Assemblea Uniamo le forza, Guerra alla loro guerra!, Milano, 11 giugno 2023.
In corsivo gli appunti a completamento dell’intervento.

Care compagne e cari compagni, io la prendo da qui:
un anno e mezzo fa, prima del 24 febbraio, la nostra aspettativa ed io direi la nostra speranza era quella di vivere un anno diverso. Usciti dalla pandemia e da quell’ingabbiamento delle lotte che la pandemia in parte aveva determinato, con divisioni all’interno della classe e nelle dinamiche di movimento, ci si aspettava e si sperava in un anno di ripresa dello scontro di classe. Dalle contraddizioni della Grande Crisi sembrava infatti svilupparsi una nuova prospettiva depressiva ed anche una nuova, significativa, dinamica inflazionistica [iniziata negli USA a partire dal significativo intervento monetario nella pandemia e diffusasi anche in Europa, a partire dalle strettoie produttive della ripresa, ben prima dello scoppio del conflitto in Ucraina]. Sulla questione trasversale del salario, allora, si era pensato e sperato di trovare una dinamica ricompositiva, un ritorno dirompente delle lotte nei rapporti di produzione, in grado di avviare una ripresa dell’organizzazione e della coscienza politica diffusa della classe lavoratrice.

Non è stato così. Non è questo il bilancio che abbiamo di quest’anno. Noi crediamo che il primo elemento di difficoltà, e quindi il primo momento di ragionamento che dobbiamo avere, sia esattamente questo. Lo scoppio di una guerra, non un conflitto lontano e dal profilo neocoloniale ma una guerra centrale, tra potenze importanti [che quindi coinvolge nel clima bellico l’insieme delle società che ne sono attraversate, sia direttamente, sia indirettamente], ha quasi sempre un primo effetto controrivoluzionario. Cioè, ha l’effetto di serrare le file del capitale, inquadrare le società e, come dire, far tenere bassa la testa al proletariato. Una guerra con un profilo rilevante, che ha il potenziale di diventare totale e coinvolgere l’insieme dei paesi del mondo, ha cioè anche la capacità di alzare un’ondata reazionaria: sospingere il nazionalismo e diffondere processi di nazionalizzazione di massa, con dinamiche che attraversano anche le classi subalterne e rafforzano le Destre più becere e autoritarie, anche quelle fasciste o di matrice fascista.

Allora, come ControVento oggi abbiamo aderito a questa assemblea. Sì, certo, per l’importanza della parola d’ordine specifica che oggi viene avanzata: guerra alla guerra. La costruzione di una posizione disfattista e contro entrambi gli imperialismi coinvolti in Ucraina. Ma il motivo principale per cui abbiamo aderito, e abbiamo aderito anche al documento di proclamazione di quest’assemblea, è un altro. Il fatto che si individuano gli imperialismi che stanno alle spalle del conflitto materiale che si svolge in Ucraina. E si ragiona su di essi. Cioè, il fatto che nel testo di lancio dell’iniziativa di oggi si indicano esplicitamente gli imperialismi in prima fila nel conflitto: l’imperialismo russo, straccione ma non meglio imperialista per questo, basato su un capitalismo rentier e su, come dire, i nuclei residui dell’apparato militar-industriale sovietico; il multiforme, multipolare e contradditorio capitalismo europeo [nel quale si contrappongono tendenze e frazioni diverse, tra chi vuole tessere uno sviluppo euroasiatico verso il mercato cinese e chi privilegia un’asse atlantico, la divisione asiatica e il contenimento cinese]. Due imperialismi che da anni si contendono quel limes, quella terra di confine tra loro, con flussi commerciali e di capitale, con sostegni ai regimi amici. Alle spalle di questi due imperialismi deboli, però, ci sono e si individuano i due imperialismi principali, quello statunitense declinante e soprattutto quello cinese.

Noi siamo di fronte ad una guerra interimperialista che ha infatti questi come protagonisti principali. Non c’è invasione Russa senza profondità cinese. Non c’è resistenza ucraina senza la NATO. Noi crediamo che in questo quadro il movimento rivoluzionario, il movimento comunista e rivoluzionario, dovrebbe fermarsi e ragionare, fermarsi trenta secondi a ragionare, sul fatto che ci troviamo di fronte a uno Stato governato da un Partito Comunista, certo di matrice stalinista, che senza soluzione di continuità ha costruito un prorompente sviluppo capitalista dagli anni ottanta e oggi arriva a gestire l’espansione imperialista del proprio paese. Non un’espansione imperialista causata, motivata, sospinta, da una politica nazionalista di questo o quel segretario generale (oggi Xi Jinping, domani vedremo). Al contrario, queste politiche sono sospinte da ragione strutturali, da uno sviluppo centrato su investimenti senza precedenti (sopra al 40% del PIL, il doppio che in tutti i paesi a tardo capitalismo). Molti compagni e molte compagne qui, sentivamo prima quelli dell’Askatasuna di Torino, appartengono o hanno presente le lotte che in Italia ci sono state contro la TAV, la sua devastazione ambientale, ed hanno presente il significato che la TAV ha nella curvatura degli investimenti e dello sviluppo capitalistico di questo paese. In Cina negli ultimi vent’anni sono stati costruiti più di trentamila chilometri di TAV, più di quanto è stato costruito in tutto il resto del mondo. Quelle imprese che hanno retto quell’investimento strutturale, centrato sull’acciaio, l’energia elettrica, il cemento, le costruzioni, i trasporti, sono oggi imprese che guidano le classifiche non solo in Cina, ma in tutto il mondo (guardate con attenzione la lista 500 di Fortune). Quel capitalismo, che oggi non è più in grado di espandersi e fare profitti all’interno del confine cinese, si espande. Esce. Sviluppa le nuove vie della sete e costruisce porti, ferrovie, industrie negli altri paesi. Acquisisce le banchine di Trieste o il porto del Pireo. O l’infrastruttura elettrica e del gas italiana, vedi il ruolo di Stategrid in CDP Reti, e quindi in Terna ed Italgas.

Allora, se la guerra in Ucraina non c’è senza la Cina, dovremmo fermarci a ragionare su cosa questo significa e come affrontarlo. Nelle prospettive dello scontro imperialistico mondiale (quando si contrappongono potenze di dimensioni mondiali) e nei rapporti di classe sul piano mondiale. Innanzitutto, perché il regime della Repubblica Popolare Cinese ha avuto la capacità, e ha ancora la capacità, di controllare, reprimere e inglobare la più grande concentrazione operaia esistente al mondo. Quindi, spezza quei processi di internazionalizzazione della classe lavoratrice a cui noi guardiamo a partire dal proprio paese.

Dovremmo cercare di capire tutto questo perché la guerra che abbiamo di fronte, lo hanno detto in tanti oggi, è una guerra interimperialista causata dalla Grande Crisi del 2006/08, che oggi ha per prospettiva la divisione del mondo. Lo vediamo in primo luogo nel Pacifico, che è il vero fronte dello scontro tra USA e Cina. Lo vediamo nella tessitura di alleanze commerciali e militari: le tante intese regionali sugli scambi dell’ultimo decennio, a geometrie variabili ed esclusioni contrapposte, AUKUS, QUAD, l’Organizzazione per la cooperazione di Shangai o le esercitazioni militari Vostok tra Cina, Russia, Iran e altri paesi. Tutto questo è importante perché il problema oggi non è come noi rispondiamo alla guerra in Ucraina, ma come ci attrezziamo ad una nuova fase che svilupperà in maniera continuativa quel tipo di contrapposizione tra poli imperialisti. Viene da dire, qualunque sia la conclusione militare del conflitto ucraino, in una dinamica in cui siamo entrati nell’orizzonte degli eventi di un possibile terzo conflitto mondiale, che, come un buco nero, inizia a riportare tutte le cose alle sue ragioni.

Dentro questa dinamica, allora, ci sono tutte le difficoltà che abbiamo oggi. Le presento solo per sommi capi, per ragioni di tempo. Guardate, in primo luogo, questa dinamica cambia le politiche capitalistiche di gestione della crisi. Ritorna protagonista lo Stato, il suo controllo economico e politico. Ritorna una militarizzazione ed una centralizzazione del sistema produttivo. Un processo che coinvolge anche noi, perché innesca anche una militarizzazione sociale. Certo, una militarizzazione che passa anche per una repressione, ne hanno parlato molti compagni/e. Ma oggi, crediamo, non è questo il suo elemento principale: il lato più preoccupante oggi, dopo questo anno e mezzo, è che in realtà sta soprattutto passando per tentativi, come dire, di inquadrare le classi subalterne, nazionalizzarle, costruendo fronti nazionalisti in grado di unificare i diversi soggetti sociali, assoggettandoli alle logiche del capitale, con processi di portata continentale in grado esattamente di spezzare gli interessi e l’autonomia della classe lavoratrice.

In questa situazione, allora, dobbiamo capire come reagire e uscire dall’angolo. Per questo abbiamo aderito a questa assemblea. Per affrontare un problema, bisogna in primo luogo riconoscerlo collettivamente, partire da questo elemento di chiarezza sulla nuova fase che abbiamo di fronte. Capirlo, per poi cercare di agirlo, di agirci sopra. Da questo punto di vista, per chiudere, noi crediamo che dobbiamo esser consapevoli di una condizione e proporci tre compiti politici.

La condizione è quella di rapportarsi alla situazione della classe. Le soggettività programmatiche organizzate, cioè, devono esser consapevoli che non possono sostituirsi alle dinamiche di massa, solo in virtù della loro analisi e dei loro obbiettivi, ma devono rapportarsi in primo luogo alla coscienza, l’azione e lo sviluppo della classe lavoratrice. Senza accodarsi ad essa, ma neanche pensando di poterla sovra-determinare avanguardisticamente. La classe lavoratrice in Italia oggi è sempre più destrutturata, disorganizzata e divisa, con rivendicazioni, dinamiche e cicli di lotta, visioni, coscienze ed identità diverse. Abbiamo settori combattivi (pochi e limitati) e altri arretrati. Un corpo maggioritario della classe arretato. Guardate, il problema è che oggi i settori ad esser politicamente e sindacalmente più disorganizzati sono proprio quelli più centrali nei rapporti di produzione (a partire dalle grandi fabbriche).

Il primo compito allora, noi crediamo, è quello di sviluppare il nostro impegno politico collettivo. Non possiamo dare per scontato che quello che diciamo da questo palco, solo perché lo diciamo da questo palco, sia ascoltato. In Italia ci sono trenta, quaranta, cinquantamila compagni e compagne, militanti ed attivisti politici, sindacali e sociali. Larga parte di questi non vedono e non colgono la portata di questa guerra e delle prossime che verranno. Non è solo, e forse tanto, un impegno ad esplicitare le differenze politiche con chi sostiene ipotesi socialimperialiste o campiste di varia natura (a partire dal sostegno del multipolarismo, come se non fosse un pluralismo imperialista), come è stato detto da molti interventi oggi, anche giustamente. Il primo elemento, noi crediamo, è quello di spiegare. E una delle prime cose che dovremmo predisporci a spiegare, a raccontare, illustrare e dimostrare, è a nostro parere il ruolo imperialista della Cina. Il suo sviluppo capitalista e la sua espansione capitalista. La sua corsa ad una nuova spartizione del mondo. Perché molti, compagne e compagni, sono oggi incerti, confusi e sbandati sulla guerra in Ucraina, perché non vedono la Cina. Non si capisce quello che capita in Ucraina, perché non si pensa ci sia la Cina alle spalle della Russia. Qui sta il nostro ruolo politico, di intervento e spiegazione.

Il secondo compito è rispetto al movimento per la pace. Guardate, è vero che non c’è più il movimento internazionale contro la guerra del 2002/2003. Non c’è più nelle sue dimensioni di massa (i milioni) e nella sua trasversalità internazionale. Oggi molti suoi settori, molte sue componenti, sono in realtà schierati nel conflitto ucraino. Un pacifismo con l’elmetto. Da una parte quello schiacciato sul sostegno all’Ucraina, il diritto alla difesa nazionale, il contrasto all’aggressione russa, in alcune sue soggettività persino schierato a sostegno della NATO, del suo intervento e della sua espansione. Lo si vede nelle bandiere ucraine in piazza, nei collegamenti con Zelensky, nel supporto all’invio di armi. Dall’altra, un rifiuto della guerra declinato sulle difese delle proprie specificità nazionali, delle proprie condizioni di vita, dell’indifferenza nei confronti degli eventi internazionali, in qualche modo del diritto a regolare militarmente le vicende nelle proprie aree di influenza (elementi ai quali talvolta si agganciano settori neocampisti, multilaristi e di sostegno alla Russia). Questo pacifismo armato o diversamente armato è particolarmente presente in alcuni paesi, pensiamo alla Francia, alla Scandinavia, alla Germania (in entrambe le sue versioni) o alla Repubblica ceca. Qui, in queste dinamiche, ci stanno anche alcune organizzazioni di matrice internazionalista, ma che in modo irresponsabile si sono schierate a supporto della cosiddetta resistenza ucraina (alcuni guardando astrattamente al conflitto militare, in modo libresco, senza leggervi il quadro combinato delle relazioni internazionali; altri subendo il clima di massa e le posizioni di ampi settori di movimento). In Italia però una mobilitazione per la pace c’è stata, ed è stata in qualche modo diversa. C’è stata in piazza il 5 marzo, su una piattaforma che sosteneva il no all’invio delle armi e il diritto alla diserzione russa e ucraina (non a caso senza CISL, PD e compagnia bella, che si ritrovavano a Firenze); c’è stato il 5 novembre a Roma e intorno al 24 febbraio in molte piazze italiane (ancora con posizioni chiare contro l’invio di armi, sebbene meno nette su altri elementi). Un movimento ampio, di decine se non centinaia di migliaia di persone, molto composito e per certi versi confuso: egemonizzato dalle solite componenti classiche del pacifismo (cattoliche, liberali, democratiche, borghesi). Però è un movimento che vede le proprie componenti pacifiste radicali sconvolte dalla prospettiva mondiale della guerra, da uno scontro internazionale e di matrice imperialistica che colgono con chiarezza. Io credo che sia importante non astrarsi da questo movimento (lo diceva prima Massimo Betti di SGB), ma starvi dentro per polarizzarne proprio le componenti radicali in un discorso disfattista, contro tutti gli imperialismi in gioco. Un’azione che credo possa svilupparsi a partire da una rigorosa azione antimilitarista, l’hanno proposta in tanti qui, dentro le scuole, le università, i territori. Contro l’invio delle armi.

Il terzo impegno, e abbiamo finito, è ovviamente quello della lotta di classe. Noi abbiamo colto, dopo un autunno di convergenze parallele ed un gelido inverno, una stagione che porta segnali nuovi. Segnali molteplici, differenti, per certi versi contradditori. Ad esempio, sempre Betti (SGB) ricordava la manifestazione del 17 giugno a Bologna, contro la devastazione ambientale che abbiamo visto in Emilia portata avanti dalle logiche del profitto: una manifestazione lanciata da una partecipata assemblea popolare di piazza il 27 maggio. Ma proprio quel giorno si potrebbe anche ricordare la manifestazione romana per il reddito, che ha visto protagoniste realtà sociali, autorganizzate, volontariato, strutture CGIL e sindacati di base, o quella di Torino sulla Sanità pubblica con una simile composizione. Noi vorremmo anche ricordare la ripresa degli scioperi allo stabilimento FCA-Stellantis di Pomigliano d’Arco, tre giorni di sciopero prolungato dal 10 al 12 maggio ed il ritorno degli scioperi sugli straordinari obbligatori il sabato il 27 maggio. La situazione complessiva della classe, però, rimane comunque ancora difficile, articolata, disomogenea. Con contraddizioni e dinamiche ancora imprevedibili, soprattutto nel prossimo autunno. Anche per le contraddizioni e le contrapposizioni nel sindacalismo confederale. In ogni caso, non è un comitato centrale che decide un movimento di massa. Non è neanche la somma dei diversi comitati centrali, la semplice volontà di un fronte di forze politiche e sociali. Noi dobbiamo allora in questa fase impegnarci soprattutto a costruire e sviluppare un punto di riferimento politico, capace di supportare, collegare e allargare le lotte di classe, a partire dallo scontro nei rapporti di produzione, e da lì quindi sviluppare una prospettiva e una prassi internazionalista.

ControVento.

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