet si configurò non solo come un semplice comitato di sciopero, ma sempre più come un organismo di rappresentanza politica generale. Come sottolineò Trotsky [1905], emerse in adempimento di un bisogno oggettivo generato dal corso degli eventi: un’organizzazione che vuole rappresentare l’autorità senza esser limitata dalla tradizione; un’organizzazione in grado di ricomporre le masse disperse senza imporre vincoli organizzativi; un’organizzazione che unisse le correnti rivoluzionarie del proletariato, in grado di prendere l’iniziativa e di auto determinarsi; e, soprattutto, un’organizzazione in grado di esser creata nel giro di 24 ore. Consigli operai si formarono in diverse realtà (se ne possono contare più di una cinquantina nel corso dell’anno), sotto la spinta dello sciopero generale, con configurazioni fluide tra comitati di sciopero e organi rivoluzionari della classe lavoratrice. Tra i più rilevanti, quello di Mosca: si costituì a novembre come comitato di sciopero cittadino, con 180 delegati/e in rappresentanza di circa 80mila lavoratori.

La precipitazione dello scontro con lo zarismo. Tra la fine di ottobre e novembre il Soviet di San Pietroburgo indisse uno sciopero per le otto ore. L’iniziativa si risolse in un sostanziale fallimento, per la serrata padronale e oltre 19mila licenziamenti: il 12 novembre, in una drammatica sessione, il Consiglio pose fine alla vertenza lasciando ogni fabbrica libera di decidere se tornare al lavoro [un vero e proprio rompete le righe]. Il Consiglio sviluppò comunque un suo intervento politico, con una manifesto che sostanzialmente riportava le principali rivendicazioni del POSDR (un’assemblea costituente per una repubblica democratica, intesa come condizione per proseguire la lotta per il socialismo). I Consigli del 1905, cioè, si pensarono sostanzialmente come strutture di fronte unico della classe operaia (nel quale trovavano rappresentanza delegati/e di fabbrica, ma anche rappresentanti dei sindacati e delle organizzazioni politiche), non il centro di un potere operaio o di un nuovo potere rivoluzionario. Nel contempo, però, proprio nello scontro con il governo, si configurarono anche come contropotere, per esempio dando indicazioni sulla libertà di stampa a tipografie, uffici postali e ferrovie, oltre che negoziando con la Duma municipale, la milizia e il governo. A fine novembre la repressione chiuse l’esperienza, con l’arresto dei suoi principali esponenti (a partire dai suoi tre diversi presidenti: Chrustalëv-Nosar, Trotsky e Parvus). A Mosca, invece, il Soviet promosse un’insurrezione che si risolse in scontri quartiere per quartiere.

Nei Consigli del 1905, in ogni caso, si confrontarono diverse impostazioni, anche sul ruolo di questi organismi.

I menscevichi. La prima proposta dei Consigli, come abbiamo visto, fu lanciata dall’organizzazione menscevica di San Pietroburgo. La politica menscevica era sostanzialmente quella di una rivoluzione democratica, condotta sostenendo da sinistra l’iniziativa liberale e il loro futuro governo [esemplificativa la loro scelta di partecipare alla campagna dei banchetti nell’autunno 1904, una serie di pranzi politici per l’assemblea costituente convocati dall’Unione di Liberazione, sulla falsariga della Campagne des banquets che portò alla caduta della monarchia francese nel 1848]. Nel quadro dell’arretratezza politica e sociale della Russia, infatti, i menscevichi ritenevano che solo con una democrazia borghese si sarebbe potuta dispiegare la lotta di classe, riproducendo così pedissequamente lo schema dello sviluppo sociale e politico dei principali paesi capitalisti. I menscevichi, cioè, non avevano un’impostazione schiettamente riformista o collaborazionista (alla Bernstein o alla Jures, per intenderci) e ritenevano che il partito dovesse assolutamente tenersi fuori dal governo (per evitare ogni complicità con politiche antioperaie, ma anche ogni eventuale scelta anti-imprenditoriale che avrebbe rischiato di gettare la borghesia nelle braccia della reazione). Il compito dei socialdemocratici, quindi, si doveva limitare ad una coerente opposizione politica e sociale al governo liberale, permettendo così al capitalismo di svilupparsi e quindi alle condizioni rivoluzionarie (oggettive e soggettive) di maturare. I consigli erano sostanzialmente pensati come uno strumento di questa politica: strutture larghe, di fronte unico e informali, in grado di dare una dimensione attiva e di massa a questo sostegno operaio alle politiche democratiche e rivoluzionarie. Da questo punto di vista, l’impostazione menscevica vedeva i Consigli come un primo rassemblement da cui sarebbe potuta sorgere l’organizzazione politica della classe operaia. In fondo, già al congresso del POSDR [1903] la divisione con i bolscevichi era avvenuta sulle fluidità delle forme organizzative del partito: i menscevichi pensavano quindi ai Consigli come primordiale organismo di massa che sarebbe poi stata reso superfluo dallo sviluppo di un partito operaio, sulla falsariga della SPD. Questa proposta venne sostenuta anche per contrastare la parola d’ordine del governo provvisorio operaio e contadino (vedi sotto), dando all’iniziativa operaia una dimensione diversa e parallela rispetto a quella del governo [nella loro intenzione lasciato totalmente all’iniziativa liberale]. Questa politica, in ogni caso, presentava aspetti contradditori, dal momento che proprio l’autorganizzazione di classe che veniva promossa creava strutture autonome che aprivano la strada da una parte ad un’azione indipendente del proletariato, dall’altra ad un potere che si ergeva indipendentemente dal governo [sulla falsariga di quanto vagamente delineato da Marx ed Engels nell’Indirizzo alla Lega dei Comunisti del 1850]. Lo riconobbe Martynov (uno dei principali esponenti menscevichi), che sottolineò come la coesistenza di due organizzazioni del proletariato (il partito ed il soviet) è un fenomeno anormale, provvisorio e temporaneo, che presto o tardi sarebbe dovuto scomparire.

I bolscevichi. La linea di Lenin era appunto quella del governo rivoluzionario provvisorio [una coalizione dei partiti socialisti, senza chiudere ad altre forze radicali], espressione di una dittatura democratica operaia e contadina. Cioè un governo delle classi subalterne, stante la strutturale debolezza delle forze liberali in Russia e lo sviluppo di un proletariato organizzato, ma con un programma democratico sostanzialmente incentrato sulla riforma agraria. Come sottolineò lo stesso Lenin nel 1905: dov’è da cercare la fonte del caos martinoviano? …nell’aver dimenticato quello strato di popolo che sta tra la borghesia e il proletariato (cioè la massa delle popolazioni povere delle città e delle campagne, i mezzi proletari e mezzi imprenditori)… l’adempimento del nostro programma minimo (la proclamazione della repubblica, il popolo armato, la separazione della Chiesa dallo Stato, libertà democratica e decisive riforme economiche) è inconcepibile senza la dittatura democratica delle classi inferiori…Non è chiaro allora che non si tratta qui soltanto di proletariato in contrasto con la borghesia, bensì delle classi inferiori che costituiscono la forza motrice di ogni rivolgimento democratico? Al III congresso del POSDR [aprile/maggio 1905, Londra] l’unico strumento di questa politica era considerato il partito, animatore nella resistenza contro la reazione, agente diretto dell’iniziativa nell’assemblea costituente e nel governo provvisorio. Le strutture di classe non erano considerate, se non i comitati rivoluzionari di fabbrica, quartiere e villaggio: organismi di avanguardia per organizzare gli scioperi, radicare il partito e preparare l’insurrezione (con una proiezione di massa, quindi, ma che non organizzano le masse). Il centro dell’iniziativa era infatti concentrato sull’insurrezione: in una rivoluzione, prima di tutto, è importante vincere e quindi stabilire un governo rivoluzionario provvisorio. L’elezione dei delegati/e del popolo [del popolo, non della classe, nel quadro di una rivoluzione democratica, ndr] non sono il prologo, ma l’epilogo dell’insurrezione. [E ancora] gli organi del nuovo potere popolare…sono i partiti rivoluzionari e le organizzazioni di combattimento degli operai, dei contadini e degli altri elementi del popolo. Questi organi realizzano in concreto l’alleanza tra il proletariato socialista e la piccola borghesia rivoluzionaria. Per questo motivo, pur mantenendo la nostra fisionomia e indipendenza di partito, entreremo nei soviet dei deputati operai e negli altri organismi rivoluzionari. D’altra parte, i Consigli non sono un parlamento operaio o un organo  dell’amministrazione autonoma del proletariato, sono un’organizzazione di battaglia per ottenere determinati obbiettivi [Lenin, 23 e 25 novembre 1905]. In questi passaggi emerge chiaramente la linea bolscevica di allora: favorevole a sostenere i consigli come strutture di lotta e di alleanza democratica, ma ostili ogni qual volta i Consigli evolvevano in organismi di autogoverno della classe, delineando un potere operaio. Non a caso proprio in ottobre (nel mese cruciale in cui si forma il soviet di San Pietroburgo) l’organizzazione della città elaborò una risoluzione che chiedeva l’adesione esplicita del Soviet al programma socialdemocratico. Al III congresso, pochi mesi prima, Lenin si era scontrato con gli uomini dei comitati, una tendenza che considerava gli operai incoscienti e ne limitava il ruolo nel partito. È questo ambiente, in particolare, che vive i Consigli come strutture estranee al processo rivoluzionario e persino pericolose (perché autonome dal controllo del partito), ritenendo impossibile una convivenza tra partito e soviet. Mendeleev non a caso pubblicò proprio in quei giorni di ottobre un articolo in cui sottolineava che i Consigli avrebbero dovuto limitarsi all’azione sindacale, subordinarsi al partito e quindi dissolversi: per questo i componenti del partito avrebbero dovuto dimettersi se quella risoluzione non fosse stata approvata. Il CC pubblicò questa risoluzione a fine ottobre, in qualche modo facendola diventare una direttiva generale e sulla base di questa risoluzione si iniziò persino una campagna agitatoria nelle fabbriche (anche se il partito, per fortuna, non agì conseguentemente dappertutto). Questa iniziativa fu comunque fermata a novembre, con l’arrivo di Lenin. Lenin scrisse persino un articolo per Navaja Zizn’ che contrastava pubblicamente queste tendenze settarie (I nostri compiti e i Soviet dei deputati operai), anche se la redazione lo bloccò e arrivò alle stampe solo 1940 [a dimostrazione delle resistenze presenti]. Nel testo, in ogni caso, si riconosceva l’errore della richiesta ai Soviet di aderire al programma di un partito, dal momento che i Consigli vi erano interpretati come organi dell’alleanza tra socialdemocratici e democratici radicali borghesi, nucleo del futuro governo provvisorio. Una posizione che Lenin mantenne negli anni successivi, continuando ad intenderli come semplici strumenti operativi dell’insurrezione, non come espressione di autorganizzazione e autogoverno della classe.

Trotsky arrivò a San Pietroburgo avendo già consumato una prima rottura con i bolscevichi al secondo congresso del POSDR (1903, vedi I nostri compiti politici, contro l’impostazione centralizzata di Lenin) ed anche una seconda con i menscevichi nell’autunno 1904 (per la loro partecipazione alla campagna dei banchetti). Da qualche tempo si era invece stretta la collaborazione con Parvus, insieme a cui aveva affinato uno sguardo complessivo sul modo di produzione capitalista, come un’attenzione allo sciopero generale ed ai processi di autorganizzazione della classe. Con questo contradditorio percorso, tenne all’inizio una linea simile a quella bolscevica (sciopero politico, insurrezione e governo provvisorio). I Consigli erano quindi per lui soprattutto strumento di unificazione del proletariato, per fondere i vari strati e settori della classe, oltre che i diversi gruppi politici. Trotsky, infatti, confrontandosi negli anni precedenti con la Luxemburg aveva assimilato i problemi e la complessità del processo di attivazione della classe: i Consigli venivano quindi valutati come un necessario strumento di espressione dell’autorganizzazione di massa, finalizzata allo sciopero generale politico. Diversamente dall’impostazione bolscevica, colse quindi subito l’importanza del loro ruolo nella lotta contro il regime, per la loro capacità di unire e guidare le masse. Sulla base dell’esperienza del 1905, Trotsky elaborò poi in Bilanci e prospettive [1906] una vera e propria svolta: la necessità di condurre una rivoluzione permanente, a causa dello sviluppo ineguale e combinato del capitale. In un mercato mondiale integrato, dove lo sviluppo capitalistico era condotto dal capitale internazionale e dallo Stato, la borghesia aveva radici in Russia troppo deboli (ed una paura troppo grande di un proletariato già organizzato) per condurre in porto la rivoluzione democratica. Questi elementi, in fondo, erano già stato sottolineati nel corso del 1904 e del 1905 da diversi esponenti [Parvus, Mehring, Luxemburg e persino Kautsky]: l’innovazione che Trotsky introdusse nel 1906 è che il proletariato doveva farsi carico di procedere senza soluzione di continuità alla realizzazione di un programma socialista [in contrasto con la linea di Lenin]. Come noterà nel 1909, infatti, porre dei limiti democratici al governo operaio non significherebbe nient’altro che un tradimento degli interessi dei disoccupati, degli scioperanti, infine dell’intero proletariato. Per questo il potere rivoluzionario si troverà di fronte a obbiettivi problemi socialisti, ma alla loro risoluzione s’opporranno, in una determinata tappa, le arretrate condizioni economiche del paese. Nel quadro di una rivoluzione nazionale non c’è via d’uscita da questa contraddizione. E quindi per Trotsky, fin dal principio si presenta al governo operaio il compito di unire tutte le proprie forze a quelle del proletariato socialista dell’Europa, per cambiare le condizioni del mercato mondiale ribaltando il sistema di produzione dominante. Un’elaborazione che assegnava all’autorganizzazione di classe, ai Consigli, il ruolo di nuovo centro del potere rivoluzionario: non più un semplice strumento di lotta o di unificazione del proletariato, ma un organo della rappresentanza della classe e quindi della dittatura del proletariato. La sostanza del soviet consistette nello sforzo di diventare un organo di pubblica autorità. […] Il Soviet era in realtà un embrione di governo rivoluzionario. Non un’organizzazione in seno al proletariato, per influenzare le masse, ma un’organizzazione del proletariato, espressione organizzata della volontà del proletariato come classe. L’arma principale del Soviet fu lo sciopero politico di massa. Il soviet però gestì anche una stampa libera, la sicurezza dei cittadini, … un proprio ordine democratico nella vita della popolazione lavoratrice urbana. Costituisce cioè un potere fornito di autorità. Un autogoverno organizzato per la prima volta sul suolo Russo. [Il soviet del 1905 e la Rivoluzione, 1906]. Trotsky in queste riflessioni ne coglie quindi anche il profilo di nuova democrazia, preannuncio di un nuovo ordine sociale. Il soviet era, o perlomeno aspirava a diventare, un organo di potere. Nel 1907, Trotsky sulla Neue Zeit preciserà che senza dubbio il prossimo nuovo assalto della rivoluzione porterà ovunque sulla sua scia l’istituzione dei consigli dei lavoratori.

Nel 1917, infatti, i Consigli saranno posti al centro del percorso rivoluzionario. Questo sarà anche il terreno della ricomposizione tra Lenin e Trotsky, a partire dalle Tesi di aprile: non solo cioè con il cambio di indirizzo del partito bolscevico sulla dittatura democratica, ma anche con una nuova interpretazione dei Consigli (tutto il potere ai soviet!). Una svolta che fu anche il portato di una riflessione sull’imperialismo e sul ruolo dello Stato, avanzata in prima battuta da Bucharin in polemica con lo stesso Lenin. Il rapporto dialettico tra classe e partito, tra processi di autorganizzazione di massa e ruolo del partito, si delinea quindi in una dinamica complessa, con profonde discontinuità teoriche che permetteranno di sviluppare un’impostazione consiliare in grado di contrastare sia le tendenze conciliazioniste sia quelle avanguardiste.

1917, CONSIGLI E PARTITO

I bolscevichi e i soviet: la continuità di una linea. Nel 1905, come abbiamo visto, i bolscevichi si erano posti l’obbiettivo di un governo rivoluzionario provvisorio, espressione di una dittatura democratica operaia e contadina, frutto di un’azione insurrezionale del partito nel quadro dell’assemblea costituente. Tale impianto non era stato modificato nel confronto del partito dopo la rivoluzione. Nel febbraio/marzo 1917, quando in modo improvviso si scatenò la rivoluzione, questa rimaneva quindi la loro linea di riferimento: la conduzione dell’intervento rivoluzionario rimaneva affidata alle strutture del partito o ai comitati da loro diretti. Come scrisse Šljapnikov, non riteniamo che una struttura non affiliata al partito possa guidare questo movimento semi- spontaneo. Di conseguenza, i bolscevichi non chiamarono alla costituzione dei consigli dei deputati operai: nel manifesto A tutti i cittadini della Russia del 28 febbraio [calendario giuliano, in ritardo di 13 giorni rispetto a quello gregoriano che usiamo attualmente] i Soviet non furono neanche menzionati, mentre invece si chiamò alla pronta costituzione di un governo provvisorio per permettere la nascita di un nuovo ordine repubblicano. Rimaneva cioè pienamente in vigore l’impostazione che vedeva il prologo rivoluzionario nella presa del potere e la costituzione di un nuovo ordine democratico come suo epilogo. Certo, non tutto il partito bolscevico ebbe questa concezione e questa prassi, essendo qualcosa di molto più vivo e articolato di quanto trasmesso da una certa tradizione storica (che purtroppo domina anche in alcuni settori comunisti rivoluzionari). Per esempio, il 1° marzo la sezione di Vyborg (il quartiere operaio della capitale, con Kronstadt una delle principali roccaforti rivoluzionarie del paese) chiese che il soviet di Pietrogrado si dichiarasse governo rivoluzionario provvisorio e preparò un manifesto in cui precisò che fino alla convocazione dell’assemblea costituente, tutto il potere deve esser concentrato nei Consigli degli operai e dei soldati, unico governo rivoluzionario possibile. O ancora, il Comitato di Mosca chiamò alla costituzione dei Consigli già nella notte del 27 febbraio, attivandosi poi per il loro concreto sviluppo insieme agli altri gruppi socialisti della città. Questa era in realtà anche la posizione del piccolo gruppo indipendente che si definiva Mezhraionsty [interdistruttuale], che raccoglieva Trotsky ed i compagni a lui vicino. Queste voci rimasero comunque isolate nel gruppo dirigente bolscevico (solo due componenti del Comitato di Pietrogrado le sostennero). Anzi, quando a marzo Stalin e Kamenev arrivarono dalla Siberia non solo ribadirono questa linea, ma la diluirono ulteriormente ritenendo necessario far esaurire le energie all’attuale governo provvisorio. Gli editoriali della Pravda, sulla base delle risoluzioni del 1906, invitarono quindi alla formazione dei consigli solo come compiti delle strutture locali: come eventuali strumenti, appunto, della loro azione.

Le tesi di aprile. Come tutti sanno, l’arrivo di Lenin a Pietrogrado portò ad una svolta improvvisa e radicale. I suoi contenuti furono enunciati sin dal primo discorso alla Stazione Finlandia (sulla natura socialista della rivoluzione russa), poi le cosiddette Tesi furono lette la sera del 3 aprile a 200 militanti presenti in sede per un’altra riunione. Furono accolte dal gruppo dirigente con sincero stupore e generale disapprovazione, di fatto respinte dal CC e pubblicate a titolo personale sulla Pravda il 20 aprile (Sui compiti del proletariato nella rivoluzione attuale). Le tesi si articolavano in dieci punti sottolineando che (1) la guerra, condotta da un governo liberale, si configurava comunque come iniziativa imperialista; (2) era necessario prepararsi subito ad una seconda rivoluzione per dare il potere al proletariato e agli strati poveri dei contadini; (3) non si doveva appoggiare quindi in alcun modo il governo provvisorio; (4) i consigli erano l’unica forma possibile di governo rivoluzionario e finché fossero stati sotto l’influenza della borghesia occorreva spiegare pazientemente gli errori della loro tattica e sostenere la necessità del passaggio di tutto il potere statale ai soviet; (5) la Russia doveva divenire una repubblica sovietica, sull’esempio della Comune; (6) era necessario confiscare le grandi proprietà e nazionalizzare le terre (la terra ai contadini); (7) si doveva costruire un’unica banca nazionale sotto il controllo dei soviet; (8) questa non era l’instaurazione del socialismo ma il controllo della produzione sociale e della ripartizione dei prodotti da parte dei consigli; (9) era necessario convocare un congresso per approvare le modifiche al programma e cambiare il nome da socialdemocratico a comunista; (10) si doveva prendere l’iniziativa di una nuova internazionale rivoluzionaria.

La doppia rottura di Lenin. Queste tesi segnarono una doppia rottura con la teoria e la tradizione bolscevica.

In primo luogo, assumevano l’obbiettivo di una seconda rivoluzione, archiviando la dittatura democratica e di fatto convergendo con Trotsky. Come abbiamo visto, per Trotsky (e Parvus, che aveva con lui elaborato questa visione tra il 1904 ed il 1906) la dinamica ineguale e combinata dello sviluppo capitalista creava grandi concentrazioni industriali anche in realtà periferiche o economicamente sottosviluppate (come la Russia), per iniziativa di capitali stranieri (imperialismi) ed il sostegno attivo del potere politico (intervento statale). Questa dinamica configurava una particolare struttura sociale, in un paese contadino, con una forte classe operaia organizzata e una borghesia rachitica. Su questo, in realtà, sin dalla fine dell’800 c’era il pieno accordo di Lenin, che appunto assegnava al proletariato il compito di condurre una rivoluzione democratica. Il quadro internazionale in cui Trotsky e Parvus ponevano questa dinamica, però, sottolineava come questi rapporti sociali (in Russia e nel mercato mondiale) rendessero insostenibile una fase democratica e rendessero necessaria una rivoluzione permanente, per evitare il ritorno ad una dittatura reazionaria (che si poneva come condizione per proseguire lo sviluppo capitalista). Lenin, di fronte al primo conflitto mondiale e all’esplicitarsi delle dinamiche imperialiste, aveva quindi compiuto una svolta su queste posizioni e posto con chiarezza l’obbiettivo della trascrescenza socialista della rivoluzione democratica.

In secondo luogo, assumevano la necessità di una discontinuità non solo nella direzione politica ma anche negli apparati del potere, con l’obbiettivo di costruire quindi un nuovo Stato rivoluzionario. Questa riflessione proveniva in realtà da Bucharin, che nel 1915 aveva scritto L’imperialismo e l’accumulazione del capitale. In questo testo era stato sottolineato il nuovo ruolo che lo Stato assumeva nella competizione imperialista, con un intervento diretto nell’organizzazione della produzione e nell’indirizzo dell’economia. Bucharin definì questo passaggio capitalismo di stato, riprendendo il concetto da alcune riflessioni di Engels nell’Anti-During: partendo dalla nazionalizzazione delle ferrovie di Bismarck, in quel testo ottocentesco si era infatti delineata la possibilità che il capitale si concentrasse nelle mani dello Stato, senza per questo cambiare modo di produzione. Bucharin aveva proseguito questa riflessione nel 1916, ritenendo opportuna una messa in discussione della teoria dello Stato allora prevalente nel movimento socialdemocratico (il suo uso diretto per costruire il nuovo modo di produzione, in contrapposizione agli anarchici), riprendendo i ragionamenti di Marx sulla Comune e quindi definendo l’obbiettivo di un diverso sistema di potere. Un esigenza che, da un altro versante, era stata delineata nel 1912 anche da Pannekoek in una serie di articoli in polemica con… Kautsky [L’azione di massa e la rivoluzione, Teoria Marxista e tattica rivoluzionaria, Socialismo e anarchismo]. Lenin aveva contestato ferocemente questa lettura, rifiutando di pubblicare gli articoli di Bucharin e accusandolo di deviazione e anarchismo, salvo poi approfondire questa nuova prospettiva e renderla organica in Stato e rivoluzione (libro annunciato già a marzo del 1917, nella terza lettera dall’estero, come articolo sulla Comune e le distorsioni dello Stato in Kautsky, scritto poi nell’esilio estivo in Finlandia).

In questa doppio frattura con le sue precedenti impostazioni [che lo avvicinarono a Trotsky e chiusero la polemica con Bucharin], Lenin poneva quindi i Consigli al centro della strategia rivoluzionaria, in primo luogo come strumenti della seconda rivoluzione, in secondo luogo come infrastruttura di un diverso potere politico. Allo stesso tempo cioè poneva la conquista dei Consigli come condizione del processo rivoluzionario e quindi assegnava agli stessi Consigli un ruolo preminente nella formazione del nuovo potere sovietico. Il partito non esauriva il suo ruolo, ma doveva relazionarsi dialetticamente con loro e procedere alla conquista del potere attraverso di loro, solo dopo avervi acquisito la maggioranza.

Dissensi. Questa doppia rottura produsse un’aperta resistenza. Come ricordò Bucharin qualche anno dopo, parte del nostro partito, e in nessun modo una piccola parte del nostro partito, ha visto in questa linea quasi un tradimento dell’ideologia marxista. Kamenev sottolineò infatti che la strada per il socialismo non sta nella presa di fabbriche isolate, ma nella conquista dell’apparato centrale del governo e quindi nel suo intervento sulla vita economica. Nogin, invece, espresse l’opinione che i Consigli avrebbero dovuto gradualmente cedere le loro funzioni ai sindacati, ai partiti e agli organi di autogoverno della classe (comitati di fabbrica). Kalinin dichiarò che non era corretto affermare, che i Soviet rappresentavano la sola forma rivoluzionaria di governo: in questo modo si sarebbe accettato il programma menscevico di autogoverno rivoluzionario del 1905. A contrastarla fu in un primo tempo anche Stalin che, con come abbiamo visto, conduceva con Kamenev una linea attendista: nella prima Conferenza nazionale, a fine marzo, aveva persino sostenuto che il governo provvisorio stesse tutto sommato consolidando le conquiste rivoluzionarie e presentato una mozione per avviare l’unificazione con i menscevichi. La discussione sulle Tesi di aprile attraversò il partito per quasi un mese. Alla prima votazione nel comitato di Pietrogrado (12 aprile) furono bocciate 13 a 2 (1 astenuto). Alcuni settori, però appoggiarono con convinzione la nuova linea: in primo luogo le avanguardie di fabbrica a Vyborg (che, come abbiamo visto, ne aveva anticipato punti essenziali), ma anche la giovane leva moscovita (Smirnov, Osinskii, Lomov, Sokolnikov, Muralov, a cui presto si unì Bucharin), che aveva raggiunto le file bolsceviche nella rivoluzione del 1905 e che costruirà negli anni successivi il nucleo della sinistra del partito. Così, alla conferenza di Pietrogrado (19 aprile) le tesi furono approvate con 20 voti contro 6 (9 astensioni) e alla VII Conferenza panrussa (24-29 aprile) guadagnarono la maggioranza, anche se su alcuni punti una maggioranza non particolarmente ampia (la specifica risoluzione sull’obbiettivo socialista della rivoluzione conquistò infatti solo 71 favorevoli su 118, il 60%), mentre sul cambio del nome dei partito Lenin raccolse il suo unico voto. Queste resistenze mostrano non solo quanto era radicata la linea della dittatura democratica, ma anche quanto larga parte del partito facesse fatica ad assumere un rapporto dialettico con la classe, interpretando sé stessi (l’avanguardia organizzata) come l’unico soggetto necessario e sufficiente per condurre il processo rivoluzionario. Un’impostazione, come abbiamo visto, che aveva profonde radici nell’esperienza bolscevica, in quell’ampia parte del partito che si era formato nella polemica con gli economicisti e nella costruzione dei comitati (con le relative tendenze organizzativistiche).

La costruzione dei consigli nel 1917. Le Tesi di aprile si affermarono, in ogni caso, in una stagione segnata da veloci cambiamenti, nella quale i Consigli si erano sviluppati indipendentemente dall’azione bolscevica, non solo come organismi di fronte unico, non solo come strumento di controllo nei confronti del governo provvisorio, ma anche come vere e proprie strutture di contropotere rivoluzionario. Da questo punto di vista, allora, la dinamica di classe anticipò il partito e in qualche modo sospinse l’affermazione di una linea rivoluzionaria tra i bolscevichi. La rivoluzione, infatti, si era innescata il 18 febbraio a partire da uno sciopero delle solite officine Putilov, che si diffuse velocemente (il 22 già erano coinvolti 200mila lavoratori e lavoratrici). In pochi giorni si impose una dinamica insurrezionale, senza un’esplicita direzione e una leadership definita, ma non nel vuoto: il movimento si sviluppò infatti sullo stesso tessuto di relazioni, immaginari e rappresentanze su cui si era mosso nel 1905. Una dinamica che, nel quadro della guerra e sotto la spinta della rivendicazione della pace, si estese rapidamente anche ai reparti militari. Sin dal 24 febbraio furono eletti i primi delegati/e in alcune fabbriche, mentre tra il 23 ed il 25 diversi gruppi socialisti valutarono la costituzione di un soviet. Il passo decisivo, in ogni caso, fu preso il 27 da alcune avanguardie operaie appena rilasciate dal carcere: in corteo si mossero verso la Duma [il consiglio municipale] e con i deputati socialisti presenti si autonominarono comitato esecutivo provvisorio del Consiglio dei deputati operai, pubblicando subito un appello per l’elezione dei delegati. Alla prima seduta, lo stesso giorno, ne erano presenti solo una cinquantina, ma il soviet iniziò lo stesso a strutturarsi. Già il 28 febbraio furono in grado di pubblicare le lzvestija e in quella giornata la maggior parte delle fabbriche elessero i loro delegati/e: la sessione della sera ne raccolse ben 120. Il 1° marzo, il Comitato esecutivo e la Duma di Pietrogrado si accordarono per l’elezione di un governo provvisorio (in mano ai liberali), il 2 la relativa mozione fu approvata dal Soviet con soli 19 contrari, che si dichiarò organo di controllo della rivoluzione democratica vis-à-vis con il governo. I Consigli si diffusero nel corso della primavera, sia nei diversi distretti di Pietrogrado, sia nel paese, sia al fronte. Entro la fine di marzo erano presenti in tutte le principali città, nelle realtà industriali e nei principali acquartieramenti militari. L’ordine numero 1 del Consiglio dei lavoratori e dei Soldati di Pietrogrado aveva infatti stabilito l’elezione di Consigli in tutto l’esercito a livello di compagnia, battaglione e reggimenti (o unità equivalenti), oltre che su ogni nave. I Soviet contadini, invece, si costituirono molto lentamente, spesso su spinta dei soldati, a partire dai centri agricoli più grandi: per la fine di luglio ce ne erano in 52 provincie su 78, ma solo in 317 su 812 distretti e in pochissimi volost [le amministrazioni più piccole]. Il numero preciso di tutti i Soviet non fu mai determinato, ma è stato stimato che a maggio ce ne erano oltre 400, in agosto 600, ad ottobre 900. La prima Conferenza panrussa (29 marzo/3 aprile) raccolse 138 Soviet di soldati e operai, 7 consigli di armata, 13 di basi militati e 26 di unità al fronte. Il primo Congresso panrusso, a maggio, elesse delegati da ogni soviet in ragione della popolazione (2 ogni 25/50mila abitanti; 3 ogni 50/75mila; 4 ogni 75/100mila e così via sino a un massimo di 8): si riunirono un migliaio di delegati da circa 300 soviet locali, 50 regionali, 20 d’armata. Da sottolineare, per l’importanza della città, la dinamica di Mosca. Il Consiglio fu costituito, come abbiamo visto, anche su sollecitazione della struttura bolscevica. Il comitato provvisorio, in ogni caso, raccolse tutti i componenti socialisti della Duma, rappresentanti degli Zemstvo (i distretti) e dei sindacati, i componenti operai nel comitato di guerra dell’industria. Come a Pietrogrado, i delegati/e furono eletti nel corso della giornata del 28 febbraio e i Consigli si riunirono ai primi di marzo: i Consigli, perché diversamente da Pietrogrado ne furono eletti due, uno dei lavoratori e uno dei soldati.

Rappresentanze. Il consiglio di Pietrogrado raggiunse in breve i 1200 componenti e per la metà di marzo si avvicinò ai 3mila. Di questi, circa 2mila erano soldati e solo 8/900 operai, nonostante il numero di lavoratori e lavoratrici della città era almeno tre volte quello dei militari. Questa sproporzione era dovuta al fatto che, mentre nelle fabbriche si eleggeva un delegato ogni mille lavoratori, per l’esercito c’era un delegato ogni reparto (anche compagnie di 100/200 uomini). Anche tra i lavoratori c’erano evidenti disproporzioni: per le stesse ragioni, le grandi fabbriche (oltre 400 dipendenti) raccoglievano l’87% dei lavoratori ma avevano solo 400 delegati/e, mentre le fabbriche più piccole (13% dei dipendenti) ne avevano altrettanti. Una dinamica che non era limitata alla capitale: per esempio nei due Consigli di Mosca, a giugno, c’erano oltre 1700 delegati/e, ma quello degli operai era più piccolo (poco più di 500 delegati/e) e anche lì era favorita la rappresentanza delle piccole realtà (1 delegato/a ogni 500 lavoratori, ma non più di tre da una singola fabbrica). Per rendere operativo il Consiglio di Pietrogrado (visto l’amplissimo numero di delegati/e), entro la fine di aprile furono costruiti due “piccoli soviet”, uno di lavoratori ed uno di soldati, ognuno di circa 300 delegati/e, che iniziarono a svolgere sia sedute congiunte che separate. Il Comitato esecutivo, costruito sulla falsariga di quello del 1905, in breve arrivò a 42 componenti, incluso un presidente (Chkheidze), due vice (Skobelev e Kerensky) oltre che rappresentanti (non votanti) dei sindacati, delle organizzazioni socialiste nella Duma, dei consigli distrettuali e della redazione dell’lzvestija. Visto il numero, per ragioni operative fu creato un Bureau di 7 componenti, autorizzati a prendere decisioni in situazioni d’urgenza (da confermare nella seduta plenaria del Comitato). Nei mesi successivi furono poi aggiunti altri 16 rappresentanti provinciali, il Bureau fu quindi allargato a 24 componenti e si riunì quotidianamente, mentre il comitato esecutivo tre volte a settimana. Come nel 1905, in ogni caso, i e le delegati/e erano eletti in assemblea, per alzata di mano, di fatto con un meccanismo nominale e maggioritario (con forme cioè molto diverse da quelle odierne e nessuna salvaguardia per le minoranze). La componente menscevica nei primi mesi era quella dominante, avendo forti posizioni sia nella Duma, sia nei sindacati sia tra gli eletti nelle fabbriche. Ai primi di marzo fu costituito il gruppo bolscevico, con una quarantina di componenti (2/3 soldati) su 2/3mila delegati/e. Il soviet di Krondstadt fu l’unico a registrare, sin dalla primavera, un’influenza bolscevica, anche se in altre realtà si ebbe una maggior presenza rispetto la capitale. I consigli, comunque, erano quasi ovunque in mano ai socialisti rivoluzionari. Alla prima conferenza Panrussa (marzo), circa la metà dei mille delegati era SR e solo 14 erano bolscevichi; al primo congresso (maggio), su 822 delegati/e votanti, furono registrati 285 SR, 248 menscevichi, 105 bolscevichi e affini, 73 indipendenti e un centinaio di altre piccole organizzazioni.

I Comitati di fabbrica. I soviet territoriali non erano le uniche strutture in cui si erano organizzati lavoratori e lavoratrici. Sin da fine febbraio si diffusero i comitati di fabbrica [fabricno-zavodskie komitety], come e più che nel 1905 visto che con la caduta del regime zarista il Soviet di Pietrogrado introdusse la giornata delle otto ore e istituì una rappresentanza di fabbrica [sovet y starost]. Le attività di queste strutture erano quelle che oggi, dopo l’esperienza del lungo autunno caldo, attribuiamo classicamente ai consigli di fabbrica: le trattative su salari, orari e condizioni di lavoro nello stabilimento; la gestione dei rapporti tra i lavoratori; l’assistenza culturale ed educativa; la rappresentanza più generale degli interessi dei lavoratori nei confronti delle istituzioni giuridiche e sociali. Rispetto ai Soviet la composizione dei comitati di fabbrica era meno stabile, soggetta all’andamento della propria realtà. I Comitati svilupparono presto rivendicazioni e prassi di controllo operaio, il cui obiettivo era la gestione della produzione e quindi l’emarginazione delle direzioni aziendali. Di fatto, in molte realtà intervennero su questioni economiche, amministrative e anche tecniche, talvolta persino rimuovendo capi e ingegneri. Se i padroni chiudevano le fabbriche, spesso i comitati prendevano direttamente il comando dell’impresa: già a maggio una relazione governativa segnalava come i comitati di fabbrica non esitano a impegnarsi direttamente nell’organizzazione delle proprie attività economiche. Proprio la diffusione di questi comitati, oltre che il loro crescente potere nelle fabbriche, marginalizzò le organizzazioni sindacali (al di là di alcuni particolari settori, come le ferrovie). Questo movimento spontaneo, che radicalizzava ampi settori di classe attraverso l’autogoverno delle proprie realtà produttive, sfruttava la disintegrazione del cosiddetto ordine costituito e il contropotere dei soviet, che ne garantiva l’azione. Diversamente dalle direzioni sindacali e dai menscevichi, che spesso tendevano a limitarne i compiti in nome della centralizzazione rivoluzionaria, i bolscevichi ne appoggiarono lo sviluppo, insieme ad anarchici e a settori sindacalisti rivoluzionari: nel quadro delle tesi di aprile, con il nuovo obbiettivo di sostenere e incentivare l’autorganizzazione di classe, la rivendicazione del controllo operaio fu infatti pienamente assunta dal partito. Questa linea fu un elemento non secondario della progressiva conquista di consensi nella classe operaia organizzata: alle elezioni di aprile alle Officine Putilov, su 22 componenti del comitato di fabbrica 6 erano bolscevichi e 7 simpatizzanti; alla prima conferenza di Pietrogrado (fine maggio), una risoluzione sul controllo operaio presentata da Zinoviev fu approvata con 297 favorevoli, 21 contrari e 44 astenuti; nella seconda conferenza della città (ad agosto, nel pieno della repressione contro l’insurrezione di luglio) una simile fu approvata con 213 favorevoli, 26 contrari e 22 astensioni. Anche se bisogna dire che questa dinamica non si verificava ovunque: ad esempio a Mosca nella conferenza cittadina dei comitati di fabbrica (luglio), su 682 delegati/e solo 191 sosterranno la risoluzione bolscevica.

Le giornate di luglio. Come si sa, la rivoluzione conobbe nel corso dell’estate un punto di svolta. Sospinti dal proseguo della guerra (in particolare dalla nuova offensiva lanciata dal ministro della difesa Kerenskij), alcuni settori militari organizzarono una manifestazione di massa che innescò una dinamica insurrezionale. Già nel mese di giugno, a fronte dei preparativi dell’offensiva, si erano sviluppate ampie proteste. Una delle strutture del partito bolscevico (l’organizzazione militare) aveva programmato una dimostrazione armata contro la ripresa della guerra, ma l’iniziativa fu fermata dal Soviet (dovette intervenire lo stesso Lenin per assicurarsene): la dimostrazione si tenne la settimana successiva, sotto l’egida dei Soviet e disarmata, ma si trasformò comunque in una mobilitazione di 400mila persone contro il governo, con slogan per la pace e per il potere ai soviet. Settori anarco-comunisti (legati alla Federazione di Pietrogrado) progettarono quindi un’ulteriore contestazione per i primi di luglio. In quel momento nella Capitale c’erano tre diverse strutture del partito bolscevico, tra loro non proprio coordinate (sempre a proposito dell’immagine di una ferrea centralizzazione del partito, spesso distante dalla realtà): il CC (il massimo organismo dirigente), l’Organizzazione militare panrussa e il Comitato di Pietroburgo. Molti membri di base del partito bolscevico consideravano ormai inevitabile, perfino desiderabile, una rapida insurrezione e l’Organizzazione militare, come ampi settori del Comitato di Pietrogrado, di fatto sostennero l’azione contro il governo provvisorio nonostante gli espliciti pareri contrari del CC, di Lenin, di Trotsky e di tutti i principali dirigenti. Il 3 luglio il Primo reggimento mitraglieri si ammutinò e con il sostegno di diverse altre unità diede il via ad una mobilitazione, che vide progressivamente coinvolti tra i suoi protagonisti ed organizzatori i settori bolscevichi più combattivi. Il corteo alla fine, con oltre 60/70mila partecipanti, assediò il palazzo del Soviet, chiedendo di prendere in mano il potere e interrompere la guerra. Il giorno dopo, nonostante i tentativi della direzione bolscevica di mantenere pacifiche le dimostrazioni, un corteo si trovò sotto il fuoco di cecchini, oltre che cannoneggiato da alcuni reparti cosacchi. In quel contesto alcuni reparti militari (in particolare il primo reggimento mitraglieri che aveva dato il via alle proteste e i marinai di Kronstadt, bolscevichi, nel frattempo arrivati in città) assediarono nuovamente il Soviet: Cernov, il principale esponente SR, uscì per trattare, fu aggredito [si racconta che gli intimarono prendi il potere quando ti viene dato, figlio di un cane] e fu messo in salvo a fatica da Trotsky (nonostante il suo particolare ascendente sui marinai di Kronstadt). In ogni caso, la dirigenza bolscevica si impegnò per mantenere pacifica la dimostrazione. Il 5 luglio, però, il Comitato esecutivo del Soviet e il Distretto militare di Pietrogrado lanciarono un’operazione militare per riprendere il controllo della capitale, diversi dirigenti bolscevichi furono arrestati e Lenin si diede latitante.

Tesi di aprile e tesi di luglio: il ritorno di tentazioni avanguardiste. Il 13 luglio si tenne una conferenza clandestina del CC. Per questa riunione Lenin preparò le cosiddette tesi di luglio. Queste nuove tesi si discostavano alquanto da quelle di aprile, articolandosi in quattro punti: (1) la controrivoluzione si è consolidata e impadronita del potere dello Stato, quindi ci si trova di fronte ad una dittatura militare mascherata da istituzioni democratiche; (2) i menscevichi e socialrivoluzionari hanno scelto, per paura della rivoluzione, di essere le foglie di fico della controrivoluzione; (3) la parola d’ordine sul potere ai soviet, che delineava un possibile sviluppo pacifico della rivoluzione, non sarebbe più possibile, perché la democrazia dei Consigli è stata tradita da menscevichi e socialrivoluzionari; (4) è quindi necessario preparare un’insurrezione armata comunista, l’unica in grado ormai di abbattere la dittatura. Quanto la situazione fosse diversa lo rivelarono i mesi successivi, quando si mosse Kornilov. In ogni caso, le indicazioni di Lenin erano quelle di abbandonare ogni intervento nei Consigli, diventati per lui un semplice strumento della dittatura. Di fronte al pericolo di perdere tutto il terreno conquistato, Lenin sembrò cioè abbandonare non solo le parole d’ordine tattiche delle tesi di aprile, ma anche (e soprattutto, ci viene da aggiungere) tutto il percorso dialettico di costruzione del processo rivoluzionario attraverso l’autorganizzazione di classe e lo sviluppo di nuove strutture di potere. L’iniziativa si concentrò nuovamente solo sul partito, come prima della svolta della primavera: l’obbiettivo era infatti quello di un’insurrezione armata per un governo operaio e dei contadini poveri. Certo, Ordzonikidze riferì in seguito che Lenin aveva pensato di trasferire ai comitati di fabbrica il ruolo di organi insurrezionali, visto che questi (come abbiamo visto) erano più influenzati dalle proposte bolsceviche: nel quadro delle tesi di luglio, però, il loro compito ricorda più quello che Lenin stesso attribuiva ai Consigli nel 1906 (semplici strumenti dell’azione insurrezionale del partito) rispetto a quelli tratteggiati ad aprile (organi di organizzazione della classe e sviluppo del nuovo potere transitorio).

La reazione del partito alle tesi di luglio. Diversamente da aprile, il partito non si fece convincere. Non tanto per la resistenza del suo gruppo dirigente (che pure, come ad aprile, ci fu), quanto per le indicazioni che provenivano dal suo corpo, impegnato in prima fila a Vyborg e nelle altre realtà. Alla riunione del CC del 13 luglio, infatti, il documento di Lenin fu respinto con 10 voti contrari su 15 [secondo Rabinowitch, 2004, tra i più determinati oppositori, oltre a Zinovev che mandò un intervento scritto, si segnalarono Nogin, Rykov e Volodarsky, un interdistrettuale in quel periodo tra i principali agitatori alla Putilov; tra i più accesi sostenitori Sverdlov e Molotov]. La risoluzione approvata da quel CC, infatti, non riconosceva il pieno asservimento alla controrivoluzione del governo provvisorio, non rinnegava la parola d’ordine su tutto il potere ai soviet, ma anzi additava la necessità di trasferire subito il potere ai Consigli, i quali avrebbero dovuto compiere passi decisivi per finire la guerra, porre termine ai compromessi con la borghesia, distribuire la terra, stabilire il controllo operaio e distruggere la reazione [i principali temi su cui nelle fabbriche e nell’esercito era cresciuto il consenso bolscevico]. Lenin reagì a questa decisione con collera e allarme, scrivendo Sulle parole d’ordine: un articolo in cui denunciava l’incapacità dei partiti di avanguardia di comprendere la nuova situazione a fronte di una svolta repentina, ripetendo parole d’ordine giuste fino a ieri ma che oggi hanno perso significato. Lenin, quindi, ribadiva che oramai il potere era nelle mani dei Cavignac [l’organizzatore della sanguinosa repressione del giugno 1848 a Parigi], i soviet avevano fallito e un nuovo ciclo doveva partire senza le vecchie classi, i vecchi partiti, i vecchi soviet.

Il dibattito nel partito si svolse nel corso del mese di luglio, al VI congresso (a fine mese, con oltre 150 delegati/e, in assenza di Lenin, Trotsky e diversi dirigenti in prigione o in clandestinità). Stalin si collocò nell’alveo di Lenin, prima con prudenza e poi più nettamente, tenendo la relazione congressuale sulla situazione politica. Stalin, infatti, sostenne che i Consigli in realtà lavoravano silenziosamente con la borghesia, e impegnarvici significava mettersi nelle mani del nemico; per questo si doveva condurre l’insurrezione e in caso di vittoria affidare il potere ad un governo operaio sostenuto dai contadini poveri. Una volta conquistato il potere, infatti, avremmo saputo come organizzarlo (ribadendo quindi proprio la vecchia impostazione sulla conquista del potere come prologo al processo rivoluzionario). Poco prima della relazione, comunque, l’articolo di Lenin sulle parole d’ordine fu stampato dai marinai di Kronstadt e distribuito ai delegati/e. Stalin presentò quindi un documento in 10 punti, forse scritto da Lenin, che ne richiamava gli elementi principali [il potere è nelle mani di una cricca controrivoluzionaria, sostenuta degli alti comandi dell’esercito; l’ottavo punto in particolare sosteneva che i soviet erano un fallimento, il progresso pacifico della rivoluzione impossibile e la presa del potere doveva avvenire alla prima occasione]. Tra gli interventi che lo sostennero si segnalarono Molotov (noi non possiamo combattere a favore dei soviet che hanno tradito il proletariato), Sokolnikov (io non so in quale manuale di istruzioni marxista è scritto che solo i soviet sono organi rivoluzionari, i soviet hanno cessato di esser rivoluzionari quando i cannoni si sono mossi contro la classe operaia), Smilga (il potere si trova nelle mani di una cricca militare, occorre abbattere il governo esistente), Bubnov (i soviet ora sono privi di potere, bisogna cancellare quella parola d’ordine). Alla conferenza di Pietrogrado, però, i 18 emendamenti presentati da Molotov furono tutti bocciati (ed il documento finale, che ricalcava quello del CC, approvato con 28 voti a favore, 3 contrari e 28 astenuti). Al congresso, contro le tesi di luglio intervennero in particolare Volodarsky (mentre il governo va a destra, soviet e partiti vanno a sinistra, pericoloso isolarsi da essi), Jurenev (che ricordò il consolidamento del partito nei soviet, il rischio isolamento, la necessitò di una radicale riformulazione del punto otto) e alcuni dirigenti moscoviti (che sottolinearono l’importanza di difendere i soviet). Alla fine, 8 interventi su 15 sostennero la necessità di mantenere in vita la linea sul potere ai soviet, mentre Bucharin assunse una posizione intermedia. Per uscire dall’impasse, una commissione elaborò una mozione di compromesso (votata poi a larga maggioranza), in cui si registrava il passaggio ad una dittatura controrivoluzionaria, ma si indicava la necessità di proteggere le organizzazioni di massa e in particolare i soviet dagli attacchi controrivoluzione. Con questa linea, i bolscevichi si assicurarono la maggioranza al soviet di Pietrogrado ai primi di settembre (proprio prima dell’annuncio di Kornilov e la nuova svolta politica), ma già il 7 agosto questo aveva approvato una risoluzione contro gli arresti degli internazionalisti (dimostrando di non esser esattamente uno strumento della controrivoluzione). Inoltre, a fine agosto, il partito bolscevico risultò secondo alle elezioni della Duma della capitale (180mila voti, dietro ai 200mila di SR, davanti i 114mila Democratici e i 23mila menscevichi), verificando un ampio consenso in città. La resistenza contro il colpo di mano reazionario di Kornilov, la contestazione del governo provvisorio e quindi poi la rivoluzione di ottobre furono condotte con un crescente consenso, conquistando la maggioranza nei soviet (secondo il percorso tracciato nelle tesi di aprile) e prendendo il potere attraverso i Consigli (non contro di essi). Anche se, da un certo punto di vista, la svolta di luglio lasciò traccia in Lenin: ad esempio, nella lettera del 13 settembre al CC, preoccupato che i tempi dell’insurrezione si dilazionassero, sottolineò con forza la necessità di cogliere l’occasione, indifferente alla necessità di verificare la maggioranza bolscevica al secondo congresso panrusso dei soviet (arrivando a definire ogni ritardo un’idiozia completa o un tradimento completo). Fu Trotsky, in quell’occasione, ad imporre i tempi, non per una questione formale ma appunto per segnare la legittimità politica dell’insurrezione e prendere il potere non come partito, ma come nuova forma rivoluzionaria dello Stato: i Consigli.

Rivoluzione, classe e partito: nel 1917 il partito bolscevico si sintonizzò sull’obbiettivo di una seconda rottura rivoluzionaria transitoria (cambiando la classica linea bolscevica della dittatura democratica), riconoscendo nel contempo la necessità di sviluppare un potere rivoluzionario diverso dal semplice uso degli apparati dello Stato capitalista (che portavano il segno di quei rapporti di classe e della subordinazione del lavoro). Sviluppò quindi una strategia che, discostandosi dalla sua tradizione, poneva al centro del percorso rivoluzionario non solo il partito, ma anche lo sviluppo di processi di autorganizzazione e protagonismo della classe. Sostenne queste pratiche, non solo come strumenti insurrezionali e di intervento del partito, ma anche come esperienze di controllo operaio sui processi di produzione (vedi i comitati di fabbrica). Sostenne in particolare i Consigli, organi territoriali eletti da lavoratori e lavoratrici nelle proprie aziende, forme spontanee di coordinamento e organizzazione della classe (come abbiamo visto costruitisi caoticamente), appunto perché in queste strutture vi aveva visto una forma di contropotere (di altro-potere) rispetto a quello dello Stato capitalista. Nonostante la diversa propensione di Lenin, tenne questa posizione a luglio e anche a settembre, conquistò quindi il potere con i consigli e fondò una Repubblica Sovietica. In questo percorso riformulò e completò la relazione tra partito e processo rivoluzionario che si era definita alla fine dell’ottocento e nei primi anni del novecento, nella polemica con i riformisti e con gli economicisti, sottolineando il ruolo indispensabile di una dialettica tra partito e classe, mediata dai processi di massa e dalla capacità di autorganizzazione della classe.

L’esperienza sovietica aprì poi un’altra fase ed un altro percorso storico: già nella primavera 1918 ci fu una prima centralizzazione contro il controllo operaio e ritornarono in auge ipotesi di capitalismo di stato, poi segui la guerra civile, l’accerchiamento imperialista, la militarizzazione e il comunismo di guerra, la crisi del marzo 1921 (le rivolte nelle campagne e a Kronstadt), la NEP, il rattrappimento delle democrazia operaia e di quella nel partito, lo sviluppo del termidoro, il tragico regime burocratico staliniano e quindi l’assestamento di uno stato operaio degenerato. Questa però, come si dice, è un’altra storia. Anche se, come abbiamo detto, non possono sfuggire alcune radici di questi processi nella propensione del partito ad autonomizzarsi dalla classe. La sue dinamiche dopo la presa del potere assumono però forme e determinanti particolari, andando ad abbracciare non solo le relazioni tra una classe subalterna e le sue rappresentanze politiche (più o meno di minoranza, spesso di estrema avanguardia), ma tra una classe che a quel punto si è fatta dominante e la gestione del potere (informando quindi il complesso delle relazioni sociali di un paese). Queste dinamiche, come ha sottolineato Trotsky nella Rivoluzione tradita (1936), assumono particolari connotazioni e destini in un paese arretrato e isolato: le forze produttive sono infatti ancora insufficienti e quindi la tendenza all’accumulazione primitiva, nata dal bisogno, si manifesta attraverso tutti i pori dell’economia pianificata; in questo quadro permane una differenziazione sociale, determinata da norme di distribuzione che rimangono di natura borghese e la burocrazia, sfruttando gli antagonismi sociali, diventa così una casta incontrollabile. Non essendo ancora in grado di soddisfare i bisogni elementari della popolazione, l’economia sovietica genera ad ogni passo tendenze alla speculazione e alla frode interessata […] La povertà e lo stato di incultura delle masse si concretizzano di nuovo sotto la forma minacciosa di un capo armato di un pesante bastone. Congedata e condannata in passato, la burocrazia è divenuta da serva, padrona della società. Divenendolo, si è, socialmente e moralmente, allontanata a tal punto dalle masse da non poter più ammettere nessun controllo sui suoi atti e sui suoi redditi. A queste considerazioni è forse utile affiancarne alcune di Bucharin: al momento del suo passaggio dalla sinistra alla destra del partito infatti, l’esponente bolscevico moscovita riprende alcune preoccupazioni sulla burocratizzazione su cui Lenin stava sviluppando i suoi ultimi contributi (vedi Sulla cooperazione, Riorganizzare l’ispezione operaia e contadina, Meglio meno ma meglio). Ad esempio, in Rivoluzione proletaria e cultura (1923) sottolinea come questi rischi di burocratizzazione potrebbero esser propri di ogni transizione, in quanto la classe operaia in ogni società capitalista (anche quelle avanzate, anzi soprattutto in quelle avanzate) è subordinata non solo dai rapporti di produzione, ma anche nella sua espressione politica e sociale dagli apparati dello Stato. La conquista del potere, pur attraverso organi di autorganizzazione e autogoverno, non è allora detto sia in grado di liberare immediatamente la classe lavoratrice dalle sue abitudini e costrizioni culturali: di conseguenza, a fronte di un proletariato appena emerso dai precedenti rapporti sociali, il partito nella gestione quotidiana potrebbe sviluppare una tendenza burocratica ad autonomizzarsi. Per Bucharin, quindi, il rischio che il partito si possa trasformare addirittura in un ceto indipendente è inscritto in qualunque dinamica rivoluzionaria, non solo nei paesi economicamente arretrati ma anche in quelli avanzati. Qui, aggiungiamo noi, emerge con evidenza la centralità del rapporto tra classe e partito, l’importanza di salvaguardare la democrazia sovietica, le istituzioni e le prassi consiliari, la loro autonomia. Non a caso, ci viene da dire, Trotsky ha sottolineato (in L’agonia del capitalismo e i compiti della IV Internazionale, 1938) che bisogna restituire ai soviet non solo la loro libera forma democratica ma anche il loro contenuto di classe: con questo intendeva la rinascita e lo sviluppo della democrazia sovietica, attraverso la libertà dei sindacati e dei comitati di fabbrica, la libertà di riunione e di stampa, la legalizzazione dei partiti sovietici (decisi attraverso il libero suffragio dagli stessi operai e contadini), ma anche una revisione dell’economia pianificata dall’alto in basso, tenendo presenti gli interessi dei produttori e dei consumatori, in cui i comitati di fabbrica debbono riprendere il diritto di controllo sulla produzione. In conclusione, allora, vogliamo segnalare che forse non è un caso che i due dirigenti rivoluzionari che hanno sottolineato il rischio una degenerazione burocratica siano gli stessi a cui si devono le principali elaborazioni che hanno determinato la rottura leniniana dell’aprile 1917. Anche se poi questi dirigenti conobbero percorsi ben diversi: Trotsky sviluppando coerentemente l’opposizione alla deriva burocratica sovietica, Bucharin accompagnandola nella sua tragica parabola per poi finirvi travolto in prima persona.

Quello che volevamo sottolineare, in ogni caso, è che proprio l’esperienza bolscevica indica come il processo rivoluzionario necessiti di un equilibrio attento tra il partito (il progetto transitorio socialista) e la classe (la sua organizzazione democratica). Da allora è passato un secolo, segnato dalle difficoltà dei processi rivoluzionari nei paesi a capitalismo avanzato, lo sviluppo di fascismi e capitalismi di stato, la degenerazione stalinista, la seconda guerra mondiale e il lungo dominio americano, la costruzione del blocco sovietico e la sua capacità di controllare gli ulteriori processi rivoluzionari, l’egemonia riformista e stalinista sul movimento operaio, la guerra fredda e le guerre di indipendenza nazionale, il lungo ciclo espansivo dei trenta gloriosi e l’ondata della contestazione, la crisi degli anni settanta e il rilancio delle globalizzazione, il crollo dell’URSS, la stagione del Washington consensus, lo sviluppo prorompente del capitalismo in Cina senza soluzione di continuità con la Repubblica popolare, l’emersione sempre più evidente del surriscaldamento globale, l’esplosione della Grande Crisi del 2008 e lo sviluppo nel suo quadro di una nuova stagione di accesa competizione tra i principali poli capitalisti. In questo secolo si sono cioè modificate più volte le forme di organizzazione e regolazione della produzione, la configurazione del mercato mondiale, la strutturazione internazionale di capitale e lavoro, le dinamiche della lotta di classe. Tutto questo è cambiato più volte ed è ancora soggetto a tendenze e controtendenze che muteranno l’organizzazione della classe, la sua coscienza politica e l’evoluzione dei movimenti di massa. Quello che non è cambiato sono i rapporti sociali che si strutturano nella produzione e, quindi, la dinamica di fondo delle relazioni tra le classi principali (capitale, lavoro e ceti intermedi). Non è cambiata quindi la necessità di organizzare un progetto politico transitorio, mentre si sono evidenziati proprio in questo tragico secolo i rischi e le conseguenze di una certa concezione e una determinata prassi del partito. Soprattutto, si rinnova in ogni nuova stagione il problema di come sostenere i processi di organizzazione e di autorganizzazione della classe, una classe sempre più disarticolata in diverse formazioni sociali e differenti identità, e di come dialettizzarli con l’iniziativa rivoluzionaria del partito. Classe, partito e consigli non sono allora un punto di arrivo, ma il punto di partenza su cui provare ad articolare un percorso rivoluzionario per l’oggi e per il domani.

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