A proposito del XIX congresso, del documento alternativo e delle estremizzazioni avanguardistiche del PCL e dei suoi compagni di strada.

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 Il XIX congresso della CGIL si è sostanzialmente aperto lo scorso 20 giugno, con l’approvazione da parte del Direttivo nazionale di due documenti contrapposti. Non è una novità. A garantire questa possibilità fu la ridefinizione programmatica della confederazione nel 1989/91, quando fu superato l’accordo pattizio che ne regolava la vita dal 1944. Questa nuova impostazione pluralista fu codificata paradossalmente proprio quando le tendenze concertative e sussidiarie, radicate in CGIL da molto tempo, hanno iniziato a dominarla. In un sindacato di massa, in realtà, si scontrano sempre due anime: quella burocratica e quella classista. Come disse un delegato SAME nella relazione a una famosa assemblea al Lirico, è la doppia natura del sindacato. La storia della CGIL porta le tracce di entrambe queste anime. La prima la si è vista nelle politiche di contenimento e moderazione salariale della ricostruzione postbellica, della svolta dell’EUR, della concertazione degli anni ’90. La seconda si è espressa nel ritorno alle fabbriche, nei conflitti degli anni ’60 e ‘70, nei movimenti autoconvocati, nell’autunno dei bulloni. Oggi che questa doppia natura può esprimersi liberamente nel pluralismo programmatico, l’apparato ha però sviluppato la sua autoreferenzialità attraverso i centri regolatori, i servizi e le pratiche sussidiarie (enti bilaterali, fondi integrativi, ecc). Eppure, anche oggi, la CGIL non può esser ridotta a questa deriva burocratica. Il suo radicamento, la molteplicità della sua configurazione (in cui categorie e comitati iscritti hanno ancora un ruolo), la sua storia, le sue contraddizioni e inconcludenze le permettono di far vivere conflitti significativi. Qualcuno pensa che non si insorge stando in CGIL. Qualcuno ha pensato che si fosse chiuso ogni spazio di un’opposizione interna. L’esperienza del Collettivo di Fabbrica GKN ha mostrato il contrario, dai delegati di reparto alla convergenza, maturando proprio nella FIOM la capacità di non partire dalla propria identità, ma dai rapporti di forza e dallo sviluppo dialettico delle vertenze. GKN, sebbene abbia svolto in quest’anno una funzione unica e generale, non è sola: nella CGIL si originano ancora molteplici processi di sviluppo della lotta di classe, anche per un’impostazione plurale che ha pochi paragoni nel sindacalismo italiano. I documenti alternativi, in questi trent’anni, non sono però stati tutti uguali: nelle diverse contingenze, hanno assunto significati, configurazioni e proposte diverse. Oggi al centro de Le radici del sindacato c’è l’autonomia del lavoro. La segreteria Landini, infatti, lungi da concretizzare le diffuse aspettative su una svolta conflittuale e di strada, ha confermato la strategia cogestionaria ereditata da Camusso (il patto tra produttori) e l’ha sviluppata nell’unità sindacale, in un rapporto ambiguo di reciproca legittimazione con gli esecutivi, nel rilancio di partecipazione e codeterminazione, in una nuova centralizzazione organizzativa. Le radici del sindacato che il documento alternativo propone, allora, non stanno nella storia, ma in quella seconda natura di un sindacato di massa che guarda all’autonomia del lavoro nei processi di produzione, dal quale si origina un movimento di resistenza e di trasformazione sociale, attraverso il conflitto su salario, orario e ritmi di produzione (l’estrazione di plusvalore assoluto e relativo). Questo è oggi il nucleo essenziale di un’alternativa, in particolare a fronte di due processi che segnano il nostro prossimo futuro: primo, la nuova stagione di aperte contrapposizioni tra poli capitalistici, innescata dall’invasione dell’Ucraina e che si sta dispiegando con economie di guerra, nazionalismi e militarizzazioni sociali; secondo, la crisi climatica e i suoi tipping points, le riconversioni verdi e i movimenti interclassisti, che rischiano da una parte di schiacciare il lavoro vivo sulla sua dimensione di fattore della produzione, dall’altro di trascurare i rapporti di produzione nei processi di trasformazione. Nonostante questo impianto, c’è chi pensa che sia un documento democratico-riformista. Le parole hanno un senso. Non si dice ambiguo, confuso, centrista o riformista. Si dice democratico: vuol dire che si sarebbe commessi della classe capitalista nel campo operaio. Questa è una caricatura politica, sorretta da una prassi settaria, con impostazioni sbagliate (sostegno alla resistenza Ucraina), contraddizioni nelle rivendicazioni, forzature interpretative (nuovo modello di sviluppo). Una caratterizzazione senza misura, una critica pretestuosa, del resto in linea con la progressiva deriva avanguardistica del PCL.

Il XIX congresso della CGIL si terrà sulla base di due documenti contrapposti. Non è certo una novità. Tutti i congressi dal 1991 (XII) ad oggi (XIX) si sono tenuti sulla base di documenti alternativi, eccetto quello del 2006 (XV). L’XI congresso, nel 1986, nonostante si fosse svolto su un documento unitario e con un pluralismo ancora fondamentalmente organizzato su componenti di partito (segretari generali e segretari generali aggiunti; PCI, PCI e terza componente), aveva però visto la presentazione di diversi emendamenti da parte di Democrazia Consiliare (vedi qui a pagina 5). Questa componente era nata due anni prima, oltre le logiche di partito, raccogliendo alcuni settori del cosiddetto movimento dei consigli e, in particolare, di Democrazia Proletaria.

LA RIFONDAZIONE PROGRAMMATICA DELLA CGIL

A segnare la possibilità di presentare documenti alternativi furono le trasformazioni del 1989, anche prima della cosiddetta caduta del muro, in cui la CGIL con due conferenze (quella di programma a Chianciano nell’aprile, quella di organizzazione a Firenze a novembre) delineò un’impostazione programmatica, lo scioglimento delle componenti e quindi poi la definizione dei centri regolatori (le segreterie regionali confederali e quelle nazionali di categoria) come strutture di governo dell’organizzazione. Venne cioè così definitivamente superata la costituzione politica e pattizia della CGIL (Patto di Roma tra PCI, DC e PSI), decenni dopo le scissioni del 1949-50 e a vent’anni dalla stagione dei consigli (il VII congresso della CGIL, nel fatidico autunno caldo, che stabilì l’incompatibilità tra incarichi sindacali e politici). Nel momento però in cui l’apparato CGIL si autonomizzò dai propri partiti di riferimento, quando quindi regioni e categorie assunsero il ruolo di nodi centrali dell’organizzazione (determinando quella disarticolazione quasi feudale che oggi caratterizza la confederazione), fu definita non senza fratture e tensioni (nel quadro della trasformazione del PCI in PDS) la possibilità di sviluppare un pluralismo programmatico trasversale a queste strutture, sulla base di convergenze fondate sulla condivisione di analisi e quindi proposte sindacali. Nella ricostituzione della CGIL del 1989/1991, cioè, da una parte l’apparato ha acquisito una sua nuova autoreferenzialità, dall’altro però venne delineato un principio pluralista di articolazione della dialettica nella confederazione.

Questa impostazione pluralista fu assunta e codificata nello Statuto, nei Regolamenti congressuali e nelle Delibere Statutarie, superando (almeno sul piano dei principi e delle regole) sia le logiche pattizio/spartitorie che regolavano storicamente la CGIL, sia quell’impronta centralista che l’egemonia del PCI, con il suo impianto e la sua tradizione stalinista, aveva trasmesso anche al sindacato (pur nella sua autonomia e pluralità politica, particolarmente sviluppata negli anni ‘60 e ‘70). Questa impostazione pluralista si è tradotta, nel corso di un decennio, in due elementi sostanziali. In primo luogo, sin dal 1991, nel diritto di presentazione paritaria di documenti alternativi, anche con forze limitate (3% di componenti del Direttivo nazionale; 400 di Camere del lavoro, CGIL regionali, categorie nazionali; 3 direttivi di categoria di regioni diverse, con almeno il 3% degli iscritti delle proprie strutture; 3 comitati degli iscritti di regioni e categorie diverse, con almeno il 3% degli iscritti delle proprie strutture). In secondo ma non secondario luogo, con il congresso del 2002, nella facoltà di organizzarsi in aree programmatiche, anche non congressuali, con agibilità e diritti di proposta (cioè la facoltà di scegliersi i propri rappresentanti negli organismi). La CGIL era cioè pensata come una nuova casa comune, con un dibattito liberato dai vecchi vincoli di una democrazia delegata e a sovranità limitata (come disse Trentin a Chianciano), in cui era possibile per le minoranze non solo collocarsi all’opposizione, ma stare [anche] all’interno degli esecutivi con la loro fisionomia, la loro autonomia e la loro identità (come disse Claudio Sabattini dal palco del congresso del 1991).

Certo, conosciamo la burocrazia. Proprio la nuova configurazione della CGIL, la nuova autoreferenzialità degli apparati, lo sviluppo di strutture di servizio e sussidiarie (dai CAAF agli enti bilaterali) ha rafforzato pratiche e interessi autocentrati sull’organizzazione. Questa tendenza d’altra parte è sempre inscritta nella stessa natura di un sindacato di massa, sostenuta e accompagnata dallo sviluppo delle aristocrazie operaie come dall’occasionale prevalere di un’identità capitalista in alcuni settori di classe. Ogni lavoratore e lavoratrice, infatti, vive su di sé le contraddizioni di questo modo di produzione: da una parte è un uomo o una donna che lavora, carne e sangue, corpo e mente, con interessi e aspettative contrapposte a quelle del proprio datore di lavoro (cioè è un soggetto indipendente dal processo produttivo); da un altro punto di vista, però, è comunque incarnazione di capitale variabile, fattore della produzione, di cui talvolta si sente una delle componenti anche per l’azione ideologica del padronato, in particolare quando questa azione è sostenuta nel ciclo economico da effettivi spazi di redistribuzione della ricchezza e miglioramento delle condizioni professionali. Lo abbiamo visto sin dalle origini del sindacalismo moderno, pensiamo al suo ruolo nelle derive della SPD.

LE TENDENZE BUROCRATICHE DI UN SINDACATO DI MASSA

Questa tendenza è infatti sempre presente nel sindacato, alimentandosi nelle fasi di sviluppo con l’ampliamento dei margini di compromesso tra capitale e lavoro, nelle fasi di crisi con la disorganizzazione della classe, della sua identità come della sua prassi collettiva. La storia della CGdL prima della guerra ne è stata fortemente segnata, nel quadro di una classe lavoratrice divisa tra diverse professionalità, città e campagna, nord e sud. Proprio questa divisione ha favorito lo sviluppo di tendenze corporative, pratiche cooperativistiche, illusioni municipali o mutualistiche, a partire non solo dalle leghe operaie e professionali (edili, metallurgici, ferrovieri), ma anche dalle realtà in cui si affermava il proletariato bracciantile e i progetti socialisti (come in Emilia e in Romagna). La stessa formazione delle Camere del Lavoro, in grado di organizzare a cavallo tra otto e novecento un proletariato agricolo mobile e relativamente omogeneo, non ha evitato forti caratterizzazioni generaliste e al contempo perimetrazioni territoriali (magnificamente rappresentate, in forma letteraria, nei romanzi di Valerio Evangelisti). La parabola di Ludovico D’Aragona è allora rappresentativa di una tendenza insita nella stessa dinamica sindacale che ha dominato lo sviluppo della CGdL, che dal biennio rosso sino allo sciopero legalitario ha tragicamente portato allo stesso scioglimento della confederazione nel 1927, con la motivazione che andavano accettati la legislazione fascista del lavoro e il sindacato giuridico e corporativo (“Siamo tenuti a contribuire con la nostra azione e con la nostra critica alla riuscita di tale esperimento…”).

La nuova CGIL, rifondata nel 1944, è stata a lungo segnata dalla sua ricostituzione politica: a lungo, cioè ben oltre l’unità sindacale e la presenza della DC nelle sue fila, subendo il peso di una politica comunista e socialista che poneva in secondo piano la conflittualità di classe, nel quadro di una strategia prioritariamente rivolta allo sviluppo delle forze produttive (sulla base di un supposto arretramento strutturale e culturale del capitale italiano). Il PCI, riconfigurato sotto la guida di Togliatti con una matrice stalinista, proiettato nella logica di Yalta (il riconoscimento e poi la coesistenza dei due campi, con una lunga evoluzione sino all’accettazione del Patto Atlantico), ha impostato nel dopoguerra una parabola riformista prima nella via italiana al socialismo (VI congresso, 1956), poi nel compromesso storico (con i tre articoli di Berlinguer su Rinascita del 1973 e il XV congresso, 1975), quindi con la terza fase del socialismo  (che divenne terza via al XVI Congresso, 1983) e infine con le direttrici europeistiche e riformatrici di Natta (XVII congresso, 1986). Il PSI, strettamente legato al PCI sino alla svolta autonomista di Nenni (XXII congresso, 1957), ha sviluppato negli anni ‘60 la collaborazione con la DC nei governi di centrosinistra, nel quadro di strategie di piano e prime riforme strutturali (dalla nazionalizzazione dell’energia elettrica alla scuola media), per poi assumere con Craxi alla fine degli ‘70 una politica sostanzialmente neoliberista (a partire dall’uso di debito e spesa pubblica per ristrutturare i rapporti di forza a favore del capitale, a partire dall’attacco alla scala mobile).

Così, la CGIL negli anni ‘40 e ‘50 subordinò le rivendicazioni salariali, occupazionali e agrarie di lavoratori e lavoratrici alla tenuta degli equilibri politici e alla ricostruzione capitalistica del paese: la situazione richiede che la CGIL debba in ogni momento cercare di conciliare la difesa più vigorosa delle esigenze di vita di tutti i lavoratori con le esigenze generali del paese (Di Vittorio, 1945); oggi non si può concepire la soluzione dei problemi essenziali che interessano i lavoratori se non in funzione della soluzione di problemi fondamentali del paese e della nazione (Di Vittorio, 1947). Una strategia che si concretizzò in una centralizzazione contrattuale e organizzativa della CGIL (che durò sino alle sconfitte del 1955) e in una politica di moderazione rivendicativa (la politica salariale della CGIL si ispira soprattutto a questi due criteri economici fondamentali: assicurare il minimo tenore di vita alla classi lavoratrici; accentuare, accelerare lo sviluppo del processo di produzione del nostro paese; Santi, 1948), che in qualche modo informò di sé anche il Piano del Lavoro (strumento pensato appunto per cogestire le politiche di industrializzazione accelerata del paese, attutendone gli squilibri sociali e territoriali attraverso politiche di investimenti pubblici, imposti conflittualmente dal sindacato). Una lettura che qualche decennio fa era patrimonio diffuso, per esempio nel monumentale testo a cura di Aris Accornero (Problemi del movimento sindacale in Italia, 1943-1955, Fondazione Feltrinelli 1976), ed in particolare nei contributi di Laura Pennacchi, Massimo Legnani, Walter Tobagi, Sergio Garavini, Gian Primo Cella.

Questa linea tornò dominante nel 1978. Prima in una famosa intervista di Luciano Lama, in cui propose la politica dei sacrifici: la politica salariale nei prossimi anni dovrà essere molto contenuta, …l’intero meccanismo della Cassa integrazione dovrà essere rivisto da cima a fondo. L’economia italiana sta piegandosi sulle ginocchia… Perciò, sebbene nessuno quanto noi si renda conto della difficoltà del problema, riteniamo che le aziende, quando sia accertato il loro stato di crisi, abbiano il diritto di licenziare. Poi, poche settimane dopo, si è concretizzata nella svolta dell’Eur, un’assemblea nazionale CGIL CISL UIL con 1.500 delegati e dirigenti che approvò la moderazione salariale come contropartita di un programma di investimenti per l’occupazione.

Una politica che, con la stessa logica dei due tempi (in cui il secondo non arriva mai), fu rinnovata con la concertazione, nella crisi dei primi anni ‘90, quando CGIL CISL e UIL accettarono prima lo smantellamento della scala mobile (1992) e poi un modello contrattuale a due livelli (1993), imperniato sulla moderazione salariale in cambio di una promessa di investimenti per la ricerca, la formazione e una nuova politica industriale (ovviamente, mai visti). Una stagione entrata in crisi nei primi anni duemila, con i contratti separati, i governi Berlusconi, l’attacco all’art.18 e lo smantellamento di quel sistema contrattuale con la Grande recessione del 2009/2012. Una politica comunque testardamente perseguita dal gruppo dirigente della CGIL con i rinnovati tentativi di nuovi patti tra produttori, anche negli ultimi anni.

LE CONTROTENDENZE DELLO SCONTRO DI CLASSE

L’azione della burocrazia, però, trova sempre un contrasto nella stessa natura del lavoro. Anche se nella fasi di ascesa può prevalere la prospettiva di conservare spazi e risultati conquistati, anche se nella fasi di arretramento può prevalere la pressione a organizzarsi come forza-lavoro (anche per conto delle strategie datoriali), il lavoro rimane contrapposto al capitale nei processi produttivi, con una sua indipendenza dagli stessi. L’obbiettivo della valorizzazione, che governa i processi di lavoro produttivi di capitale ed in-forma l’insieme dei lavori, determina cioè inevitabilmente uno scontro tra interessi e diritti diversi, in cui il lavoro è sospinto a definire collettivamente un proprio punto di vista e una propria prospettiva. Nel conflitto che si dispiega nella produzione si definisce allora l’autonomia della classe. Le due diverse forme che può assumere la burocrazia sindacale, quella riformista e quella sussidiaria, trovano allora un limite nel conflitto che nasce dal controllo e dallo sfruttamento del capitale (salari, orari, ritmi ed eterodirezione della prestazione).

Lo abbiamo visto nella storia della CGIL e del sindacalismo italiano in diverse occasioni. L’isolamento e la repressione degli anni ‘50 (il cui simboli furono forse i reparti confino alla FIAT di Valletta) portarono la FIOM e la CGIL a rilanciare l’organizzazione sulla costruzione delle Sezioni sindacali (1° conferenza di organizzazione, dicembre 1954), che dopo la sconfitta alla FIAT Mirafiori nei primi mesi del 1955 furono quindi definite, insieme a una politica di contrattazione articolata, nel IV congresso del 1956: fu il cosiddetto ritorno alla fabbrica, delineato nella “Risoluzione sui problemi dell’organizzazione” in cui si sottolineava che “La Sezione sindacale è lo strumento per l’elaborazione democratica di una politica sindacale aziendale, per l’organizzazione della lotta e di tutta l’attività sindacale sul luogo di lavoro, la propaganda, il tesseramento, il reclutamento, la riscossione dei contributi, la formazione di una sempre più larga rete di attivisti, collettori, propagandisti e diffusori della stampa sindacale. Particolare impegno deve essere posto per la costituzione delle Sezioni sindacali nelle grandi aziende e nelle fabbriche dipendenti dai gruppi monopolistici. L’efficace funzionamento delle Sezioni delle grandi aziende deve essere assicurato attraverso l’articolazione nei Comitati Sindacali di reparto”. Non fu un caso che lo stesso spirito, la ricerca dell’autonomia e la pratica del conflitto, iniziò ad animare anche la CISL, ad esempio alle OM Brescia dove la FIM di Castrezzati proclamò nel dicembre 1958 uno sciopero contro il premio antisciopero FIAT (con un’adesione di soli 21 lavoratori, ma che segnò comunque uno spartiacque), o alla stessa FIAT di Torino dove nel 1958 la FIM ruppe con i Lavoratori Liberi Democratici, che quindi costituirono il sindacato aziendalista e giallo del SIDA (poi Fismic).

Questo radicamento accompagnò un’inedita stagione di sviluppo dello scontro di classe. Le lotte degli elettromeccanici milanesi e ai cotonifici della Valle Susa; l’esperienza torinese di controllo operaio sulla salute, che contribuì allo sviluppo del modello sindacale di lotta per la sicurezza; la costruzione di una conflittualità operaia a Porto Marghera (descritta nel libro di Cesco Chinello sul 1955/1970) o nelle piccole e medie fabbriche emiliane, come ad esempio nell’occupazione della Camiceria Pancaldi a Bologna (ne parla anche il recente libro su Sabattini, Il sindacalista) sono solo alcune delle tante dinamiche che precedettero l’autunno caldo. L’insorgenza operaia del 1969 aprì infatti una stagione straordinaria, che organizzò fuori e dento il sindacato un’ampia avanguardia di delegati/e, consigli e comitati di lotta. Una stagione che proseguì per oltre un decennio, contrastata dalla reazione con la strategia della tensione, contenuta dal padronato italiano con la gestione capitalistica della crisi (inflazione e ristrutturazioni), indirizzata da PCI e PSI (e dalle loro proiezioni sindacali) nell’alveo di una strategia riformista. Questo tessuto conflittuale di delegati, consigli e comitati, comunque, resse e sviluppò un aperto contrasto alle svolte della fine degli anni ‘70: basti pensare all’assemblea del Lirico nell’aprile 1977 e a quelle degli anni successivi; allo sciopero FLM del 1979, oltre e contro la svolta dell’EUR, che portò alla caduta del governo di unità nazionale; al movimento degli autoconvocati prima contro l’accordo del gennaio 1983 e poi contro il decreto di San Valentino del 1984. Una dinamica che si proiettò anche oltre, con lo straordinario  sciopero degli scrutini della scuola nel 1987/88, lo sviluppo del sindacalismo di base a partire dalle prime esperienze a Roma, all’Alfa Romeo di Arese e nella scuola, l’autunno dei bulloni nel 1992, i coordinamenti RSU e le esperienze autoconvocate degli anni ‘90.

Questa dialettica tra diverse tendenze nel sindacato era vissuta con consapevolezza da questo tessuto di delegati e attivisti sindacali. Basti pensare alle straordinarie voci che ci arrivano dal cosiddetto Consiglione di Mirafiori, nel corso della sua ultima riunione al teatro Smeraldo di Torino il 15 ottobre 1980, al termine dei 35 giorni della vertenza FIAT (qui, dal minuto 42e37”). O sentire le parole pronunciate da Evaristo Agnelli, delegato della SAME di Treviglio, nella relazione introduttiva di una delle prime assemblee nazionale dei consigli autoconvocati, in cui sottolineava l’esistenza di un doppio sindacato, quello burocratico e quello dei consigli, dai quali è necessario adesso ripartire per ricostituire unità e forza delle organizzazioni dei lavoratori.

Il PREVALERE DELLE TENDENZE BUROCRATICHE IN CGIL NEGLI ULTIMI DECENNI

Questo argine risulta però debole quando il conflitto arretra, tanto nelle fasi di sviluppo quanto in quelle di crisi. Le tendenze burocratiche tendono cioè a prevalere quando il lavoro è frammentato, scomposto tra settori e categorie, ripiegato su diverse identità (professionali, territoriali o di stabilimento), segnato da ripetute sconfitte, in cui d’altra parte proprio la burocrazia ha spesso un ruolo centrale per la sua azione moderatrice e compatibilista.

Così, proprio i decenni che hanno visto affermarsi il pluralismo programmatico nell’impostazione statutaria e nei principi della CGIL, hanno nel contempo conosciuto un progressivo rafforzarsi dell’apparto sindacale. Certo, in questi decenni non sono mancati scioperi, conflitti e movimenti di massa: le lotte contro le riforme delle pensioni, la reazione nella scuola al concorsone di Berlinguer, le manifestazioni a difesa dell’articolo 18, i precontratti e i 21 giorni di Melfi, le mobilitazioni contro Moratti e Gelmini, lo sviluppo di vertenze contro il precariato nel primo decennio 2000. Sono tutte dinamiche che hanno innescato la partecipazione di lavoratori e lavoratrici, attivato delegate/i e comitati degli iscritti, sviluppando talvolta anche coordinamenti e forme di autorganizzazione, attraversando le diverse sinistre sindacali anche nella CGIL. L’ultimo decennio ha però conosciuto un evidente frammentazione della classe e della sua coscienza collettiva, accelerata dalle sconfitte sul modello FCA e quelle sul jobs act. Nel sindacato confederale, parallelamente, si è diffuso il tesseramento dai servizi (che risponde a bisogni individuali senza organizzarli collettivamente), attraverso gli enti bilaterali e attività categoriali di consulenza (dalle procedure concorsuali degli insegnanti all’adesione a fondi integrativi). Mentre il sindacato di base si è sostanzialmente frammentato su pratiche diverse, in diversi settori di classe, con scarsa capacità di ritessere una prospettiva generale.

Così, in particolare nell’ultimo decennio, si sono compressi spazi e dialettiche in CGIL. La frammentazione del lavoro, l’autonomia di categorie e strutture regionali, il controllo dei centri regolatori (in particolare nella selezione dei gruppi dirigenti) hanno progressivamente asfissiato il confronto su linee e politiche sindacali. Si è così affermata la concezione delle segreterie e degli apparati omogenei (omogenei, cioè, al segretario generale, al di là dell’impostazione collegiale degli organismi che pure rimane nello Statuto): lo abbiamo visto nella riconfigurazione di Corso Italia durante la segreteria Camusso; lo abbiamo sperimentato con la declinazione particolarmente brutale della FIOM di Landini (pensiamo alla cacciata di Agustin Breda dal centro nazionale nel 2010, allora rappresentante di un’area alleata a Camusso; allo scioglimento della segreteria FIOM nel 2012, contro lo Statuto, per cacciarne l’esponente della Rete28aprile; alla cacciata dal centro nazionale dello stesso Sergio Bellavita nel 2016); lo abbiamo conosciuto nei tanti episodi che hanno segnato categorie nazionali, strutture regionali e camere del lavoro, anche nel quadro di dinamiche nella maggioranza. Così, si è diffusa la pratica del silenzio e del dibattito sotterraneo (le politiche di corridoio, mai così fiorenti come oggi), mentre si è ridotto al lumicino, o è scomparso, il confronto negli interventi, negli emendamenti o nei voti.

Così, la dialettica sindacale si esprime sempre più attraverso contrapposizioni tra strutture o personali (CGIL e FIOM nel 2012; Camusso e Landini nel 2014; FLC e CGIL sui referendum nel 2016, Landini e Colla nel 2018), in modo apparentemente sconnesso da proposte programmatiche. Così, le consultazioni di lavoratori e lavoratrici sono diventate sempre più pratiche amministrative da controllare e indirizzare, mentre le diversità programmatiche, quando disomogenee alle segreteria, devono esser marginalizzate nei congressi, non solo attraverso l’imposizione della maggioranza (a partire da funzionari e agibilità), non solo attraverso l’uso strumentale dei regolamenti (opportuna configurazione del calendario delle assemblee), ma anche attraverso evidenti forzature, imposizioni, risultati costruiti a tavolino (incredibili nel vero senso della parola). Una pratica dispiegata nel 2010 (che vide un confronto acceso, se non all’ultimo voto, in territori e categorie anche importanti), replicato nel 2014 (nei confronti del documento alternativo come di alcuni emendamenti) e poi nel 2018 contro il documento alternativo. Oramai quasi una prassi nella cultura organizzativa della CGIL.

UN SINDACATO DI MASSA CHE NON SI RIDUCE ALLE SUE DERIVE BUROCRATICHE

Eppure, anche oggi, la CGIL non può esser ridotta esclusivamente a questa deriva burocratica, anche se è prevalente e anzi, oggi dominante. Se è vero che in questi anni sono cresciute, e in alcune categorie, sono diventati egemoni le dinamiche di servizio e sussidiarie; se è vero che la linea della responsabilità e della cogestione si è oggi consolidata con le segreterie Epifani, Camusso e Landini (sotto la cifra dell’unità sindacale, della codeterminazione e del patto di fabbrica); se è vero che si sono ridotti gli spazi di pluralismo, mentre le prassi autoritarie e burocratiche sono rientrate nella cultura organizzativa comune della CGIL: anche se è vero tutto questo, nondimeno la CGIL, proprio nelle sue dimensioni di massa, presenta ancora evidenti molteplicità, inconcludenze e contraddizioni, che lasciano aperti gli spazi ad un’azione classista e conflittuale.

La CGIL mantiene infatti un radicamento e un’azione contrattuale in aziende e realtà di lavoro: nel quadro degli oltre 5 milioni di scritti, di cui poco più della meta lavoratori e lavoratrici attivi/e, le oltre 120 camere del lavoro e le diverse categorie tengono una significativa sindacalizzazione della forza lavoro, in particolare rispetto altri paesi, oltre la capacità di attrazione dei servizi e delle attività sussidiarie. Come si vede nelle elezioni RSU, la CGIL mantiene infatti una significativa rappresentanza, anche in funzione di sua azione capillare in aziende, uffici e realtà produttive. Così, proprio nel perimetro CGIL, si mantiene una significativa capacità di far vivere, organizzare, sviluppare conflitti non solo significativi in sé, ma anche capaci di sviluppare una valenza ed un ruolo generale.

Qualcuno pensa che non si insorge stando in CGIL. Qualcuno ha pensato che si fosse chiuso per decisione del gruppo dirigente ogni spazio ad un’opposizione interna che non si limiti al dissenso negli organismi, ma pratichi l’antagonismo sociale e la costruzione del conflitto. Le opinioni di chiunque sono ovviamente legittime. Le opinioni di chi comunque si impegna sindacalmente e politicamente dalla parte degli sfruttati e degli oppressi non sono solo legittime, ma sono importanti, nella dialettica tra compagni e compagne.

Però è la realtà che smentisce queste valutazioni. Il Collettivo di fabbrica GKN ha infatti dimostrato come si #insorge, si occupa una fabbrica e si costruisce anche una larga convergenza tra movimenti, soggettività, forze politiche e strutture sindacali, come nella manifestazione del 18 settembre 2021, nell’assemblea del 21 novembre, nel corteo del 26 marzo, nell’assemblea del 15 maggio. Lo ha fatto non solo a partire da un’esperienza FIOM che ha continuato a vivere, organizzarsi e lottare anche dopo il 2016; lo ha fatto non solo continuando a stare in CGIL nel corso di tutta la sua vertenza: lo ha fatto proprio perché in questo quadro non è partita dalla propria identità, dalle proprie scadenze, dalle proprie strategie, ma da un radicamento e una rappresentanza di lavoratori e lavoratrici (i delegati di raccordo), con un’estrema attenzione ai rapporti di forza e allo sviluppo dialettico delle lotte. Poi, certo, si può sempre pensare che questa azione sia parziale e insufficiente, che il profilo complessivo della CGIL sia comunque inaccettabile, che la fatica di questa opposizione e di questa pratiche sia insostenibile, che sia più facile o più opportuno sviluppare conflitto o convergenza da altre collocazioni. Non è solo legittimo, è anche comprensibile.

Nella CGIL, comunque, ancora si originano processi di sviluppo della lotta di classe, nonostante la deriva burocratica dominante, proprio a partire dal radicamento di questa organizzazione di massa, dalle sue contraddizioni e inconcludenze. La vertenza GKN parla da sola, ma questa esperienza non è isolata. Lo sa bene chi ha presente le lotte all’Electrolux o gli autoconvocati della scuola di Roma, il sindacato di strada tra i braccianti di Saluzzo e lo sciopero contro la guerra a Genova del 26 febbraio scorso, le contrattazioni alla SAME di Treviglio o all’Università statale di Milano, le vertenze all’UPS e quelle del Camping CIG di Piombino, le dialettiche alla Pirelli di Settimo o alla FIAT/FCA/Stellantis di Melfi, lo sciopero di un anno per il diritto alla pausa mensa alla Fincantieri di Palermo o quelli del marzo 2020, partiti alla FCA di Pomigliano ma rilanciati non casualmente da alcune fabbriche bresciane e piemontesi. Lo sa chi ha presente l’attivazione di aree e settori CGIL nei comitati contro ogni autonomia differenziata, al ventennale di Genova 2021 e nelle iniziative contro il G20 di Roma lo scorso ottobre, nel costante presidio sulla sicurezza e nei processi per la strage di Viareggio, nelle occupazioni dei teatri e nelle iniziative della Rete Lavorat° dello Spettacolo, negli scioperi e nelle mobilitazioni de Lottomarzo e di nonunadimeno, come nel sostegno agli studenti, alla lotta contro l’alternanza scuola/lavoro, ai Global Strike di Friday for future. Lo sa chi conosce la partecipazione di settori CGIL ai tanti comitati, coordinamenti e assemblee di delegati e delegate, lavoratori e lavoratrici combattivi, esperienze settoriali o territoriali di autorganizzazione e attivazione di classe. Lo racconta anche l’azione di tanti comitati degli iscritti, delegati e delegati, dirigenti ed attivisti che sono in grado di sviluppare conflittualità e percorsi di organizzazione di classe: non solo a partire dalle aree programmatiche di opposizione, o da quelle della sinistra, ma anche dalla stessa maggioranza. Non solo indipendentemente dai vincoli della burocrazia CGIL, ma proprio grazie agli spazi, alle articolazioni e alle disarticolazioni di questa confederazione.

E poi, in secondo ma non secondario luogo, è forse utile ricordare che la CGIL rappresenta un’esperienza plurale che ha poche paragoni nel sindacalismo italiano, nonostante il peso della sua burocrazia e le sue derive sussidiarie. Sul piano statutario e regolamentare, ma persino su quello concreto, non sono tante le realtà in cui esistono, si organizzano e si esprimono minoranze collettive, anche limitate, sul piano pubblico e nell’azione conflittuale. La CISL, l’altra grande confederazione nella quale negli anni ‘60 e ‘70 si sono organizzate esperienze e pratiche conflittuali, ha conosciuto oramai da decenni una pesante deriva involutiva, che ha sostanzialmente cancellato ogni sua articolazione (vedi sindacalmente.org). Una cancellazione che è avvenuta non solo attraverso lo sviluppo di una burocrazia (vedi il caso Scandola, il commissariamento della FP CISL per aver gonfiato il tesseramento o la pratica complice in molte realtà, a partire da FIAT/FCA/Stellantis), ma anche attraverso l’isolamento e la repressione dei settori conflittuali nel corso degli anni ‘80, dai palombari (una curiosa corrente sindacale, che navigava sotto il pelo dell’acqua in CGIL, in CISL e in UIL, soprattutto a Milano, con dirigenti come Sandro Antoniazzi, Piergiorgio Tiboni, Andrea Viani, Lino Anelli o Giancarlo Straini), alla FIM di Tiboni nel 1989/1990. D’altra parte, anche larga parte del sindacalismo di base e conflittuale, spesso avvitato in una deriva settaria, talvolta stretto intorno a soggettività politiche che li sovradeterminano, non spicca esattamente per le sue regole o le sue prassi plurali.

LE DIVERSE STORIE E SIGNIFICATI DEI DOCUMENTI ALTERNATIVI IN CGIL

I documenti alternativi in CGIL, comunque, non hanno sempre avuto la stessa valenza e lo stesso significato. Le diverse congiunture storiche, le particolari evoluzioni dello scontro di classe e le specifiche dinamiche politiche che si sono dispiegate negli ultimi trent’anni hanno in realtà articolato nei congressi CGIL documenti alternativi diversi tra loro, non solo per i risultati, ma anche nella loro configurazione e quindi nei loro contenuti politico sindacali. Le sinistre CGIL sono infatti sempre state molteplici, anche nelle loro collocazioni congressuali, sulla base di particolari percorsi storici, appartenenze politiche e dinamiche sindacali.

Il primo documento alternativo, Essere sindacato, ha raccolto nel 1991 larga parte delle sinistre dell’organizzazione (anche se non tutte: ad esempio Sabattini e poi il gruppo dirigente FIOM si collocò sempre nella maggioranza, come larga parte della cosiddetta terza componente). Questo documento, presentato non senza tensioni e fratture al Consiglio generale, era l’esito di un lungo percorso, con una prima organizzazione collettiva della sinistra sindacale comunista intorno a Fausto Bertinotti, Giorgio Cremaschi e Paolo Franco (il cosiddetto gruppo dei 39), poi collegatasi a Democrazia consiliare in Charta ’90 Per una Cgil di lotta e democratica, che si proponeva di realizzare un rinnovamento e una rifondazione politica e culturale, su contenuti programmatici classisti per rilanciare le lotte sotto la spinta autonoma dei lavoratori e degli organismi di base. Intendeva anche fondare socialmente la soggettività politica del sindacato sull’esercizio organizzato e continuato del potere di base, denunciando i pericoli di una “rifondazione” che sia vernice di una operazione per rendere il sindacato di classe subalterno al sistema capitalistico. Il documento provava quindi proprio nel momento della rifondazione programmatica della CGIL a superare i confini delle precedenti sinistre CGIL, facendo confluire in un unico raggruppamento larga parte di chi aveva organizzato e sostenuto il movimento degli autoconvocati, oltre che settori della cosiddetta sinistra ingraiana (anche se non tutti) e della precedente terza componente. Raggiunse così il significativo risultato di quasi il 18%, affermandosi in particolare tra i metalmeccanici e conquistando anche alcune strutture (come la Camera del lavoro di Brescia).

Alternativa sindacale, nel 1996, ricostruì una posizione alternativa dopo le tensioni dell’autunno dei bulloni e degli accordi sulle pensioni. Essere Sindacato si esaurì infatti tra il ’92 e il ’94: nonostante il comune contrasto all’accordo che chiuse la scala mobile, alla finanziaria antipopolare di Amato e alle politica dei redditi, si delinearono infatti atteggiamenti diversi nei confronti dell’ampia contestazione, dell’iniziativa autorganizzata, delle prospettive aperte da quella nuova stagione. Una dialettica che interessò in quel contesto l’insieme del sindacalismo conflittuale, che nel suo complesso non colse l’occasione per avviare processi, costituenti o meno, di rifondazione classista del sindacato, ognuno perseguendo il proprio cammino. Il coordinamento dei consigli unitari (la nuova incarnazione del movimento degli autoconvocati) arrivò a convocare uno sciopero generale per il 29 ottobre 1993, contestualmente allo sciopero dei chimici, a cui alla fine trascinò l’intera Cgil; nelle due successive assemblee nazionali del 9 e del 27 novembre, però, optò solo per una settimana di mobilitazione, di fatto spegnendo quella stagione. Così, intorno al gruppo storico di Democrazia consiliare (ma non solo) si raccolse chi intendeva declinare in CGIL un’impostazione classista e conflittuale, negli organismi dirigenti ma anche nelle lotte, a partire dall’iniziativa dei Coordinamenti RSU. Altri, come Cremaschi, se ne distaccarono, nel quadro della nuova FIOM sabattiniana, mentre i settori più dialoganti con Cofferati presentarono un terzo documento, Cara CGIL, che però prese solo l’1% nelle assemblee e si dissolse alla fine del congresso. Alterativa conquistò invece in un duro confronto l’11% dei consensi (in particolare al nord e tra gli attivi), stabilizzandosi come area nella CGIL. Nelle dinamiche di quel congresso il PRC bertinottiano, nel tentativo di costruire una sua proiezione sindacale, promosse invece l’area dei comunisti, che rimase comunque molto limitata (non interessando larga parte dei sindacalisti di quello stesso partito).

Lavoro e società/Cambiare rotta, nel 2002, segnò da una parte una nuova riunificazione tra diverse sinistre CGIL, dall’altro un nuovo rapporto con la segreteria confederale e la linea dell’ultimo Cofferati. I governi del centro-sinistra, il pacchetto Treu, la guerra NATO in Kossovo, la campagna di Confindustria contro l’articolo 18 tessero infatti la trama per un nuovo raggruppamento congressuale tra Alternativa sindacale, l’area dei comunisti e altri esponenti, come Cremaschi. Mentre il Congresso era in pieno svolgimento, però, il nuovo governo Berlusconi fece proprio l’attacco sull’articolo 18, oltre che approfondire una politica di divisione sindacale oramai emergente (con i primi accordi separati Elettrolux-Zanussi, il Patto Milano Lavoro, il rinnovo economico 2001 del CCNL metalmeccanico, il Patto per l’Italia). Cofferati ricompattò quindi l’organizzazione con una stagione di lotta (culminata nella manifestazione del 23 marzo) e con il riconoscimento delle aree programmatiche formalizzate negli organismi dirigenti. Il congresso, cioè, segnò un passaggio nominale e sostanziale da Alternativa sindacale a Cambiare Rotta, con un’area (più o meno delle stesse dimensioni) che entrava in dialettica con il nuovo corso della maggioranza, segnato dalla mobilitazione antiberlusconiana, i precontratti FIOM, una sua relativa indipendenza da un centrosinistra sempre più segnato da tratti liberali. I settori bertinottiani del PRC, in ogni caso, si sganciarono rapidamente con Eccoci (che comunque non riuscì mai a formalizzarsi realmente come area), mentre, criticando quel percorso di adattamento, nacque nel 2004 la Rete28aprile, intorno a Cremaschi e alcuni settori della composita sinistra PRC.

Il congresso del 2006 vide solo la presentazione di emendamenti (nonostante un tentativo di documento alternativo, fallito, della Rete28aprile), nel quadro di un accordo politico che congelava negli organismi i rapporti di forza tra le diverse aree e sensibilità.

La CGIL che vogliamo, nel 2010, fu invece un ampio fronte, che si costituì per la ripresa del conflitto (nel quadro della Grande Recessione, della disgregazione della concertazione e degli accordi separati), ma anche contro la candidatura a segretaria generale di Susanna Camusso. Il fronte fu imperniato sui gruppi dirigenti di FP e FIOM, che avevano scioperato da soli e congiuntamente nell’inverno 2009, segnando la propria distanza non solo dall’accordo separato sui nuovi assetti contrattuali, con gli aumenti schiacciati sull’IPCA e rinnovi triennali, ma anche dalla strategia di ricostruzione di un patto tra produttori delineata da Epifani e perseguita con tenacia da Camusso in tutta la sua segreteria. Come è ricordato nelle prime pagine del testo, si riteneva che gli anni che ci separano dal congresso precedente ci hanno visto pericolosamente oscillanti lungo un asse segnato da continui aggiustamenti tattici che progressivamente hanno oscurato la coerenza e la linearità dei comportamenti, mettendo in forse l’esistenza di una linea strategica, arrivando così a non contrastare il disegno che governo, controparti, interlocutori sindacali hanno ritagliato per noi, disegno di progressivo isolamento,.. La realtà ci presenta oggi quattro priorità decisive per il nostro futuro: una lotta decisa alla crescente disuguaglianza…, una lotta alla precarizzazione…, una lotta per sconfiggere il modello contrattuale nato dall’accordo del 22 gennaio 2009…una lotta per conquistare una compiuta democrazia sindacale. Il fronte raccolse componenti composite (le firmatarie e i firmatari di questa mozione vengono da storie sindacali e politiche molto differenti tra loro), dal gruppo dirigente FISAC (a partire dal segretario generale Moccia, primo firmatario) ai quelli delle camere del lavoro di Reggio Emilia e Brescia, da esponenti della segreteria di Cofferati a settori della ex componente socialista, sino alla Rete28aprile (che aderì dopo una discussione, nella quale ad esempio lo scrivente si dichiarò contrario, paventando il rischio di una focalizzazione sul nome del segretario generale e nel contempo di una sostanziale dissoluzione del profilo classista delle sinistre CGIL). Lavoro e Società, invece, integrata nel patto di gestione con la segreteria di Epifani, sostenne il documento di maggioranza. Il confronto fu serrato, all’ultimo voto in alcune strutture (tra cui la FP), ma alla fine il documento alternativo fu non casualmente tenuto intorno al 17% (la stessa percentuale di Essere Sindacato).

Il sindacato altra cosa, nel 2014, ripropose quindi intoro alla Rete28aprile la ricostruzione di un’alternativa classista in CGIL. Come si disse nell’incipit di quel documento, quattro anni fa il congresso si concludeva con l’affermazione delle posizioni della maggioranza che oggi guida l’organizzazione. Da allora si sono susseguiti arretramenti e sconfitte, non uno degli obiettivi del congresso è stato realizzato e la Cgil è sempre più coinvolta nella rabbia e nel rifiuto che accompagnano i palazzi della politica. Nella più grave crisi dal dopoguerra a oggi, mentre tutte le conquiste e i diritti sociali sono in discussione, per scelte e pratiche sbagliate la Cgil ha smarrito quella diversità che nel passato ha fatto sì che proprio nei momenti più duri essa fosse il riferimento di chi lavora, perde il lavoro, lotta per il lavoro. Dopo la progressiva ma rapida disgregazione della CGIL che vogliamo, si voleva proporre una Cgil indipendente, democratica, che lotta. Il congresso del 2010 fu infatti segnato dall’emergere della crisi dei debiti europei e poi, soprattutto, dall’ascesa del modello Marchionne. Il successo della Camusso (che non solo fu eletta, ma si liberò rapidamente di ogni ipotesi di tutela a partire dal ruolo di Enrico Panini nella segreteria), il contenimento del secondo documento sotto il 20%, l’isolamento in FIOM tra le categorie (la FISAC reggendosi su equilibri precari) indebolirono rapidamente le prospettive della nuova area. La dinamica della vertenza FCA produsse ulteriori divisioni, con l’accettazione dell’accordo a Grugliasco e la repressione in FIOM (a partire dallo scioglimento della segreteria). La rete28aprile si ricostituì appunto nel 2012 e quindi si impegnò per un documento alternativo al successivo congresso. Un congresso complicato, segnato nell’ampia maggioranza dalle tensioni sulla Fornero e sull’accordo del 10 gennaio, dalla competizione (anche con emendamenti) tra Camusso e Landini, da una gestione asfittica di Vincenzo Scudiere (con un congresso nazionale che si concluse non solo su liste contrapposte per il Direttivo, ma anche con 5/6 ore di ritardo per la minaccia di FIOM e secondo documento di abbandonare i lavori sulla composizione degli organismi collaterali). Il secondo documento conquistò, a fatica (con la competizione interna alla maggioranza e la diffusione di pratiche scorrette, che furono denunciate con un dossier e un presidio all’inizio del congresso), il 2,3% nelle assemblee e il 2,7% all’assise riminese. In quel congresso, inoltre, si divise LavoroSocietà: dopo il contrasto in segreteria confederale sulla Fornero (e l’estromissione di Nicolosi), una parte rimase comunque a sostegno della Camusso, una parte si avvicinò alla FIOM di Landini e costituì insieme l’area programmatica di Democrazia e Lavoro dopo il congresso.

Riconquistiamotutto, nel 2018, segnò la permanenza dell’impostazione classista e conflittuale delineata nel congresso precedente. L’ultimo congresso della Cgil ha confermato la linea del precedente: gestire la crisi cercando il compromesso con imprese e governo… Questa linea è fallimentare. La Cgil ha accennato e poi interrotto ogni lotta, con mobilitazioni discontinue e disperse nel vuoto, pensando poi di limitare i danni con i contratti nazionali e aziendali. La crisi è di lungo periodo, sostenuta da tendenze profonde. È ora di riprendere il conflitto, senza paura di pronunciare la parola sciopero. La Cgil, pur rivendicando un suo ruolo e azione politica, deve riconquistare una propria autonomia, da ogni istituzione, dal PD e dai palazzi del potere. Un documento alternativo contro una linea confederale focalizzata sulla cogestione della crisi e il patto di fabbrica, a cui si era sostanzialmente adeguata anche il gruppo dirigente FIOM (come mostrava il rinnovo del CCNL metalmeccanico del 2017, il peggiore della storia, con IPCA ex post, welfare e benefit). Ci si proponeva allora di riaffermare questa posizione alternativa nonostante le rotture del 2016 (la repressione in FIOM e l’uscita di una parte significativa del suo gruppo dirigente storico), nonostante un confronto nell’organizzazione tutto interno alla maggioranza sul nuovo segretario generale [Landini o Colla]. RiconquistiamoTutto riuscì, con coerenza e dignità, a mantenere le sue posizioni, con un 2,1% nei risultati ufficiali del congresso. Un anno dopo, nell’estate 2020, i settori legati a Sinistra Classe e Rivoluzione costituirono una propria area autonoma (le Giornatedimarzo). Democrazia e Lavoro, invece, fu segnata dalla rottura tra la componente storica che arrivava da LavoroSocietà (e ancor prima da Alternativa sindacale) e il gruppo dirigente FIOM: rimanendo nella maggioranza, nel confronto tra Colla e Landini questi compagni/e infatti si schierarono con il primo, contando su una sua gestione più pluralistica dell’organizzazione.

IL XIX CONGRESSO DELLA CGIL: IL LOGORAMENTO DELL’AUTONOMIA DEL LAVORO

La segreteria Landini aveva suscitato ampie aspettative di una svolta conflittuale e di strada rispetto gli anni precedenti. Lo sfondamento reazionario emerso con le elezioni del 2018, il governo giallo-verde e il consolidamento in quei terribili mesi di un consenso alle destre nazionaliste intorno al 40% (sostanzialmente immutato ancor oggi, con la Lega in calo a favore di Fratelli d’Italia), aveva infatti assegnato alla CGIL (unica organizzazione di massa sostanzialmente rimasta nel campo della sinistra) la responsabilità di organizzare la resistenza a quella deriva. Si sperava cioè nella sua azione e nella sua capacità di riunire il lavoro per difendere diritti e salari, opporsi alle politiche xenofobe, contrastare le diseguaglianze che crescevano nel paese.

Questa segreteria ha però avuto tutt’alto segno. In primo luogo, ha assunto in piena continuità la linea di cogestione della crisi e ricerca di un patto dei produttori del passato decennio. Così, l’azione reazionaria del governo gialloverde non ha visto la CGIL in piazza, scioperi contro il blocco dei porti o iniziative di più ampio respiro. Al contrario, si è dato spesso credito all’azione dell’esecutivo (come nell’intesa con Conte e Bussetti sulla scuola), anche quando palesemente scritta sull’acqua. Così, l’offensiva di Bonomi e del padronato sul contratto nazionale (nell’autunno 2019 e poi soprattutto dalla primavera 2020) fu respinta evitando ogni mobilitazione generale, ma puntando sulle divisioni del padronato (vedi la vicenda degli alimentari) per un rinnovo dei contratti nel perimetro del Patto di Fabbrica. Come in altri momenti di crisi (il dopoguerra, gli anni ‘70, gli anni ‘90), la segreteria CGIL ha posto cioè come priorità la tenuta del sistema paese, il rilancio della produzione, le compatibilità di sistema, piuttosto che gli interessi del lavoro, senza neanche provare a cambiare i rapporti di forza tra le classi. Così, quando si svilupparono gli scioperi di marzo sulla sicurezza, l’obbiettivo fu evitare che la paura della gente si trasformi in rabbia, piuttosto che quello di usare quella rabbia per rilanciare un movimento collettivo di trasformazione sociale. Questa impostazione, poi, è stata persino approfondita su quattro versanti importanti: l’unità sindacale, il rapporto con la politica e soprattutto quello con gli esecutivi, la prospettiva della partecipazione o della codeterminazione.

L’unita sindacale. Nel suo cosiddetto discorso di candidatura, in conclusione del congresso della Camera del lavoro di Milano, Landini delineò l’obbiettivo della ricostruzione di un’unità organica con CISL e UIL, stante che a suo parere le ragioni della divisione sindacale risalivano alle contrapposizioni politiche della guerra fredda, finita da tempo. La ricomposizione della maggioranza al XVIII congresso ha avuto quindi questo segno, con una conseguente azione sempre più attenta a salvaguardare il rapporto con le altre confederazioni più che l’attivazione del lavoro e la ripresa del conflitto. Lo stesso sciopero separato del dicembre 2021 (senza la CISL) è sinora rimasto isolato, arrivato dopo una discussione complessa nel direttivo nazionale, in cui si è iniziato a prendere atto delle differenze con la CISL, cercando però di ribadire in ogni modo possibile l’obbiettivo strategico dell’unità sindacale. Solo questa primavera, davanti la rivendicazione di Sbarra del proprio modello associativo al congresso CISL, la guerra in Ucraina e le divisioni sulle prospettive, il gruppo dirigente CGIL ha riconosciuto un problema. Nel documento congressuale (Il lavoro crea il futuro), però, si propone comunque lo sviluppo di un percorso unitario, centrato su rappresentanza, democrazia e contrattazione, in quanto non ha assolutamente alcun senso (sic!) contrappore il sindacato conflittuale e il sindacato partecipativo come due modelli antitetici. La proposta è allora quella di considerare l’impresa un sistema sociale complesso nel quale convivono diversi punti di vista, diverse soggettività, e dunque è possibile aprire uno spazio di negoziazione per la definizione di un punto di equilibrio. La maggioranza CGIL, dunque, assume oggi un impianto che sostanzialmente richiama proprio quello originario della CISL (lavoro e capitale sono i due fattori della produzione, due punti di vista diversi che devono trovare una mediazione, al limite se necessario anche con il conflitto, ma in un’ottica negoziale e collaborativa), cancellando così la contraddizione di interessi tra capitale e lavoro negli specifici processi produttivi di valore come nei rapporti più generali tra le classi.

Il rapporto con la politica. La CGIL, con il 1989/91, ha acquisito una sua indipendenza dai partiti di riferimento, ma ovviamente il rapporto con le forze della sinistra e del centrosinistra è rimasto (anche se non più diretto, soprattutto a livello nazionale). Anzi, proprio nel ventennio successivo uno dei problemi più evidenti della confederazione è stata la sua difficoltà a mobilitarsi contro le iniziative di privatizzazione e precarizzazione dei governi Prodi (I e II). La nascita del Partito Democratico, la sua estraneità al movimento operaio, ha ulteriormente allentato questo legame, particolarmente con Renzi e le sue contrapposizioni alla CGIL. Relazioni e contiguità non sono comunque scomparse. Una delle differenze sottese alla contrapposizione tra Colla e Landini, in realtà, era forse proprio su questo nodo: i sostenitori del primo (vedi Roberto Ghiselli) rivendicavano (e rivendicano ancora oggi) l’appartenenza della CGIL al campo progressista e quindi la necessità di giocare direttamente un ruolo nella partita del rilancio di quel campo; dall’altra, probabilmente uno dei pochi tratti comuni realmente comuni a Camusso e Landini, si sottolineava come il sindacato abbia oggi la rappresentanza del lavoro e debba giocarsi autonomamente la sua partita (qui, tra le altre cose, una delle radici della campagna sulla Carta dei Diritti nel 2016). Nel documento del XIX congresso, come nel recente dibattito su Collettiva, questa punto rimane sostanzialmente non risolto, con una dialettica che attraversa anche la maggioranza: La parola sinistra non sta più ad indicare la centralità del lavoro…La politica deve tornare a rappresentare la cultura del lavoro e gli interessi materiali delle lavoratrici e dei lavoratori. Deve superare la frattura sociale esistente. Ricostruire la rappresentanza e la partecipazione e un terreno fondamentale per dare nuova linfa alla stessa democrazia e agli stessi partiti. Noi vogliamo ambire a riunificare il mondo del lavoro, condizione imprescindibile per affermare una nuova cultura politica. Si pone cioè la CGIL come soggetto rappresentante del lavoro, attraverso cui ricostruire una cultura politica ma senza assumersi direttamente il compito di ricostruire un campo progressista.

Il problema, però, è soprattutto la declinazione di tutto questo nel rapporto tra governo e CGIL. Certo, un sindacato democratico, pluralista ed unitario delle lavoratrici e dei lavoratori, delle pensionate e dei pensionati, contratta accordi con le Imprese, il Governo e le Istituzioni. In questi anni, però, in una fase di persistente frammentazione politica e di cronica crisi istituzionale (con Parlamenti distorti dalle leggi elettorali, governi di larghe intese, tecnici o di unità nazionale), proprio le parti sociali hanno giocato talvolta un ruolo di legittimazione e sostegno a maggioranze politiche incerte e conflittuali. E, viceversa, il sindacato è stato tentato di cercare nel riconoscimento politico istituzionale un ruolo che faticava ad assumere attraverso la mobilitazione ed i concreti rapporti di forza nel paese, nel quadro di persistenti emergenze nazionali (la recessione, la ripresa, la pandemia, la guerra). Così, nel pieno della diatriba di governo tra Conte e Salvini, all’inizio dell’estate del Papete, il ministro degli interni aprì irritualmente un tavolo di confronto sulle politiche sociali, cercando di giocare di sponda nella messa in discussione di alcune politiche di governo. I sindacati confederali, compresa la CGIL, accettarono subito questo confronto al Viminale, nonostante la sua evidente inopportunità, in cerca di reciproci spazi. Così, quando qualche mese dopo cadde il governo, la CGIL si spese in prima persona per riconoscere la discussa figura di Conte, invitandolo poi subito alla Giornate del lavoro a Lecce. Così, ancora, quando Draghi arrivò al governo, nonostante il profilo della persona e l’evidente composizione del suo esecutivo (da Brunetta a Cingolani), fu di nuovo la CGIL a sostenere quel processo. Così, la dichiarata autonomia dalla politica, nella pratica concreta rischia di ribaltarsi esattamente nel suo contrario, alla ricerca di una reciproca legittimazione con gli esecutivi, al di là del loro segno e della loro composizione.

Partecipazione e codeterminazione. Il superamento della contrapposizione tra modello sindacale conflittuale e quello partecipativo, che il documento Il lavoro crea il futuro pone esplicitamente, registra anche l’inedita riattivazione nella CGIL di un ragionamento su partecipazione e codeterminazione. Con questi termini si indica l’idea che lavoratori e lavoratrici, considerati uno dei fattori della produzione che possono trovare un punto di equilibrio con il capitale (come dice il documento di maggioranza della CGIL), debbano trovare anche un adeguato spazio nella gestione dell’impresa. La partecipazione è in genere riferita ad una presenza di lavoratori e lavoratrici nello stesso capitale (azioni) o negli organismi di gestione dell’impresa (Consigli di Amministrazione). La codeterminazione, a partire dal modello tedesco, è in genere riferita alla presenza di rappresentanti di lavoratori e lavoratori in strutture di sorveglianza, con compiti di supervisione nella gestione aziendale e, in qualche modo, di informazione e confronto sulle strategie e le scelte dell’impresa. Sono concetti e pratiche che sono alla base del modello sindacale CISL, sin dalla sua nascita negli anni ‘50, è sono poi stati particolarmente rilanciati dalla FIM negli anni ‘90 e poi da Marco Bentivogli. Sono ipotesi e pratiche che vivono anche in riflessioni CGIL, in particolare di Bruno Trentin (dall’analisi dell’automatizzazione negli anni ’50 a quelle sugli spazi di autodeterminazione del lavoro nelle sue ultime opere), sempre sul crinale tra espressione di un controllo operaio e cogestione capitalistica dell’impresa (cioè aspirando alla prima, ma poi scadendo nella seconda). Riflessioni che trovarono una breve parentesi pratica negli anni ‘80, nel riflusso, con il Protocollo Iri sui comitati consultivi manager-sindacati, mai applicati e di cui si conserva oggi scarsissima traccia (se non qualche riferimento nel recente libro su Sabattini). Il termine partecipazione, comunque, compare nella riflessione della segreteria CGIL con il documento Dall’emergenza al nuovo modello di sviluppo, nel 2020, che doveva fungere da base di riflessione per la conferenza di programma, poi annullata. Il ruolo fondamentale del lavoro, oltre a essere riconosciuto sul versante contrattuale e salariale, ha bisogno, oggi più che mai, di un riconoscimento ulteriore: un processo democratico di partecipazione nella vita dell’impresa che garantisca il diritto collettivo di partecipazione alle scelte di chi investe professionalmente, intellettualmente e socialmente nel proprio lavoro. Questo concetto viene ripreso quando si pone l’obbiettivo di garantire un nuovo modello di democrazia economica attraverso il diritto collettivo di partecipazione dei lavoratori e delle lavoratrici alle scelte dell’impresa e al benessere organizzativo. Sulle politiche economiche, poi, la CGIL in questi ultimi anni ha rivendicato un confronto preventivo sugli investimenti e le riforme, sia a livello nazionale, sia a livello territoriale, l’idea cioè d cogestire con le parti sociali la stagione eccezionale del PNRR, che si è concretizzata lo scorso dicembre con un’intesa che prevede ad ogni livello comitati paritetici di confronto. Infine, nel documento Il lavoro crea il futuro si dice necessario, con la contrattazione, conquistare spazi di codeterminazione, fondati sul diritto all’informazione preventiva ed al diritto di proposta, sul diritto alla conoscenza ed alla formazione, alla mobilita professionale verso l’alto, all’eguaglianza di opportunità fra i soggetti ed i generi. Questa e la via di una partecipazione negoziata da realizzare nella fase di progettazione dei cambiamenti e delle scelte strategiche. La partecipazione nelle imprese e la cogestione delle politiche di investimento sfuma cioè in una generale codeterminazione, i cui esiti nelle sperimentazioni italiane con l’IRI non furono esattamente felici.

Questa impostazione che è venuta dispiegandosi, come in altri momenti storici, ha avuto anche un suo risvolto organizzativo. Lo scorso febbraio si è infatti tenuta una conferenza di organizzazione, per affrontare la progressiva erosione degli iscritti e la difficile tenuta finanziaria dell’organizzazione. La discussione e i documenti sono stati segnati sostanzialmente da tre elementi. Primo, un’enfasi sulle Camere del lavoro, viste come strumento di organizzazione collettiva del lavoro (in un mercato del lavoro moderno, però, che diversamente dai primi nel novecento è molto più segmentato tra settori, categorie, professioni diverse): una proposta che poi precipita concretamente nella valorizzazione dei Servizi come strumenti di tesseramento e azione sindacale territoriale (per loro natura, individuali). Secondo, una centralizzazione organizzativa, in cui nell’attuale articolazione tra categorie e territori, Corso Italia acquisisce il controllo diretto dei dati del tesseramento, le Camere del lavoro (oltre che i centri regolatori) quello di dettaglio sui bilanci delle diverse strutture. Terzo, un disciplinamento dei delegati/e, interpretati come terminali associativi, in cui la loro autonomia viene subordinata per delibera statutaria alle decisioni votate dalla maggioranza di lavoratori e lavoratrici (anche quando rappresentanti di settori, reparti, lavoratori e lavoratrici che le respingono), restringendo drammaticamente cioè proprio quegli spazi di dialettica che hanno caratterizzato gli elementi più dinamici della storia sindacale dal dopoguerra ad oggi. La CGIL, di fronte alle sue attuali fragilità, ha cioè impostato una trasformazione in direzione esattamente contraria a quella degli anni ‘50 (in cui con le sezioni sindacali si radicava nella produzione e nei suoi conflitti), ignorando le sue attuali strutture nei posti di lavoro (i comitati degli iscritti/e), enfatizzando i servizi, centralizzando sulle strutture e l’apparato confederale.

Un’involuzione inconcludente. Così, la cifra di fondo del XIX congresso CGIL è quella di una conferma della strategia volta alla cogestione della crisi che il gruppo dirigente CGIL ha definito negli ultimi quindici anni, con la Grande Recessione 2009/2012. Anzi, nella prassi e nei documenti emerge un suo consolidamento teorico e di prospettiva, appunto nell’unità sindacale, nell’interpretazione del suo rapporto con il governo, nell’apertura a ipotesi partecipative e codeterminative, nella messa a sistema dei servizi e nel rilancio di una centralizzazione organizzativa. Certo, nel documento Il lavoro crea il futuro si ribadiscono obbiettivi, rivendicazioni e prassi non solo largamente condivisibili, ma in cui si può cogliere un’impronta classista e conflittuale: basti pensare al contrasto della precarietà, la riduzione dell’orario di lavoro, il consolidamento di premi e produttività. Così come, nella stessa maggioranza, vive l’interpretazione di un congresso di partecipazione e di lotta, per aprire, sulla base della parte del documento più rivendicativa (la seconda), una stagione di mobilitazione e, in qualche modo, di coalizione sociale (per usare un termine mai ripreso nel documento, visto il suo uso FIOM nel 2014/15, ma che forse individua un sentire di alcuni settori della maggioranza). Questa presenza, in realtà, è in qualche modo rivelatrice delle diverse contraddizioni che attraversano ancora un sindacato di massa come la CGIL, in cui appunto le sue tendenze burocratiche non impregnano tutto il complesso dell’organizzazione. Il segno prevalente, però, è appunto un altro. Quel segno prevalente, comunque, non è in grado di dominare pienamente l’organizzazione (come è avvenuto negli anni ‘90 in CISL, trasformandola in un semplice organizzatore capitalista della forza lavoro, un sindacato complice o corporativo), anche perché questa tendenza si rivela ad oggi inconcludente. La Grande Crisi degli ultimi quindici anni, infatti, ha aperto una stagione di competizione mondiale, ricerca di nuovi spazi di valorizzazione e intensificazione dello sfruttamento (incidendo allo stesso tempo sul lato del salario, degli orari, dei ritmi di lavoro, cioè dell’estrazione di plusvalore assoluto e relativo). In questa congiuntura si moltiplicano allora le offensive padronali, mentre lo stesso capitale si frammenta per settori, territori, prospettive di valorizzazione. L’instabilità finanziaria, produttiva, commerciale e politica, amplificata e moltiplicata dal surriscaldamento globale e dagli epocali stravolgimenti del clima (con il loro correlato di scontri internazionali, produttivi e sociali) rende ogni compromesso precario, temporaneo e destinato ad esser travolto. Così, gli spazi per un unità sindacale, una legittimazione di governo, una cogestione o una partecipazione aziendale, rimangono oggi asfittici, proprio quando le tendenze burocratiche riformiste e sussidiarie prevalgono largamente.

LE RAGIONI DELL’ALTERNATIVA: L’AUTONOMIA DEL LAVORO.

Le radici del sindacato. Se il profilo politico che abbiamo delineato risponde in qualche modo a realtà, la CGIL sta attraversando una fase di passaggio incerta e contradditoria, in cui in una struttura molteplice e ibrida (in cui si sommano e si intrecciano funzioni di rappresentanza categoriale, di servizio individuale e di sostegno alla produzione sociale) si sta cercando di superare ogni impostazione che riafferma l’autonomia e l’indipendenza di classe. Questo è quindi uno dei nodi in gioco in questa stagione e di conseguenza in questo congresso. Il documento alternativo Le radici del sindacato, al fondo, su questo nodo si concentra. Ricompone cioè, per l’ennesima volta, diverse sinistre CGIL ma non tutte (rimangono fuori ad esempio LavoroSocietà, LottaComunista e altri settori di maggioranza), che vogliono contrastare l’unità sindacale, questa nuova relazione coi governi, i principi concertativi e partecipativi, in nome dell’autonomia del lavoro, di una pratica sindacale che faccia prioritariamente riferimento alla difesa degli interessi di lavoratori e lavoratrici (specificamente nei diversi luoghi di lavoro e in generale, come classe sociale complessiva).

Come in ogni documento congressuale, è nelle prime pagine che se ne può trovare il nocciolo. In questi anni, la Cgil non si è contrapposta al governo in modo efficace e a una opposizione radicale ha preferito l’unità con i vertici di Cisl e Uil. Quando ha tentato di mobilitare il mondo del lavoro, è sembrata poco convinta, timorosa di mettere in discussione le compatibilità di sistema, intenzionata a ricostruire le condizioni per gestire la crisi insieme a padronato e governo… Negli ultimi 30 anni, in Italia, i salari reali sono diminuiti, gli orari medi sono più lunghi, la precarietà è aumentata, il tasso di occupazione delle donne, soprattutto al Sud, è molto più basso della media europea, tre persone al giorno in media muoiono sul lavoro. Per cambiare tutto questo, la Cgil deve partire prima di tutto dal mettere in discussione la linea che ha accettato e praticato in questi decenni,… rivendicare una svolta in grado di contrastare la crisi e pretendere, con una vertenza unificante, risorse e investimenti per il lavoro, per finanziare una riforma del sistema pensionistico in senso egualitario e socialmente sostenibile e per veri aumenti salariali, tanto più necessari e urgenti a causa dell’aumento dei costi energetici…Serve, oggi più che mai, una Cgil che…sia in grado di riattivare antagonismo e conflittualità per contrapporsi agli interessi di Confindustria e del governo Draghi. Questo è quello che l’intera Cgil dovrebbe fare, archiviando finalmente anni di concertazione, compatibilità, moderazione salariale, rassegnazione; anni di lotte non fatte (come nel 2011 sulle pensioni), iniziate tardi (come quella contro il Jobs act) oppure non proseguite (come l’ultimo sciopero generale); anni di burocratizzazione dell’organizzazione, enti bilaterali e servizi, patti sociali e allontanamento dai movimenti sociali…Ricostruire [quindi] i rapporti di forza nei luoghi del lavoro, sostenere l’autorganizzazione, i comitati di lotta, i coordinamenti, le assemblee di delegati/e nella costruzione delle piattaforme e degli scioperi

Un documento che rivendica questa impostazione non solo nelle parole, ma nelle prassi. A partire da pratiche che abbiamo visto negli ultimi anni: in primo luogo l’esperienza e la lotta del Collettivo di fabbrica GKN, i delegati di raccordo, il rapporto dialettico tra rivendicazioni e dinamiche di classe, la prospettiva della generalizzazione e della convergenza. Perché le radici del sindacato non sono le sue tradizioni, i dirigenti o le impostazioni politiche che ne hanno segnato la sua storia: come ha ricordato Eliana all’assemblea nazionale di Livorno, sono le lotte dei lavoratori e delle lavoratrici, non questo o quel segretario. Le nostre radici sono nelle lotte dei braccianti, degli edili, dei ferrovieri, dei metalmeccanici, dei portuali, delle mondine, delle operaie tessili, di tutti quelli e quelle che nel secolo scorso si organizzarono per far vivere il sindacato quando non esisteva. Le nostre radici sono nel silenzio degli operai di Mirafiori che non applaudirono Mussolini. Sono negli scioperi del 1943, sono nella resistenza, sono a Portella della Ginestra, sono il 30 giugno del 1960 a Genova quando le lotte operaie fecero saltare il congresso del MSI, domani ci sarà un corteo a Genova per ricordarlo. Le nostre radici sono nelle lotte operaie del 69, nei movimenti degli anni 70. Sono in tutti quei sindacalisti ammazzati dalla mafia, sono a Cinisi, nella storia e nella casa di Peppino Impastato. Sono nella resistenza alla Fiat nel 1980, sono negli autoconvocati, sono a Genova 20 anni fa, sono nei 21 giorni di Melfi, al carroponte della INNSE, negli scioperi contro la Buonascuola nel 2015. Sono da sempre alla Same, in Electrolux, in Fincantieri a Palermo dove i lavoratori hanno scioperato per due anni per difendere il diritto alla pausa mensa. Sono nelle lotte a volte disperate contro lo sfruttamento più bieco nella logistica, contro il caporalato nelle campagne, da Gioia Tauro, a Foggia, fino a Saluzzo in Piemonte. Le nostre radici sono alla GKN. E sono radici forti, che spaccano il cemento. Le nostre radici sono anche negli scioperi di marzo del 2020, quando fermammo noi le fabbriche, prima di un lockdown arrivato tra fiumi di deroghe e fuori tempo massimo. Le radici del sindacato, del nostro sindacato, stanno nel lavoro e nei suoi conflitti: consapevoli, come appunto si era nella relazione d’apertura al Lirico, della natura doppia che ogni sindacato tende ad avere. Un autonomia del lavoro che deve oggi esser salvaguardata e sviluppata, in quanto è messa ancor più in discussione da due processi epocali che stiamo vivendo: il ritorno della logica dei blocchi nella guerra in Ucraina, la devastazione ambientale e la conseguente trasformazione dei processi produttivi.

L’invasione russa dell’Ucraina segna un passaggio di fase. La Grande Recessione ha avviato una stagione di aperta competizione, come tutte le grandi crisi del modo di produzione capitalistico, che trova oggi un suo punto di svolta. L’integrazione dei mercati mondiali dopo la crisi degli anni settanta (la cosiddetta globalizzazione, con tassi di crescita del commercio mondiale doppi e tripli rispetto al PIL) ha riarticolato internazionalmente il capitale e il lavoro, con più forza dopo il crollo del campo sovietico nei primi anni novanta. Le gerarchie mondiali (politiche, economiche e sociali, alcune delle quali di portata secolare come la Grande Divergenza) sono state incrinate e sono oggi in corso di rimescolamento, nel quadro di un tendenziale declino delle classiche metropoli capitaliste e dell’emersione di paesi a recentissima industrializzazione. Negli ultimi decenni si è così ridefinita una polarizzazione mondiale intorno a tre principali centri (come risulta anche da analisi recenti): gli Stati Uniti (che mantengono una supremazia finanziaria, militare e tecnologica, con circa 24mila mld di dollari di PIL nel 2022), la Cina (e la sua inedita ascesa capitalista, per velocità e intensità, che ha oramai raggiunto un PIL intorno ai 19mila mld di dollari, superando proprio nel corso della pandemia quello europeo), l’Unione Europea (culla dello sviluppo capitalista, disarticolata tra diversi capitalismi, da tempo in regressione nell’economia mondiale ma che raggiunge comunque un PIL di oltre 17mila mld di dollari). A questi poli, comunque, si affiancano una serie di potenze indipendenti, alcune in sviluppo: il Giappone (con un PIL intorno ai 5mila mld), l’India (oltre 3mila mld, che dovrebbe superare il Giappone per il 2030), Canada e Sud Corea (intorno ai 2mila mld); Brasile, Russia e Australia (intorno a 1,7/1,8mila mld). La Grande Crisi ha quindi accelerato una competizione in una dinamica oramai multipolare ed in movimento: ha accentuato il declino americano, segnato dalle sconfitte nelle guerre mediorientali e dalla messa in discussione della sua egemonia finanziaria; ha spinto l’economia cinese, trascinata da un ruolo incredibile degli investimenti (tra il 40 e il 50% del PIL), a esportarli nel mondo (Belt and Road Initiative), sviluppando così una sua tendenza imperialista; ha esasperato le contraddizioni europee, in una delicata fase di ristrutturazione produttiva tra centro e periferia, tra le tendenze opposte ad una sua trasformazione federale e ad una sua disgregazione. Nell’ultimo decennio si sono quindi innescate dinamiche di aperta contrapposizione tra i poli e tra le principali potenze (guerra commerciale tra USA e Cina; corsa militare nel Pacifico; sviluppo della politica euroasiatica; espansione NATO ad oriente; conflitti in Nordafrica e Medioriente). La guerra Ucraina è in questa dinamica uno spartiacque, che ridisegna aree economiche, alleanze politiche e blocchi militari contrapposti intorno ai principali poli imperialisti del mondo (come si sottolinea ne Le radici del sindacato). La profondità dell’invasione russa, l’intensità e la durata della guerra, il diretto coinvolgimento della NATO nel sostegno all’esercito ucraino, la presenza della Cina alle spalle dell’iniziativa di Putin (senza la cui profondità economica e strategica non avrebbe potuto agire), imprimono allora a questo conflitto una dimensione mondiale, ben oltre i conflitti intrecciati per l’autodeterminazione di Donbass e Ucraina che si stanno direttamente affrontando sul terreno.

Questa guerra cioè ci anticipa il nostro prossimo futuro. Lo scoppio di una terza guerra mondiale appare oggi improbabile (sempre possibile, nel sonnambulismo delle politiche di potenza, ma improbabile), a fronte della diffusione di armi nucleari tra tutte le molteplici potenze del mondo e della sostanziale impreparazione politica, militare e sociale ad un conflitto di queste dimensioni. La prossima stagione, allora, sarà segnata da contrapposizioni crescenti nelle quali si struttureranno alleanze e blocchi politico-militari, gli Stati organizzeranno le proprie economie a questo nuovo scenario, le società saranno mobilitate in funzione di questa competizione e dei suoi possibili conflitti. Da una parte, come già abbiamo visto negli anni scorsi in Siria (con la presenza di truppe russe e americane) e in Libia (con la presenza di truppe turche e russe), si ripeteranno conflitti localizzati, ma sovradeterminati da queste dinamiche mondiali (oltre le cosiddette guerre per procura). Dall’altra, come stiamo sperimentando ancora in uno stadio iniziale in questi mesi, assisteremo allo sviluppo di una militarizzazione sociale diffusa: l’avvio di una corsa al riarmo con le conseguenti scelte di politica economica (a partire dal fatidico guns or butter di William Bryant); l’intolleranza verso ogni tendenza neutralista o antimilitarista; il diretto coinvolgimento dello Stato in politiche economiche strategiche; l’ulteriore sviluppo dei nazionalismi sino a veri e propri processi di nazionalizzazione di massa.

L’autonomia del lavoro e la guerra. Queste dinamiche di mobilitazione sociale rischiano di coinvolgere direttamente il lavoro, travolgendo la sua indipendenza nel quadro della competizione mondiale. Lo scivolamento ad una politica di sostegno del proprio blocco di riferimento rischia oggi di interessare anche la CGIL. Nel documento Il lavoro crea il futuro si richiama infatti la necessità che l’Europa maturi una propria visione in autonomia, perché questa guerra e dentro il nostro territorio. L’Unione Europea deve dotarsi di una politica estera e, conseguentemente, di una politica di difesa comune, fondata sul concetto di sicurezza condivisa, ripartendo dalle finalità della conferenza di Helsinki per un’Europa di pace. In gioco vi è la sua stessa esistenza politica…Il multilateralismo e l’unica strada possibile ed è un’Europa sociale unita, autonoma, che può costruirlo e affermarlo. Si parte dall’errata percezione storica che alla base del percorso europeo ci sia una prospettiva di pace (non prima un’articolazione della guerra fredda e poi lo sviluppo di uno strumento competitivo per banche e capitale) e si continua non cogliendo che lo sviluppo multilaterale è già una dinamica del presente (che non deve esser affermato dalla UE, perché già vive nel multiforme schieramento sulla guerra ucraina, dall’India al Brasile). Tutto questo per delineare il sostegno del sindacato alla costituzione di un Europa federale o confederale (articolata nella profonda revisione dei trattati europei, nel potere legislativo al Parlamento europeo, negli eurobond), sostanzialmente funzionale alla formazione di un polo imperialista europeo unitario in contrapposizione con quello americano e cinese. Un polo che, con una propria politica e un proprio esercito, non si vede come nel quadro della contesa mondiale possa poi condurre una politica di pace. Il mantenimento di un’autonomia di classe, di un punto di vista indipendente del lavoro, è allora indispensabile proprio per rompere la gabbia di questa logica di guerra. Per questo oggi, a fronte dei processi che l’invasione ucraina ha innescato, è fondamentale sostenere una politica disfattista e antimilitarista, come quella che proprio in campo sindacale si è delineata nella manifestazione del 5 marzo (particolarmente nella sua piattaforma originaria, per l’immediato cessato il fuoco, contro ogni invio di armi, per il sostegno a lavoratori e lavoratrici russi e ucraini che si battono contro la guerra). Per questo oggi, in questa mobilitazione contro la guerra, è fondamentale respingere ogni tentazione a rafforzare la costruzione di un blocco europeo, anche disallineato da quello americano, sottolineando l’alterità del lavoro, le sue aspirazioni internazionali e sovranazionali, contro tutte le logiche di competizione capitalistiche, contro tutti i nazionalismi.

Crisi ambientale e tipping points. Come la guerra, un altro processo di portata epocale segna con evidenza questa fase. L’evolversi ciclico del capitalismo si innesta sulla tendenza ad una continua espansione, su cui si regge questo modo di produzione. Lo sviluppo negli ultimi decenni di un mercato mondiale integrato ha reso sempre più evidente la depredazione dell’ambiente inscritta nella logica del profitto: da una parte per l’estensione di circuiti di valorizzazione ad ambienti e contesti sociali sinora relativamente periferici, dall’altra per la significativa estensione della produzione di merci, del commercio e dei consumi nel mondo. Nei primi anni duemila oltre il 50% della popolazione mondiale si è trasferita in città e questo processo di urbanizzazione accelerata non si è fermato: oggi circa 4 mld di persone abitano in contesti urbani. La questione ambientale (lo sfruttamento e l’inquinamento di acqua, aria e terra) diventa però oggi emergenza non solo nel suo dispiegarsi globale, ma in rapporto a due specifici processi: da una parte l’esaurimento di risorse finite (vedi le energie fossili), dall’altra i tipping points (i punti di non ritorno) di un’accelerazione antropocentrica dei cicli di variazione delle temperature (V Rapporto dell’Ipcc sui cambiamenti climatici, 2014), con conseguenze progressive e devastanti sugli ecosistemi (mettendone a rischio in primo luogo l’abitabilità umana). L’intreccio e la saldatura di una Grande Crisi e dell’evidenza dell’emergenza climatica rende sempre più evidente la barbarie di questo modo di produzione; amplifica squilibri e contraddizioni di questa stagione economica; sospinge e impone riconversioni produttive e dei consumi senza precedenti.

L’autonomia del lavoro e la devastazione ambientale. L’evidenza di questi passaggi, cinquant’anni dopo il rapporto del Club di Roma, interessa oramai non solo lo sviluppo di ampi movimenti di massa (ben oltre i movimenti ecologisti, come Friday for future), ma anche l’avvio di processi di ristrutturazione produttiva e commerciale (la cosiddetta riconversione verde). A fronte della Grande Crisi, c’è anche chi pensa di fare proprio di questo processo l’occasione di una distruzione creatrice talmente impattante da permettere un riavvio dell’accumulazione capitalista, oggi impantanata, in una nuova onda lunga espansiva. Questo diretto coinvolgimento dei processi produttivi, e anche quest’ampia mobilitazione sociale, rischia di impattare con processi disgregativi sul lavoro e sulla sua identità. Da una parte, c’è il rischio che il punto di vista del lavoro sia annichilito nello sviluppo delle forze produttive. Nella storia del movimento operaio, anche di questo paese, quando lo sviluppo della forze produttive (anche quelle guidate dalle selvagge logiche depredatrici del profitto) si sono scontrate con limiti ambientali, spesso nella classe ha prevalso la sua anima capitalistica, l’essere un fattore della produzione: ha prevalso cioè l’interesse a garantire occupazione e lavoro, talvolta monetizzando il rischio, in ogni caso a pregiudizio della salute delle comunità e degli stessi lavoratori e lavoratrici (dall’Ilva a Marghera, dall’Acna di Cengio al petrolchimico di Gela). Soprattutto nei periodi di arretramento e disorganizzazione della coscienza politica diffusa della classe, possono cioè prevalere le logiche delle aristocrazie operaie e delle tendenze burocratiche: una dinamica dalla quale non è esente oggi la CGIL, sia quando difende produzioni nocive e obsolete (pensiamo al petrolio), sia quando appoggia nuove tecnologie inglobate in logiche di valorizzazione e profitto (dall’idrogeno blu all’Alta velocità). Dall’altra parte, la diffusione di grandi movimenti di massa interclassisti, originati dall’impatto sulle condizioni di vita di tutte le classi sociali, tende a focalizzare l’intervento sulle politiche generali e sui comportamenti individuali, perdendo di vista proprio i rapporti di produzione. In un caso come nell’altro, cioè, nella prossima fase in cui crescerà la pressione dei cambiamenti climatici (siccità, alluvioni, collasso degli ecosistemi), sarà fondamentale mantenere gli spazi di autonomia del lavoro, da una parte per mettere in discussione nei rapporti di produzione lo sfruttamento dell’uomo e dell’ambiente (contendendo quindi conflittualmente al capitale il controllo su cosa produrre e come produrlo, come avvenne con alcune riconversioni, ad esempio alla Valsella Meccanotecnica negli anni ‘90), dall’altro per porre con altrettanta forza nei movimenti la necessità di superare lo stato di cose presenti, a partire proprio da perché e come si produce all’interno degli attuali rapporti capitalistici di produzione.

Le radici del sindacato, allora, coglie oggi l’essenziale di una posizione alternativa in CGIL. Certo, il testo e il percorso avviato presentano disomogeneità e contraddizioni, frutto di tre aree programmatiche con storie, progetti e appartenenze diverse (Riconquistiamotutto, Democrazia e Lavoro, Giornate di marzo). Ma colgono oggi l’essenziale, proprio perché si pongono sul terreno dell’autonomia di classe (senza lotte non c’è futuro, per una CGIL radicale conflittuale e di classe), sviluppando posizioni ma anche pratiche conseguenti.

UN DISSENSO SENZA MISURA E SETTARIO.

Ad alcuni, il PCL e limati settori che intorno a lui si sono raggruppati (romani e milanesi), questa impostazione non va bene. Si ritrova oggi insieme chi nel 2016, al momento della ristrutturazione dell’allora area di opposizione in CGIL, avanzava analisi e proposte simili a quelle che avanza oggi (fallimento dell’area, disobbedienza e democrazia orizzontale) e chi allora si ritrovava su una diversa impostazione (esitata poi in un documento approvato dal coordinamento nazionale, che riletto oggi risalta per la continuità di impostazione con il documento alternativo presentato), nel quadro di una discussione ampia sulla CGIL, i nuclei fondanti di un’alternativa, le metodologie e le forme da assumere, che vide anche altri documenti (dei compagni/e di SCR) e contributi proposti al confronto. Certo, da allora acqua ne è passata sotto i ponti e conosciamo bene il percorso che ha portato i compagni e le compagne del PCL prima ad assumere un atteggiamento critico, poi a rivendicare una propria rappresentanza negli organismi dell’area, infine a sviluppare un’azione di contrasto al gruppo dirigente nell’area. Colpisce però oggi vedere argomenti e posizioni di qualche anno fa.

Colpisce però, soprattutto, la caratterizzazione che attribuiscono al documento Le radici del sindacato, sin dal titolo della loro dichiarazione di voto: un documento democratico-riformista. Le parole sono importanti. Le parole cioè hanno un senso e un peso, soprattutto quando sono usate da compagni con grande spessore e cultura politica. Democratico, allora, non vuole dire sensibile alle esigenze e rispettoso dei diritti altrui [tanto più quando questi compagni attaccano il percorso proprio perché secondo loro è verticistico] e non vuole nemmeno dire genericamente conforme ai principi della democrazia. Con questo termine ci si riferisce ad una precisa collocazione politica di classe. I democratici sono quelli che stanno al di là delle molteplici soggettività politiche della classe lavoratrice, al di là del perimetro delle forze coinvolgibili in una politica di fronte unico di massa e di classe (con cui, poi, certo, ci si confronta e si contende, anche aspramente, la direzione dei conflitti). Dire che il documento alternativo al XIX congresso della CGIL è democratico-riformista, allora, vuol dire affermare che non è semplicemente ambiguo, confuso, centrista o riformista, vuol dire che svolge il ruolo di un’agenzia della borghesia nel movimento operaio, che al fondo si è «commessi della classe capitalista nel campo operaio», secondo la bella e giustissima espressione dei seguaci di Daniel de Leon in America (come disse Lenin in Devono i rivoluzionari lavorare nei sindacati reazionari?). Un soggetto funzionale agli interessi del padronato e quindi un avversario di classe da sconfiggere, isolare ed espellere dal movimento operaio il più rapidamente possibile.

Così viene caratterizzato il documento alternativo al XIX congresso CGIL. Non mi è chiaro, esattamente, come a questo punto si dovrebbe caratterizzare il documento Il lavoro crea il futuro, la maggioranza della CGIL. E cosa, alla fine, distinguerebbe le due impostazioni. Ancora meno, a questo punto, come caratterizzano la CISL. Le parole hanno appunto un senso e qui, a me, pare siano usate a sproposito. In realtà, non ritengo che neanche l’intera CGIL sia oggi definibile tout court democratico-riformista: sebbene le tendenze burocratiche sussidiarie abbiamo sostanzialmente un’impostazione democratica (come oramai la CISL, con venture corporative e reazionarie), non avendo più nemmeno un’impostazione riformista (l’aspirazione ad trasformazione sociale progressiva), come ho argomentato nelle pagine precedenti non credo che la CGIL nel suo complesso abbia ancora questa caratterizzazione (sebbene sicuramente abbia quella riformista). Se non altro per la sua inconcludenza, questo processo non è ancora compiuto. Assegnare questa caratterizzazione a Le radici del sindacato, allora, è semplicemente caricaturale. Caricaturale ma non casuale: serve a polarizzare le differenze, tracciare solchi e scavare trincee, distinguersi per risaltare (ed esaltarsi) come l’unica posizione di classe. D’altra parte, lo propone chi scrive che radicalismo, classismo e anticapitalismo sono tre parole che possono anche essere sostituite da una sola che le contiene tutte e tre: marxismo. Cioè, questa caricatura è avanzata da chi ritiene che ci sia un solo anticapitalismo: ovviamente il suo.

D’altronde, questa caricatura è connessa ad una pratica. I compagni e le compagne in questione non si sono limitati a presentare contemporaneamente un emendamento alla risoluzione finale, una risoluzione alternativa e un ulteriore ordine del giorno politico programmatico all’assemblea nazionale di Firenze del 13 aprile (con una certa esuberanza di posizionamento, diciamo). Al successivo Coordinamento nazionale di RiconquistiamoTutto hanno deciso di presentare una sessantina di modifiche al documento alternativo, interpolate nel testo. Cioè, invece di individuare e chiarire i nuclei di dissenso (che pure, come vedremo, ci sono) con veri e propri emendamenti (come gli è stato proposto) hanno deciso di presentare questa mole di modifiche (una 60ina!!) e hanno chiesto di votarle una per una. La riunione era in presenza e on line: il voto di ciascuno avrebbe necessariamente impiegato diversi minuti (identificare l’emendamento, presentarlo, dichiarazione di voto contrario, voto e conta). Era, di fatto, una richiesta ostruzionistica (il voto complessivo sul testo, ovviamente, sarebbe stato solo al termine del voto di tutti gli emendamenti), volta a svalutare l’approvazione del documento. La decisione della Presidenza di metter al voto gli emendamenti nel loro insieme era l’unica applicabile. Non solo. Dopo aver ottenuto 3 voti su una trentina, alla successiva riunione tra le tre aree hanno chiesto di presentare le loro posizioni (cosa ovviamente legittima e che non ha sollevato problemi), ma nonostante i tempi e gli interventi limitati (nel quale dovevano trovare adeguato spazio i tre diversi soggetti) hanno chiesto di intervenire tutti e tre (poi ridimensionando la richiesta in 2 interventi + la presentazione della loro dichiarazione), accusando quindi la presidenza di gestione camorrista davanti la richiesta di limitarsi ad un solo intervento (gestione camorrista!!! Sic! Accusa ritrattata ma poi ribadita nel secondo intervento, comunque svolto: l’accusa di gestione camorrista, comunque, è poca cosa rispetto alla scelta di tagliare interventi, ecc ecc). Questa prassi, cioè, è congruente alla caricatura avanzata, volta solo all’autoaffermazione della propria identità.

Certo, i nodi del dissenso sono evidenti. In primo luogo, la guerra in Ucraina. A fronte delle spaccature nel movimento sindacale italiano sulla questione dell’invio delle armi (il solco che oggi divide CGIL e CISL), a fronte del rischio incipiente dello schiacciamento del movimento operaio in una logica di blocco europeo (a cui, come abbiamo visto, non si sottrae completamente neanche la CGIL), i compagni in questione ritengono oggi fondamentale portare nel movimento operaio, nella discussione per il congresso della CGIL, una posizione a sostegno della resistenza ucraina. Non è solo una posizione sbagliata, che tra le altre cose presta il fianco a dinamiche reazionarie: è una posizione che oggi produce tra i lavoratori e le lavoratrici confusione, non focalizzando lo scontro internazionale in campo e soprattutto la diretta azione italiana di cobelligeranza, insieme alla NATO. Una posizione che, astraendo dall’analisi della realtà in nome di un supposto purismo dottrinario e della solita tendenza all’autoaffermazione della propria identità, sposta in secondo piano proprio quello che dovrebbe invece esser oggi prioritario: l’assunzione di un profilo autonomo ed indipendente del lavoro, per una politica antimilitarista, antinazionalista, internazionalista e disfattista.

In secondo luogo, propongono rivendicazioni precise e puntuali: in particolare, aumenti fissi e certi di almeno 250 euro in due anni, la pensione con 35 anni di anzianità, un minimo di 1500 euro al mese di stipendio, 12 euro all’ora di salario mino, 30 ore di lavoro settimanali su 5 giorni. Un documento congressuale, però, non è una piattaforma, non è volantino, non è nemmeno la raccolta di rivendicazioni per una vertenza generale. Non lo è, perché nonostante si presenti a centinaia di migliaia di lavoratori e lavoratrici (in 10, massimo 15 minuti), non è su quel testo e non è con quel voto che si organizzano mobilitazioni e iniziative di conflitto. Un congresso CGIL, cioè, non è uno strumento di attivazione di lavoratrici e lavoratori, ma semplicemente un passaggio di raggruppamento, raccolta del consenso e organizzazione di una posizione collettiva nel sindacato. Le rivendicazioni e le parole d’ordine per una mobilitazione, infatti, si costruiscono in stretto raccordo con la contingenza, i rapporti di forza, la dinamica di classe, l’evoluzione del movimento di lotta. L’articolazione specifica della rivendicazione, allora, deve esser valutata attentamente nei contesti e nei momenti in cui si avanza, proprio per evitare di risultare astratti dalla realtà (in alcuni momenti o situazioni avanguardisti, in altre arretrati). Ed infatti, nella foga di avanzare rivendicazioni propagandiste (talvolta venate da un radicalismo senza costrutto), non si rendono nemmeno conto delle contraddizioni delle proposte che avanzano. Così, un salario di 12 euro l’ora (per 30 ore settimanali) non si accorda con uno stipendio di 1500 euro al mese. Così, le trenta ore sono proposte su 5 giorni alla settimana, quando contrattazioni e sperimentazioni sulla settimana corta di 4 giorni sono già realtà in diversi paesi europei (Belgio, Islanda, Scozia, persino Spagna). Così, i 250 euro di aumento mensili in due anni sono un importo sfasato non solo rispetto a piattaforme contrattuali avanzate da RT (nella scuola, che ha gli stipendi più bassi del pubblico impiego, si è proposto i 300 euro nel 2019, prima dell’attuale inflazione), ma anche vicina a rinnovi contrattuali di questo periodo (alimentaristi o chimici), inferiore a quella di alcuni settori (la ricerca, per esempio).

In terzo luogo, si critica il riferimento al nuovo modello di sviluppo. L’uso di questa espressione, marchio di fabbrica della maggioranza, sarebbe infatti solo oppio dei riformisti, al massimo il migliore dei capitalismi possibili. Può essere. Il problema è capire come questo riferimento, certamente vago, è declinato nel testo. Guardiamo ad esempio il documento alternativo al congresso del 2010, La CGIL che Vogliamo: l’obiettivo del cambiamento degli equilibri sociali a favore del mondo del lavoro è oggi invece uno strumento fondamentale per uscire dalla crisi con un nuovo modello sociale fondato sulla coesione, la solidarietà e l’uguaglianza data dall’universalità dei diritti. Occorre fare della redistribuzione della ricchezza, dei diritti e dei poteri la leva su cui agire per costruire uno sviluppo diverso e più giusto. Occorre assumere in questo quadro la salvaguardia e la qualificazione del sistema di welfare… Occorre invertire il rapporto tra pubblico e privato. Effettivamente, in questa declinazione, il nuovo modello di sviluppo è semplicemente un capitalismo con un punto di equilibrio tra capitale e lavoro, un compromesso su diritti, redistribuzione della ricchezza e salario sociale. Vediamo invece come è articolato questo concetto ne Le radici del sindacato: occorre cioè un’azione incisiva e radicale, per conquistare un’egemonia capace di produrre una mobilitazione di massa per la salvaguardia del pianeta, contro la guerra e a difesa della pace, contro l’erosione dei salari e per le condizioni di vita dei ceti popolari, un movimento dell’insieme del lavoro in grado di porsi l’obiettivo di superare lo stato di cose esistenti. La pace, la qualità della vita e dell’aria che respiriamo, la salute, la sicurezza e la dignità di chi lavora e di chi abita un territorio, così come la bellezza e il patrimonio artistico del paese non si conciliano con profitto, privatizzazione, guerra e sfruttamento capitalista delle risorse del pianeta. È questo che va radicalmente messo in discussione. La Cgil deve lottare per un modello di sviluppo pacifico e solidale, alternativo a un capitalismo bellicista e distruttivo della natura, della società e della democrazia, dove ciò che conta è solo il profitto delle imprese. Il nuovo modello di sviluppo è cioè in questo testo un termine che serve ad indicare l’irriducibile opposizione all’attuale modo di produzione, bellicista e distruttivo per il pianeta, e quindi la necessità di un movimento di massa dell’insieme del lavoro in grado di porsi l’obiettivo di superare lo stato di cose esistenti. Certo, vago, in quanto delinea un posizionamento genericamente anticapitalista, non un progetto politico socialista (che, forse, sarebbe improprio nel programma di un’organizzazione sindacale), ma non esattamente la proposta del migliore dei capitalismi possibile. Poi, certo, secondo alcuni i Bertinotti, gli Tsipras, gli Iglesias, i Mélenchon di tutte le latitudini si leccherebbero i baffi di fronte a questo documento, e ne farebbero la parte sindacale della loro proposta politica. Peccato però che i partiti centristi e riformisti italiani (non solo Sinistra Italiana, ma anche il PRC, il PCI, l’insieme di forza verso l’Unità popolare) non si stiano leccando i baffi per il documento alternativo al congresso CGIL, anzi spesso non lo considerano neppure, perché loro ampi settori (persino diversi esponenti locali di Potere al Popolo) sostengono… quello della maggioranza.

Infine, si critica alcune astensioni e si chiede che RiconquistiamoTutto si ponga come gruppo dirigente alternativo della CGIL. In questi mesi e in questi anni, in realtà, le aree programmatiche di opposizione (e poi anche Democrazia e lavoro) hanno votato contro a risoluzioni nei direttivi, contrastato accordi e rinnovi, presentato piattaforme alternative (ad esempio in FLC) e soprattutto praticato concretamente conflitti e percorsi di lotta. L’alternatività alla linea della CGIL, cioè, è stata espressa non solo nei momenti cruciali della dinamica sindacale, ma a partire dalle prassi e dai conflitti reali (anche partecipando a piazze, iniziative di lotta, scioperi che non vedevano protagonista la confederazione). In questa dinamica, certo, non si è mai avuto neanche il timore ad astenersi o a votare specifici dispositivi o impegni, concordati con la maggioranza o proposti dalla stessa, se li si riteneva in quel momento utili a imprimere una parabola positiva alla dinamica delle cose. Lo scopo di un documento alternativo, o di un’area sindacale, non è infatti propagandare la sua esistenza e il suo programma, ma sviluppare dinamiche di organizzazione di classe e conflitto. In questo quadro, allora, in ultima analisi la ragione di questo documento alternativo non è la conquista della guida della CGIL (come invece proposto sic et simpliciter dai suddetti, che tra parentesi indicano qui il gruppo dirigente della CGIL come luogotenenti del capitale in seno alla classe operaia: strano, pensavamo lo fossero quelli de Le radici del sindacato con le loro posizioni democratiche-riformiste). Il documento alternativo non si propone questo obbiettivo per una fondamentale ragione. Una soggettività che raccoglie oggi solo forze limitate, molto limitate, rischierebbe non solo di assumere così atteggiamenti bombastici, ma anche di non focalizzare il suo compito principale. In un’organizzazione sindacale di massa, le cui contradditorie tendenze sono inscritte nella sua natura e oggi si esprimono con questi rapporti di forza, le aree classiste devono infatti prioritariamente proporsi di sviluppare una dinamica di conflitto e organizzazione della classe: rafforzare l’altra anima del sindacato, non conquistare una posizione nel sindacato. Risulta poi paradossale che si proponga di sostituire l’attuale gruppo dirigente della CGIL con…l’attuale opposizione di RT [Sic!]. Cioè, un documento unitario che raccoglie diversi percorsi e aree programmatiche, dovrebbe porsi l’obbiettivo di promuovere solo una sua componente. Non è una svista: è la rivendicazione di un atteggiamento settario, per cui la CGIL è il luogo della propaganda e dell’autoaffermazione della proprio identità, non quello della costruzione di una corrente programmatica che si propone lo sviluppo del conflitto sociale e della coscienza di classe.

Insomma, una caratterizzazione senza misura, una pratica settaria, una critica senza senso. D’altra parte, non è che ci si possa aspettare comportamenti molto diversi da una formazione politica che organizza la propria festa nazionale in Toscana nello stesso giorno in cui cade l’anniversario dell’annunciata chiusura e quindi dell’occupazione dello stabilimento GKN, con relativo appuntamento a Campi Bisenzio, in evidente competizione e senza nessuna connessione con quella dinamica di resistenza, proprio quando la vertenza si riaccende e si richiama alla necessità di un’ampia convergenza di lotta.

Luca Scacchi

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