Le prossime elezioni europee, la nuova offensiva reazionaria, la necessità di ritessere un’opposizione di classe.

IL 9 GIUGNO SI TERRANNO LE ELEZIONI PER IL PARLAMENTO DELL’UNIONE EUROPEA.

Sullo sfondo della nuova stagione dell’imperialismo di attrito, sono elezioni importanti. I suoi risultati tracceranno infatti dinamiche e linee di frattura che si intrecceranno con gli eventi dei prossimi anni, a partire dalla progressiva evoluzione della competizione tra i principali poli capitalisti in una contrapposizione politica e militare tra blocchi. L’Unione Europea, in questo passaggio, è segnata da processi, tendenze e interessi contrapposti. Al classico pluralismo degli imperialismi continentali [a partire dai principali paesi, Germania, Francia, Italia e Spagna, con la Gran Bretagna alla porta] si aggiungono infatti importanti differenze tra diversi settori del capitale e delle classi dirigenti: alcuni delineano l’esigenza di una nuova autonomia dell’Unione, capace di sviluppare un proprio ruolo strategico indipendente; altri invece di fronte ai nuovi rischi di conflitto mondiale pongono la necessità di allinearsi strettamente all’asse atlantico, per poter prevalere contro l’emergente polo asiatico; altri ancora ritengono importante allentare i fili dell’Unione, perché ritengono improbabile reggere unitariamente, temono di esser travolti dai processi federalisti e dalle politiche che vi si imporrebbero.

La costruzione incompiuta dell’Unione Europea ha formato istituzioni comunitarie (Parlamento, Commissione e Corte di giustizia), una moneta unica e una Banca Centrale, la quale ha agito nella crisi dei bilanci (2010/12) e in quella pandemica (2020/22) come prestatore in ultima istanza e, in fondo, come perno centrale dell’Unione: la sola di fatto in grado di tenerla insieme. Questo conformazione ha accompagnato processi di ristrutturazione produttiva continentali, plasmando nell’Unione un nucleo centrale industriale basato sulle esportazioni [Germania, Francia, Danimarca, Svezia, Finlandia, Norditalia e Spagna settentrionale], una semi-periferia su cui si allungano le filiere produttive del nucleo [in particolare Polonia, Repubblica Ceca e gli altri paesi mitteleuropei) ed una di servizi finanziari (Lussemburgo, Paesi Bassi, Irlanda, Malta, Baltici), oltre una serie di periferie segnate dal debito (Portogallo, Grecia, Balcani, Spagna ed Italia meridionale). Però, la UE non ha mai costruito un vero mercato unico dei capitali (imprese di dimensioni e interessi continentali), una politica fiscale unitaria (un sistema statale federale), una difesa comune (cioè, un comando politico in grado di poter usare la forza a livello continentale). Per poterlo fare, avrebbe bisogno di allineare i molteplici imperialismi e le diverse formazioni sociali che si sono stratificate nel continente, definendo vincitori e vinti, sviluppando appartenenze sociali e strategie dominanti.

QUESTE ELEZIONI NON DETERMINERANNO IL DESTINO DELL’UNIONE EUROPEA.

Saranno gli eventi dei prossimi anni a sospingere la sua trasformazione in un senso o in un altro. Queste elezioni sono importanti, però, perché gli assetti politici che vi saranno definiti influenzeranno e, in qualche modo, indirizzeranno questi processi.

In primo luogo, influenzeranno la sua effettiva capacità di reggere in questa stagione. La cosiddetta Eurobolla [l’insieme di apparati e funzionari che oggi gestiscono l’Unione], l’establishment continentale in senso lato e l’attuale asse franco-tedesco-polacco in senso stretto (i governi Scholz, Macron e Tusk che costituiscono l’attuale direzione politica della UE), sono consapevoli della necessità di serrare gli assetti continentali. La guerra in Ucraina, le minacce strategiche, economiche ed energetiche di questi due ultimi anni, la necessità di un riarmo per sviluppare capacità militari globali non affrontabili isolatamente dai diversi paesi, la possibile nuova Presidenza Trump e l’eventuale sganciamento del suo impegno sul vecchio continente: tutto questo ha reso evidente l’urgenza di uno sviluppo delle istituzioni e delle politiche europee per poter reggere alle nuove necessità della competizione e della contrapposizione mondiale. L’attuale Commissione, non a caso, ha incaricato Enrico Letta e Mario Draghi di preparare due rapporti [il primo già pubblicato, il secondo oggetto di dichiarazioni e in qualche modo anticipato lo scorso autunno con un importante articolo su The Economist]: al centro di entrambi ci sono i compiti immediati per permettere la sopravvivenza e lo sviluppo della UE, il primo sottolineando l’esigenza di costruire attraverso politiche guidate grandi imprese continentali sul versante della tecnologia come della difesa, il secondo indicando l’esigenza di costruire un sistema fiscale ed un bilancio federale in grado di sostenere gli investimenti necessari per sostenere questi campioni continentali. Un tema da tempo rimarcato da un terzo personaggio politico italiano di profilo continentale, Romano Prodi, che arriva negli ultimi anni e anche oggi a sostenere quelle soluzioni a due velocità che aveva avversato negli anni ’90, quando Schauble e Lamers (l’allora  centro di comando della CDU al Bundestag) le avevano prospettate con Italia e Spagna fuori dal cosiddetto Euronucleo. Il problema è che l’attuale direzione politica europea (popolare, socialista e liberale), oltre a dover mediare tra i diversi punti di vista nazionali, non ha più un solido consenso nell’elettorato e nelle stesse classi dirigenti dell’Unione. Forse non avrà neppure una maggioranza parlamentare. Queste elezioni, cioè, potrebbero indebolire ulteriormente la capacità di avviare nuovi processi federali, rendendo più incerta la base politica su cui, di fronte al precipitare degli eventi, sarebbe possibile imporre nuovi passaggi. I nuovi assetti post-elettorali, cioè, potrebbero render ancor più complicata, contradditoria ed instabile la gestione dell’Unione. Se fosse effettivamente così, si determinerebbe una sostanziale incapacità a stare al passo con la precipitazione degli eventi, con un progressivo logoramento e quindi possibili ulteriori fratture dopo quella con la Gran Bretagna.

In secondo luogo, i risultati potrebbero segnare un punto di passaggio per le destre reazionarie. Questo denso anno elettorale, che si è politicamente aperto con l’ascesa di Milei in Argentina e ha sinora visto la vittoria del generale Subianto in Indonesia, la conferma di Modi in India, il possibile ritorno di Trump in Usa, potrebbe vedere la nuova destra conquistare un ruolo nel continente europeo. Nonostante lo scorso anno ci siano state l’inattesa sconfitta in Polonia e la mancata vittoria in Spagna, sei paesi europei vedono oggi al governo forze reazionarie, che probabilmente confermeranno il proprio consenso a queste elezioni: Italia (Meloni, Fratelli di Italia e Lega), Ungheria (Orban, Fidesz), Repubblica Ceca (Fiala, ODS) Finlandia (Orpo, conservatore, con la presenza dei Veri Finlandesi), Croazia (Plenkovic, Hdz) e da pochi giorni i Paesi Bassi (Schoof, ex capo dei servizi segreti, in un governo guidato dalla destra conservatrice ma dominato dal PVV di Geert Wilders). A questi si aggiungono la Slovacchia (Fico, Smer – sociálna demokracia, partito che origina dai socialdemocratici eredi del PC, ma si è progressivamente spostato su posizioni nazionaliste autoritarie) e la Svezia (Kristersson, conservatore, ma sostenuto dall’esterno dall’estrema destra dei Democratici Svedesi). Negli ultimi anni si è inoltre sviluppata una destra di massa nella penisola iberica (Vox e Chega, entrambe sull’ordine del 15%), è cresciuta Alternative Für Deutschland superando la SPD (intorno al 20%), si è consolidato il Rassemblement National di Le Pen (negli ultimi sondaggi oltre il 30%, il doppio di En marche di Macron e del redivivo PS), nei Paesi Bassi il PVV e in Austria la FPÖ sfiorano il 30%, mentre in Belgio la N-VA e il Vlaams Belang arrivano quasi alla maggioranza assoluta del voto fiammingo (dati rispettivamente al 22 e al 27%, conquisterebbero un ruolo nazionale tenendo conto che il 9 giugno ci saranno anche le elezioni politiche, sebbene la destra reazionaria sia sotto al 10% a Bruxelles e praticamente inesistente nella Vallonia francofona). La destra reazionaria nel Parlamento Europeo è oggi divisa in due gruppi: Identità e Democrazia (nel quale sono presenti in particolare Lega, RN di Le Pen, Vlaams Belang e FPÖ austriaco) ed i Conservatori e Riformisti Europei (nel quale al di là del nome, determinato dalla sua fondazione ad opera dei Conservatori inglesi, i partiti dominanti sono Fratelli di Italia, il PIS polacco, l’ODS ceca, Vox e i Democratici Svedesi). Queste destre sono tutte cresciute sull’onda di una politica nazionalista e antieuropeista. Il ruolo di governo nei vari stati nazionali e un nuovo profilo nel Parlamento Europeo (anche in relazione all’elezione delle nuove cariche dell’Unione, a partire dal Presidente dell’Assemblea e da quello della Commissione) potrebbe portare ad un cambio di passo, sviluppando una più coerente e omogenea politica reazionaria continentale. La proposta di fondere i due gruppi, dopo l’espulsione della Afd dai Conservatori e Riformisti, e diventare la seconda forza a Strasburgo potrebbe andare in questa direzione, aprendo nuovi scenari nelle dinamiche politiche della UE.

Sul quadro europeo e le prospettive che si determineranno dopo il 9 giugno sarà allora utile tornare, quando saranno disponibili i risultati effettivi. Un punto però sembra assodato dalle attuali dinamiche.

LA SINISTRA EUROPEA È SFIANCATA.

Le forze social-liberali sono in difficoltà: nonostante è probabile possano contare sulla prossima vittoria del Labour nella vicina Gran Bretagna, nonostante abbiano riconquistato la guida del governo tedesco pochi anni fa (non è poca cosa nella UE), nonostante siano riusciti a tenere sul filo di lana la maggioranza in Spagna (Sanchez), guidano altri governi solo in Danimarca (Frederiksen), Romania (Ciolacu) e Malta (Abela, anche se in piena crisi in queste settimane). In Polonia hanno una piccola presenza nell’esecutivo liberale di Tusk [Nowa Lewica, Nuova Sinistra, componente di maggioranza dell’alleanza Lewica, che ha preso l’8% alle elezioni del 2023 ma che ha visto l’altra componente, Lewica Razem, star fuori dall’esecutivo); in Slovenia sono una componente di minoranza del governo Golob, insieme alla sinistra di Levica; in Belgio sono nel governo De Croo, composto dopo 500 giorni dalle elezioni e detto delle quattro stagioni, perché vede alleati liberali, democratico-cristiani, verdi e socialisti, tenendo l’estrema destra fiamminga all’opposizione. Nel resto dell’Europa sono saldamente… all’opposizione.

Quello che più colpisce, però, è il ridimensionamento della sinistra ampia e cosiddetta radicale, sviluppatasi negli ultimi 15/20 anni: in Francia la Nupes si è frantumata, ridando vita ad un PS significativo (dato intorno al 15%) e ad una France Insoumise ridotta anche sotto il 10%, con PCF e Verdi indipendenti; in Germania Die Linke subirà un probabile tracollo intorno al 3%, per la scissione di BWD [Bundes Sahra Wagenknecht, il partito nazionalista della sue ex portavoce], a cui è dato un possibile 6%; un simile risultato sembra segnare anche Podemos, schiacciato dalla nuova formazione di Sumar [più stabilmente alleata al PSOE e centrata sulla sua leader ministro, Yolanda Diaz]; in Grecia SYRIZA, con la nuova direzione di Stefano Kasselakis [ex banchiere di Goldman Sachs], ha visto la scissione di Néa Aristerá  [Nuova sinistra], guidata dagli ex ministri  Euclidis Tsakalotos e Alexis Charitsis [vedremo i risultati, ma in ogni caso SYRIZA sembra perdere la guida dell’opposizione, con il un ritorno dello storico Pasok]. Die Linke, Nupes, Podemos e Syriza: è la chiusura di una stagione segnata dallo sviluppo di partiti ampi, con un impronta radicale e movimentista nel quadro di un impianto che rimaneva comunque sostanzialmente riformista. In controtendenza sembra rimanere il Sinn Fein irlandese (tra 25% e 30% nella Repubblica e nelle contee del Nord), Akel a Cipro (lo storico partito comunista, intorno al 30% dei voti) e il Partito del lavoro belga (PTB/PVDA, insieme a Verdi i soli partiti del paese trasversali a entrambe le comunità, dato oggi al 15%).

In questo quadro, a spiccare è la sostanziale assenza di formazioni classiste, internazionaliste e rivoluzionarie. È il sintomo della debolezza dell’avanguardia politica in questa stagione storica, in diretta relazione con la frammentazione della classe lavoratrice a livello mondiale e nel continente (come si è visto anche nella ripresa delle lotte dell’ultimo biennio, in particolare sul salario, che ha visto protagonisti lavoratori e lavoratrici soprattutto dei trasporti, della logistica e dei settori pubblici). Una debolezza amplificata dai settarismi, dalla confusione e dalle divisioni che hanno attraversato il campo centrista e rivoluzionario sulle guerre in Ucraina (con l’ampio sostegno alla cosiddetta resistenza e il rifiuto di assumere una posizione coerentemente disfattista) e a Gaza (con l’ampio sostegno ad un fronte unico di liberazione nazionale, sul piano militare e su quello politico, anche con le forze nazionaliste reazionarie della resistenza palestinese). Così, nella sostanziale assenza elettorale, si nota anche una diffusa disattenzione sui processi in corso nell’Unione Europea, su come la stagone dell’imperialismo di attrito e lo stesso conflitto ucraino stanno amplificando le tendenze contrapposte, centrifughe e centripete, a cui è soggetta l’Unione. Le uniche realtà dove si avrà una presenza elettorale sono in sostanza quelle della Francia, della Grecia e della Spagna (forse non casualmente, quelle in cui nell’ultimo decennio si è registrata la presenza di movimenti di massa contro le politiche di austerità), anche se tutte probabilmente registreranno risultati marginali: in Francia e Grecia con liste contrapposte [Lutte Ouvriere e NPA-révolutionnaires; Antarsya e OKDE], in Spagna con la CRT (facente riferimento alla Fraccion Trotzkista-CI) che si affianca a diverse formazioni di impianto ml.

IN ITALIA UNA DESTRA IN EROSIONE CONFERMA COMUNQUE LA SUA SOLIDITA’

Il governo Meloni mostra evidenti segni di erosione. In questi quasi due anni di vita, infatti, è riuscita a collezionare un’infinita serie di passi falsi, gaffe, arroganze e pasticci. Il Frecciarossa fatto fermare ad una stazione non prevista per far scendere il ministro Lollobrigida; le rivelazioni in Parlamento di intercettazioni secretate in carcere da parte del deputato Donzelli, sulla base di documenti illegittimamente trasmessi dal sottosegretario Delmastro; la rissa dello stesso Delmastro a Biella con il candidato sindaco della destra; il colpo partito dalla pistola del deputato Pozzolo, con ferito, sparato ad una festa di capodanno; l’occupazione di posti e sottoposti in RAI e nelle partecipate; la censura sull’intervento di Scurati e poi il provvedimento disciplinare a Serena Bortone; il mancato invito a Saviano alla Fiera del libro di Francoforte; le imbarazzanti conferenze stampa della premier e quindi la sospensione di fatto di ogni appuntamento con i media, al di là delle dichiarazioni videoregistrate e quelle di passaggio; la telefonata della Meloni con i comici russi che si fanno passare per un importante esponente africano; le dichiarazioni identitarie di Valditara che sono arrivate a mettere in discussione persino l’integrazione scolastica dei disabili, irritando anche la CISL e settori cattolici conservatrici; le ombre di familismo nella gestione degli incarichi nel governo; le indagini sull’assunzione del figlio di Larussa nella Fondazione Milano-Cortina; il comportamento della polizia dalle piazze di Pisa, all’identificazione per il grido viva la Costituzione antifascista alla Scala sino al fermo di quattro giornalisti a Roma; l’arresto di Toti per corruzione e implicazione con ambienti mafiosi in Liguria. La difficoltà, al di là degli episodi imbarazzanti che hanno costellato questi due anni, sono comunque segnate soprattutto dall’incapacità di sviluppare una diversa gestione della crisi: questa destra reazionaria intorno a Salvini e Meloni ha infatti conquistato un consenso di massa capace di organizzare larga parte dei ceti intermedi e di raccogliere anche ampi settori popolari (le periferie urbane e centri industriali una volta rossi, come Terni e Piombino) tratteggiando una politica comunitaria e nazionalista, contrapposta alle politiche liberiste e ordoliberali che hanno segnato la cosiddetta globalizzazione, l’Unione Europea, la crisi del 2006/09 e la sua successiva gestione. Non ha caso Fratelli di Italia esplode elettoralmente con l’opposizione solitaria al governo Draghi, ereditando larga parte di quel consenso che la Lega di Salvini aveva raccolto nell’opposizione ai governi di piccole e larghe intese tra il 2013 e il 2018 e nell’alleanza con i 5 stelle. Questa retorica comunitaria e nazionalista sembra apparentemente allinearsi alle esigenze politiche di questa nuova fase di tessitura di blocchi contrapposti, con il relativo accorciamento delle filiere produttive e cambio delle politiche commerciali, la militarizzazione delle strutture economiche e delle relazioni sociali, la centralizzazione nello Stato della gestione della competizione internazionale in ogni campo (politico, culturale ed economico). Però, questa nuova politica non ha ancora una pratica operativa, dovendo ancora fare i conti con gli assetti di un capitale organizzato su strategie di accumulazione e processi produttivi sviluppati nella fase precedente: i tempi e le modalità di un eventuale passaggio non sono veloci e si potrebbero concretizzare solo di fronte ad una nuova grande crisi o un aperto conflitto mondiale. Così, il governo Meloni deve oggi fare i conti con gli squilibri della sua azione, determinati dai vincoli da una parte della sua base elettorale e dall’altra parte delle scelte economiche egemoni dell’Unione Europea, condivise da settori centrali delle classi dominanti. Da una parte, quindi, le sue scelte prioritarie hanno premiato i ceti intermedi e professionali (bonus, incentivi, defiscalizzazioni), dall’altra gli assetti del nuovo patto di stabilità, che confermano quelli precedenti, limitano le politiche sociali e previdenziali, come gli investimenti promessi, mentre le pressioni stagnazioniste e i venti di guerre bloccano la ripresa economica. Il consenso si rende allora più incerto non solo per appannamenti di immagine, ma per la sua concreta azione politica. Così, dopo aver guardato ad un ampio superamento del 30% (avvicinandosi al Renzi del 2015), il quadro si rivela in realtà sostanzialmente statico sui risultati del 2022, con la sostanziale dispersione del consenso raccolto nei suoi primi mesi di governo.

Salvo improbabili arretramenti, le elezioni daranno comunque un segnale di stabilità e rilancio per questa destra. I mesi passati infatti non hanno visto in campo un’opposizione di massa. Lo sciopero generale della CGIL e della UIL dello scorso dicembre, spalmato e scomposto come quello degli anni precedenti, ha visto una partecipazione limitata e soprattutto non è proseguito nella primavera, nonostante le partite aperte sul fronte contrattuale e politico (dal rinnovo dei CCNL pubblici alla scelte del DEF). Anzi, la CGIL ha scelto di spostare il tiro con una campagna referendaria che rimanda ad altri tempi e altri campi il conflitto con l’esecutivo, mentre il sindacalismo di base (diviso e sotto scacco dalle stesse dinamiche di frammentazione tra settori e categorie che lambisce la CGIL) non è neppure stato in grado di replicare gli scioperi di primavera delle stagioni precedenti. Le mobilitazioni si sono limitate a circuiti studenteschi circoscritti (la risposta pisana alle cariche dello scorso autunno, i campi per la Palestina nelle università) o ad occasioni delimitate (la reazione di massa al femminicidio di Giulia Cecchettin lo scorso novembre, i pride, il 25 aprile). Anche sul fronte politico, l’inaspettato risultato delle regionali sarde è stato determinato da situazioni particolari (le divisioni della destra per la sottrazione della presidenza alla Lega, la compattezza del voto 5 stelle per la candidata presidente) e non si è infatti replicato né in Abruzzo, né in Basilicata. Le opposizioni democratiche mantengono le proprie divisioni tra un’area centrista composita (Italia Viva, Azione, Europa+) e un cosiddetto campo largo dominato dalla competizione tra PD e 5stelle. L’assenza di una reale alternativa politica e la stabilità del consenso è allora usato dalla Meloni come base per sviluppare una nuova offensiva reazionaria: una campagna focalizzata sulla sua persona e il Vota Giorgia come puntello per sviluppare nei prossimi mesi una svolta costituzionale autoritaria, condotta sul doppio regime di premierato e autonomia differenziata, per assicurarsi una reale stabilizzazione politica reazionaria del paese. Salvini, in un sempre più affannoso tentativo di sopravvivenza, la segue radicalizzando la sua impostazione reazionaria, con la candidatura Vannacci. L’operazione della Premier è soggetta ad un notevole rischio, come fu quella di Renzi con il precedente referendum costituzionale, ma può contare su una base di consenso ben più solida e profonda di quella dell’allora segretario del PD. In ogni caso, proprio per le erosioni del suo profilo ed i vincoli nelle sue politiche, appare oggi di fatto l’unica strada aperta per poter proseguire il suo percorso politico. E su questo, al di là delle dichiarazioni, si giocherà quindi il suo futuro.

LA SINISTRA ITALIANA IN UN PERSISTENTE ANNO ZERO

Un ripetitivo giorno della marmotta. Come nel film del 1993 con Billy Murray, la sinistra italiana sembra incapace di uscire dalle dinamiche che ha prodotto nell’ultimo quindicennio. Come ogni coazione a ripetere, però, ogni nuova replica si riproduce con maggiore pena. L’Alleanza Verdi Sinistra, in cui si sono cristallizzate alle scorse politiche le componenti strategicamente alleate con PD, il centro-sinistra e oggi il Campo largo (Sinistra Italiana e Verdi), ripropone sé stessa nonostante le evidenti contraddizioni tra la sinistra pacifista e il nuovo interventismo ecologista dispiegato nella guerra in Ucraina (in scia all’impostazione dei Grunen tedeschi). D’altra parte, come si è mostrato con il governo Draghi, la contraddizione di proposta politica non è mai stata un problema per questa formazione, ritenendo ogni posizione di merito superabile nella strategia di alleanza con il PD e nella sopravvivenza di una qualsivoglia rappresentanza parlamentare. Per coprire l’abisso di queste contraddizioni, come alle scorse elezioni politiche si è scelto la strada delle candidature eccellenti, nonostante le già evidenti cadute in cui si è incorso, come con la vicenda Soumahoro. L’effetto raggiunto, però, è in qualche modo l’esplicitazione del nucleo politico di questa formazione: AVS è un aggregato delle sinistre dei diritti. Basta guardare i suoi capilista: le battaglie antimafia di Leoluca Orlando, quelle antirazziste di Mimmo Lucano, quelle civili di Ignazio Marino, quelle democratiche e istituzionali di Massimiliano Smeriglio, quelle antifa di Ilaria Salis, quelle ecologiste di Cristina Guarda, Rosa D’Amato e Federico Borrelli. In questo arcobaleno, a scomparire è qualunque riferimento al lavoro, alla classe lavoratrice, al contrasto o anche solo al miglioramento dell’attuale modo di produzione.

Pace Terra Dignità si presenta invece come l’ennesimo raggruppamento transitorio post disastro del 2008, in cui provano a sopravvivere e rilanciarsi le sinistre al di là del centro-sinistra. E’ l’ennesima lista-occasione, dopo Rivoluzione Civile [politiche 2013], Altra Europa con Tsipras [europee 2015], Potere al popolo [politiche 2018], La sinistra [europee 2019], Unione Popolare [politiche 2022]. Tutte liste durate lo spazio di un’elezione, per le divergenze programmatiche delle forze che le hanno costituite. Tutte esperienze che sono andate incontro a risultati limitati (spesso tra 1 e 2% o, quando hanno eletto qualcuno, i singoli si sono rapidamente autonomizzati dai percorsi collettivi), fallimentari per le aspettative che hanno generato, soprattutto nei loro cavalieri bianchi [Ingroia piuttosto che De Magistris]. Oggi si riproduce lo stesso impianto, con una lista tematica contro la guerra e un nuovo cavaliere, Michele Santoro. Il suo destino non sarà dissimile dai precedenti. In questa coazione a ripetere emerge anche però un profondo arretramento politico: le liste passate, se pure non avevano nei nomi, nell’iconografia e nella sostanza alcun riferimento alla classe lavoratrice e alle sue prospettive di trasformazione, avevano la chiara prospettiva di esser alternativi al centro-sinistra, almeno nel proprio profilo pubblico (le intenzioni e i percorsi, si sa, sono meno chiari da decifrare). La lista Pace Terra Dignità rinuncia di fatto a questa caratterizzazione. Non solo per le dichiarazioni o il passato di alcuni suoi protagonisti (Santoro, certo, ma anche l’uomo macchina della lista, Claudio Grassi), ma proprio per la sua ambizione di fondo di spostare l’asse dell’intera sinistra contro la guerra (avendo su questo interlocutori sia nei 5 stelle, sia nel mondo democratico, come evidenziano le candidature di Marco Tarquinio e Cecilia Strada). Ed infatti la lista perde qualsiasi riferimento politico e iconografico non solo alla classe lavoratrice, ma anche alla stessa sinistra (al di là del vago ed oggi completamente astratto richiamo sloganistico), arrivando a costruire candidature improbabili e imbarazzanti, che nulla hanno a che fare appunto con la sinistra (l’ex 5 stelle Marta Grande, legata a Luigi Di Maio e al suo percorso;  l’ex presidente leghista della regione Friuli Venezia Giulia Alessandra Guerra, lo scrittore Nicolai Lilin). Una lista, alla fine, fuori e oltre la sinistra.

Così, le uniche due liste presenti a sinistra del PD in queste elezioni, pur mostrando la possibilità di una certa vitalità di questo spazio politico [negli ultimi sondaggi vengono dati complessivamente oltre il 6,4%, in alcune ipotesi anche vicino al 7%, con AVS leggermente sopra la soglia e PTD sopra il 2%, sopra quel 5% circa delle ultime tornate elettorali], segnano anche un evidente rilancio della confusione e dell’indeterminatezza politica di questi percorsi.

UN VOTO CONTRO LE DERIVE FASCISTE E LA GUERRA, LA NECESSITA’ DI TESSERE UNA NUOVA OPPOSIZIONE SOCIALE E DI CLASSE

In questo quadro, l’astensione potrebbe sembrare la scelta più lineare. Non lo crediamo. in termini generali, da tempo questo sistema politico ha fatto dell’astensione uno strumento di stabilizzazione, costruendo maggioranze di governo anche senza il consenso nel paese, semplificando l’offerta politica e introducendo logiche maggioritarie. Anzi, costruendole grazie all’assenza di un consenso nel paese, portando cioè settori politici e sociali ad uscire dalla logica della rappresentanza e quindi a contenere le instabilità politiche e istituzionali che si sono moltiplicate con la frammentazione delle classi dirigenti e la perdita delle loro capacità di egemonia sociale. In termini specifici, poi, oggi proprio le forze reazionarie usano l’astensionismo per imporsi politicamente e riuscire a portare avanti il proprio tentativo di svolta autoritaria, avendo consolidato un blocco di consenso intorno al 40% dei voti grazie allo sviluppo del Movimento 5 stelle e al governo con la Lega del 2018/19. Astenersi oggi, lungi da alimentare una ribellione antisistema, favorisce semplicemente le derive in corso.

Allora, la scelta è quella di un voto alla sinistra del PD, consapevoli delle contraddizioni di queste forze e della nostra contrarietà al loro impianto. Cioè, nella situazione concreta, un voto alle liste di Alleanza Verdi Sinistra o di Pace Terra Dignità. Molti, probabilmente la maggior parte dei compagni e delle compagne di ControVento, voteranno AVS, dando la preferenza ad Ilaria Salis dove questa è candidata, ma votando la lista anche dove non è candidata per aiutare la sua effettiva elezione al Parlamento Europeo. Nessuna valutazione generale giustifica questa scelta, dato le caratteristiche di questa formazione che prima abbiamo sottolineato. Semplicemente, di fronte ad una compagna in detenzione (prima in carcere in condizioni tremende, oggi ai domiciliari in una situazione di rischio), che potrebbe subire una pena pesante e sproporzionata, lo si ritiene un voto utile: un voto che la porterebbe fuori dall’Ungheria, a denunciare le derive della destra reazionaria, lasciando in qualche modo un piccolo segno antifascista in questa panorama politico asfittico. Alcuni di noi voteranno invece Pace Terra Dignità, ritenendo AVS comunque troppo incorporata nel centro-sinistra e nelle sue logiche opportuniste, per dare un segno chiaro contro la guerra in una fase imperialismo di attrito. Senza alcuna aspettativa nel percorso contradditorio e occasionale di questa lista, nelle prospettive asfittiche che vi si delineano.

In ogni caso, dal 10 giugno sarà necessario continuare a lottare contro le spinte autoritarie di questa destra reazionaria, le pressioni contro il lavoro di questa crisi capitalista, le divisioni della classe e la confusione interclassista dei movimenti sociali. Perché l’opposizione a questa deriva, come al cupo destino delle dinamiche dell’imperialismo di attrito, si costruisce a partire dalle contraddizioni e dai conflitti che si sviluppano nei processi produttivi, nel formarsi di una coscienza collettiva e quindi di un’iniziativa anticapitalista, contro questo modo di prodizione e le sue gerarchie sociali. Su questi elementi sarà necessario concentrarsi da qui in avanti.

ControVento

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