Dodici note sul travolgente movimento contro il genocidio a Gaza.

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In Italia abbiamo avuto diversi percorsi di mobilitazione negli ultimi due anni. Scusandoci per le sicure dimenticanze, ne ricordiamo alcuni, i primi che ci vengono in mente senza ordine o gerarchia, solo per evidenziare la loro molteplicità. L’opposizione al disegno di legge e poi al decreto sulla sicurezza, coordinata da ben due diversi circuiti (A Pieno regime e Liberi di lottare). La vertenza sul contratto dei metalmeccanici,  con 40 ore di sciopero FIOM, FIM e UILM (non si vedeva da anni, sia per persistenza sia per unità). Gli scioperi nei trasporti (aerei, traporto pubblico locale e soprattutto ferrovie, a gennaio USB CUB SGB e Assemblea Pdm/PdB, a maggio FILT, FIT e Uiltraporti) e nella logistica (sindacati di base, Sicobas, o in Amazon FILT, FIT e Uiltrasporti). Lo sciopero a novembre 2024 del personale sanitario (ANAO, ASSOMED, Nursing up), con alte adesioni in tutto il paese. Le mobilitazioni dei precari dell’università (20 marzo, 12 maggio e 3 giugno), con il primo sciopero precario negli atenei per rivendicare diritti e soggettività di lavoratori e lavoratrici della ricerca. Le iniziative nelle scuole contro riarmo e militarizzazione, il liceo del Made in Italy, la gestione autoritaria di Valditara a partire dalla sospensione di un docente per le sue opinioni. La piazza alternativa del 15 marzo a Roma e quelle duplice del 17 giugno contro il riarmo europeo. I cortei del Collettivo di fabbrica GKN per la propria vertenza e per l’insorgenza, a partire da maggio 2024, come le tante vertenze di aziende, fabbriche e uffici minacciati di chiusura o profonda ristrutturazione. Il corteo a Milano ad inizio settembre contro lo sgombero del Leoncavallo, le politiche di sicurezza e le speculazioni nella città. Lo sciopero generale del 29 novembre 2024, che è sembrato superare la dinamica scomposta delle iniziative CGIL e UIL degli scorsi anni, cadendo la stessa giornata dello sciopero CUB SGB e USI e conquistando la convergenza di altri sindacati di base e soggettività sociali (Cobas, Clap, APU, ecc), con un ritorno alla partecipazione nelle piazze rispetto gli anni precedenti. Queste mobilitazioni, però, come tutte le altre condotte dagli studenti, per l’ambiente, contro sgomberi o crisi, sono state da una parte sfasate, su tempi e dinamiche diverse, dall’altra sono rimaste spesso limitate, facendo fatica ad attivare il coinvolgimento di massa che sarebbe necessario.

La classe lavoratrice è divisa, lo sottolineavo già qualche anno fa. La doppia recessione 2009/12, la Grande Crisi e l’acutizzazione della competizione internazionale ha moltiplicato le strategie di accumulazione e aperto ampie diversificazioni nella struttura produttiva del paese, che si sono scaricate su una divergenza del lavoro che si è approfondita prima nella pandemia e poi con l’inflazione. La classe lavoratrice si è quindi ulteriormente stratificata, oltre le classiche faglie che hanno caratterizzato questo paese (sud e nord; uomini e donne; pubblici e privati; stabili e precari; residenti e migranti da altre regioni o altri paesi), parcellizzandosi per settori, professionalità e stabilimenti. Le sempre più diverse condizioni salariali e di lavoro, ma anche i cicli di lotta differenziati, tendono quindi a sviluppare soggettività e identità sempre più frammentate. Una moltitudine del lavoro. Esemplificativa, nella mia esperienza, la moltiplicazione dei soggetti e delle rivendicazioni del precariato scolastico nell’ultimo decennio, ma in ogni settore e ambito si possono rintracciare dinamiche simili. La disarticolazione del lavoro risulta palese nella difficoltà degli scioperi generali nell’ultimo decennio, evidenziando il problema della ricomposizione di una vertenza generale questa fase storica.

Questa (dis)organizzazione della classe influenza i sindacati e la loro azione, al di là dei limiti storici del sindacalismo italiano: lo sviluppo sussidiario e governativo della CISL, con un ritorno alle radici degli anni cinquanta; l’opportunismo instabile della UIL tra radicalismo verbale e pratiche conniventi col padronato; l’impronta storicamente riformista, concertativa e responsabile di larga parte della CGIL; l’impostazione professionale del sindacalismo autonomo; la politicizzazione competitiva delle diverse organizzazioni del sindacalismo di base. Così, mentre in alcuni settori sono cresciuti i sindacati autonomi e professionali (sanità, scuola, pubblici ma non solo), CISL e UIL hanno interpretato a loro modo una funzione di organizzazione della forza lavoro (semplice fattore della produzione che collabora con la direzione) e di rappresentanza delle diverse particolarità, mantenendo e anzi estendendo il loro ruolo nella classe lavoratrice (per prendere un solo dato, molto parziale, dal 2.000 ad oggi la CISL è passata da circa 3,5 a 4,2 milioni di iscritti dichiarati; la UIL da 1,7/1,8 a oltre 2 milioni). Il sindacalismo conflittuale e di base è oggi diviso non solo tra diverse impostazioni e progetti, ma anche da radicamenti in diversi settori e composizioni di classe, con sempre maggior difficoltà a cogliere e raccogliere un punto di vista generale del lavoro. La stessa CGIL, che è un sindacato generale di massa, è sempre più segnata non solo dalla moderazione della sua direzione e dallo sviluppo di pratiche sussidiarie o tutele individuali nella sua organizzazione (gli enti bilaterali, i servizi fiscali e di consulenza, ecc), ma anche dalle inconcludenze e dalle contraddizioni di una divaricazione tra prassi e modelli sindacali che attraversa la sua struttura, a partire dalle diverse categorie. Così, in questi tre anni, la CGIL ha più volte rinunciato ad innescare uno scontro diretto con il governo, a partire dall’autunno di dialogo dopo l’elezione di Meloni, culminato nell’inusuale invito al congresso dell’organizzazione. Negli ultimi mesi, nonostante l’obbiettivo di dare continuità agli scioperi contro la legge di bilancio, la CGIL ha spostato la propria iniziativa sul terreno dei referendum (il voto è la nostra rivolta), nelle urne e non nelle piazze, tra l’altro registrando un’attesa sconfitta.

Certo, alcuni appuntamenti hanno rotto gli argini. In particolare, la reazione indignata ad alcuni efferati femminicidi (in particolare, quello della studentessa Giulia Cecchettin nell’autunno 2023), che hanno ulteriormente esteso il percorso di nonunadimeno e diffusa la critica alla cultura patriarcale della nostra società; i cortei dei pride, oramai non solo nei capoluoghi metropolitani ma anche in città e cittadine, da Aosta a Trapani, da Bolzano a Terni. Queste manifestazioni hanno avuto le caratteristiche della marea, coinvolgendo tantissimi partecipanti, dalle centinaia di migliaia nelle grandi città alle migliaia nei piccoli centri, soprattutto giovani e giovanissimi ma comunque di ogni età e classe sociale. Questa partecipazione risulta quindi popolare, proprio per la sua dimensione di massa, ma in qualche modo anche trasversale, coinvolgendo settori delle classi medie e persino dirigenti, soprattutto in ambiti urbani grandi e piccoli. Queste mobilitazioni sono in realtà occasionali: si esprimono attraverso una data, indipendentemente da prospettive progettuali o piattaforme rivendicative, cogliendo e raccogliendo un opinione e un sentimento di massa, senza strutturare a livello territoriale la partecipazione attraverso spazi, momenti e percorsi di confronto (assemblee, comitati e coordinamenti diffusi). Le strutture che innescano e organizzano le dimostrazioni costruiscono l’occasione per coagulare quest’espressione di massa, senza influenzarne più di tanto il percorso, perché questa marea contiene molteplici correnti e impostazioni, ognuna semplicemente immersa o partecipante, senza luoghi di confronto, discussione, sintesi o radicalizzazione.

Sino a queste estate, le mobilitazioni su Gaza e il genocidio sono state limitate. Diverse città sono state segnate da cortei o presidi settimanali. A febbraio 2024 si è tenuta a Milano una manifestazione con oltre ventimila persone, che aveva riunito movimenti palestinesi, sindacati conflittuali e di base, forze della sinistra politica e sociale. In primavera in molte università si erano diffuse accampate studentesche, parallelamente ad un’iniziativa di denuncia delle collaborazioni con Israele. Il 5 ottobre dello scorso anno si è tenuto a Roma un corteo con oltre 10.000 partecipanti, segnato dal divieto della Questura ma anche dalle divisioni nella piazza. Nel corso di quest’anno è poi progressivamente cresciuta una sensibilità diffusa, per la carestia da assedio, le ipotesi di pulizie etnica e le pratiche genocidarie israeliane, anche se le mobilitazioni hanno a lungo mantenuto dimensioni ridotte. Un segnale di cambiamento, in qualche modo, è arrivato ai primi di giugno, con la manifestazione lanciata dalle opposizioni parlamentari (PD, 5 stelle e AVS), che ha visto in piazza decine di migliaia se non centinaia di migliaia di partecipanti.

Il movimento delle ultime settimane è stato allora sorprendente. Inatteso e in controtendenza. Non solo ha improvvisamente conquistato la dimensione della marea, l’ampia mobilitazione giovanile e studentesca, ma questa si è intrecciata imprevedibilmente con la forma dello sciopero generale, il protagonismo del lavoro e dei suoi soggetti organizzati, il blocco determinato e generalizzato di tangenziali e ferrovie, un’inusuale intensità di iniziative (tre scioperi generali in due settimane, il ripetersi di cortei e presidi per più giorni, una sorta di stato di agitazione continuato). Una mobilitazione che ha visto allora una partecipazione amplissima (centinaia di migliaia se non milioni di persone nelle piazze), la più ampia che si esprimeva da moltissimi anni, e che ha assunto le caratteristiche di un vero e proprio movimento. Proviamo a qui a sottolineare alcune osservazioni su questa dinamica improvvisa e straordinaria.

1. La necessità di un innesco. In Italia ci sono diverse decine di migliaia di militanti e attivisti della cosiddetta sinistra in sindacati, partiti, centri sociali, associazioni e comitati territoriali. Questa larga avanguardia sociale e politica, però, è sostanzialmente polverizzata in una molteplicità di organizzazioni e soggettività, senza alcun soggetto oggi in grado di emergere automaticamente come punto di riferimento o di coagulo dell’iniziativa di massa. La CGIL, unica struttura a mantenere stabilmente dimensioni e proiezione di massa, rifiuta sostanzialmente di assumersi questo ruolo, avendo da una parte l’ambizione di rappresentare una forza sociale più ampia di quello che oggi si riconosce a sinistra, dall’altra la tentazione della sua direzione storicamente moderata di guardare all’insieme del campo largo, un ampio schieramento democratico e progressista ben oltre i confini politici e sociali della cosiddetta sinistra. AVS, il principale partito parlamentare della sinistra, è oggi più un soggetto elettorale e di opinione che un organizzatore: ha più o meno lo stesso voto del PRC, ma una ben diversa capacità di attivazione e mobilitazione sociale. Il sindacalismo conflittuale e di base ha dimensioni complessivamente limitate, sia nelle iscrizioni (complessivamente intorno alle 120/150.000 adesioni), sia nel radicamento nei diversi settori e territori, oltre ad esser segnato da storiche fratture e competizioni interne. Le restanti organizzazioni hanno oramai dimensioni militanti e proiezioni di massa fra loro paragonabili, con dinamiche divisive e di aperta competizione, spesso anche tra diverse progettualità all’interno dei diversi soggetti. I cosiddetti circuiti antagonisti sono oramai molteplici e sostanzialmente destrutturati, con un sostanziale rinnovamento dei punti di riferimento e organizzazione nazionale dei decenni passati. Soprattutto, questa ampia avanguardia è oramai complessivamente sconnessa dal suo radicamento sociale: non ha più, cioè, una capacità di automatica rappresentanza, coinvolgimento e organizzazione della mobilitazione nei territori e nei luoghi di lavoro. Persino la CGIL, al di là delle volontà e pur mantenendo una struttura di massa (una presenza diffusa nei settori e nei territori, diversi milioni di iscritti, di cui un paio lavoratori e lavoratrici attivi; circa 150/180.000 delegati e dirigenti territoriali di categoria, circa 20.000 funzionari e dirigenti confederali), come è evidente nell’ultimo decennio ha le sue difficoltà nell’autodeterminare mobilitazioni in grado di attivare e coinvolgere centinaia di migliaia o milioni di persone. La sinistra sociale e politica italiana è cioè oggi spesso una scomposta avanguardia di sé stessa, raramente in grado di cogliere e sviluppare movimenti popolari. Le stesse mobilitazioni propal, costruite negli scorsi due anni dalla comunità palestinese, da comunità migranti e giovani di seconda e terza generazione, da alcuni reti religiose della comunità islamica e da alcuni settori di questa sinistra sociale e politica, non hanno avuto la capacità di rompere questi confini e darsi una proiezione di massa. Per questo per avviare lo straordinario movimento di settembre è servito un innesco esterno: la Global Sumud Flotilla. Quest’iniziativa ha colpito l’immaginario comune ed è diventata occasione del coagulo di un sentimento di massa. Le ragioni dell’innesco di un movimento di massa sono sempre difficili da individuare, ma forse hanno avuto un ruolo tre fattori: la percezione diffusa che questa fosse un’azione concreta attraverso cui si poteva finalmente impattare rispetto ad una dinamica internazionale che appariva sovraordinata e ineluttabile; lo scopo era duplice, l’aiuto diretto (il cibo) e la rottura dell’assedio di Gaza, collegando quindi strettamente azione solidale e senso politico di questa azione solidale; l’iniziativa non era di qualcuno, non era riconducibile ad un singolo soggetto, ed era quindi capace di attivare reti ampie di mobilitazione. La grande simpatia per l’iniziativa si è vista sin da fine agosto, quando da Genova (Music for peace e portuali) è partita una raccolta alimentare che ha superato ogni aspettativa e confine di organizzazione.

2. Un’ambiente di incubazione: i settori della conoscenza. La grande maggioranza dei partecipanti ai cortei e alle iniziative di queste settimane sono stati giovani, studenti e studentesse anche giovanissimi (primi anni delle superiori), accompagnati da lavoratori e lavoratrici di scuola, università e ricerca. Certo, erano ovviamente presenti anche altri settori: lavoratori, lavoratrici, pensionati, famiglie e anche molti bambini (definisci bambino uno dei cartelli più popolari), attivisti, militanti, sindacalisti, organizzazioni politiche e sociali. Però, il nucleo fondamentale dei cortei veniva dal mondo della conoscenza. E’ questo nucleo che ha promosso la vastissima partecipazione nelle grandi città metropolitane (le decine di migliaia in piazza a Roma il 22 settembre e poi praticamente per quattro giorni di seguito,  da mercoledì 1 a sabato 4 ottobre; gli enormi cortei di Milano e Bologna; quelli grandi di Firenze, Genova, Venezia, Padova, Catania, Palermo, Napoli, Bari, ecc) e a determinato l’imprevedibile continuità di quelle dimostrazioni (molte sono partite la mattina e sono terminate a sera, con percorsi lunghissimi nelle città e anche significativi ricambi di partecipanti). È questo nucleo nella conoscenza che ha permesso l’impressionante diffusione delle mobilitazioni sul territorio: presidi e manifestazioni in tutte le città, in tante cittadine e persino in piccoli centri, con cortei di 500, 1.000, 3.000 o 5.000 persone ad Aosta, Rimini, Ragusa, Urbino, Massa, Potenza, Civitavecchia, Verbania, Lanciano, Teramo, Monza, Isernia, Breno, Borgosesia, Iglesias, Biella e tanti tanti altri posti. Inoltre, se le piazze degli scioperi generali degli anni scorsi erano spesso colorate di rosso e di blu, con striscioni, bandiere, pettorine, felpe e magliette delle organizzazioni, le manifestazioni dell’ultimo mese sono state soprattutto segnate da una partecipazione sciolta, fluida, con cortei che partivano dalle scuole, dalle università e dai quartieri per raggiungere le piazze di concentramento. Dimostrazioni, appunto, di movimento. Importante, in questa dinamica è stata appunto la partecipazione del personale di scuola, università ed enti di ricerca, che ha aderito anche agli scioperi. Certo, se si guardano i dati (il cosiddetto cruscotto scioperi), questi possono sembrare molto limitati (nell’Istruzione e ricerca l’adesione è l’11,31% il 22 settembre, il 9,19% il 3 ottobre). Lo sono. Però, è utile tener presente che qui si considera l’insieme tutti i territori: le adesioni arrivano al 40% in Toscana o Emilia, in città come Firenze, Livorno, Piacenza, Bologna, Milano e Roma, con la chiusura di moltissime sedi. Queste adesioni, infine, sono più alte del 29 novembre 2024 o del 17 novembre 2023 (6,09% e 7,16%). Di fatto, 2/3 degli scioperanti nel pubblico sono stati nella conoscenza (125mila su 164mila il 22 settembre, 99mila su 144mila il 3 ottobre), quando di solito sono intorno al 50%.

3. Un percorso di incubazione: si è visto crescere e arrivare le mobilitazioni. Il movimento è esploso con gli scioperi del 22 settembre e del 3 ottobre, oltre che con l’incredibile corteo nazionale del 4 ottobre. L’onda però è partita sin dai primi giorni di settembre, proprio con la riapertura delle scuole e delle università, con il progredire dell’iniziativa della Flotilla. Il movimento, cioè, ha assunto un’evidente dinamica di massa nella seconda metà di settembre, ma è cresciuto molecolarmente nelle settimane se non nei mesi precedenti, a partire dall’indignazione per la fame, il massacro dei bambini, l’assedio di Gaza, le immagini e le cronache che hanno iniziato a riempire la comunicazione pubblica. La progressiva attivazione di massa si è cioè espressa in forme autorganizzate, diffuse e talvolta improvvisate. Le iniziative dei primissimi giorni di settembre per la Flotilla sono spesso state chiamate tramite Fb, Instagram o WhatsApp, senza particolari mediazione di soggetti o strutture organizzate. L’attivazione, però, si è rivelata anche attraverso tanti piccoli gesti in tante scuole, atenei ed enti di ricerca, che hanno fatto lievitare un’attenzione e un’azione collettiva: le mozioni dei collegi docenti su Gaza e il genocidio; le bandiere palestinesi alle finestre o sulle spille; i minuti di silenzio all’inizio dell’anno scolastico; le discussioni in classe a partire dai giornali e dalle fotografie, gli appelli per interrompere i progetti e le collaborazione di ricerca con atenei o enti israeliani, i documenti presentati nei Dipartimenti e nei Senati accademici. Su questo tessuto di reazioni collettive nelle scuole, nelle università e negli enti di ricerca si è poi costruita la partecipazione ai cortei e agli scioperi, la pressione sulle organizzazioni sindacali, anche la determinazione di ignorare o rompere i divieti del governo. Il Ministero dell’Istruzione e del Merito, infatti, aveva subito attivato Uffici regionali e Dirigenti scolastici, provando a soffocare sul nascere queste iniziative richiamando all’ordine Collegi, docenti e personale scolastico. Eppure, quest’impeto d’ordine si è spento, quando si è visto che le iniziative si diffondevano comunque in centinaia e migliaia di istituti.  

4. Fondamentale è stata la forma dello sciopero e, quindi, l’appello dei portuali. Lo sciopero generale non è una forma usuale di mobilitazione in scuole e università, tanto meno da parte degli studenti. Questo movimento ha però impattato sull’insieme della società e persino a livello internazionale, proprio perché ha coinvolto il lavoro e la sua potenziale capacità di fermare il paese. Questa forma, cioè, da una parte si rivolge trasversalmente alla moltitudine di condizioni, soggettività e stratificazioni della nostra società; dall’altra sottolinea che se si vuole impattare su politiche di portata generale (la pace, la guerra), è necessario bloccare l’insieme della società e se si vuole farlo, bisogna partire dai rapporti di produzione. Qualche anno fa, la lotta del Collettivo di fabbrica GKN aveva riportato l’attenzione sul lavoro e il suo ruolo nella società contemporanea, attraverso l’occupazione della fabbrica, la generalizzazione dell’iniziativa e il movimento #insorgiamo. Queste settimane hanno forse avuto la capacità di rimettere al centro la dimensione dello sciopero come strumento di espressione del conflitto e unificazione del lavoro. Questa impulso non è però venuto dalla conoscenza, è arrivato da uno specifico settore della classe operaia centrale, sindacalizzato, con connessioni internazionali ed una storica sensibilità ai temi della pace e della guerra: i portuali. Nella crescente attenzione ed attivazione che si è sviluppata nel corso dell’estate, sono stati i portuali genovesi a cogliere la necessità dell’azione (bloccare le navi con armi o materiale dual use dirette ad Israele) e soprattutto a proporre lo sciopero generale come strumento di sostegno alla Flotilla: è il CALP, un collettivo da tempo attivo contro la guerra e il riarmo, a lanciare pubblicamente il blocchiamo tutto se attaccano la Flotilla. Una parola d’ordine che si è intrecciata alla raccolta di cibo condotta con Music for peace è che ha costruito un consenso sbalorditivo. USB, legata al CALP, ha avuto l’intelligenza e la determinazione di riprendere l’appello e metterlo a terra, a partire da un’assemblea genovese. Certo, sappiamo che USB ha colto l’occasione anche con uno spirito di organizzazione, nel mezzo di un confronto con il sindacalismo di base sugli appuntamenti d’autunno, travolgendo di fatto il coordinamento con Music fo peace, forzando tempi e forme nella proclamazione del 22 settembre, facendo la scommessa di porsi così al centro di questa dinamica. A noi, tutto sommato, piace ricordare le parole con cui in quel frangente Music for peace ringraziò la CULMV, la compagnia dei cosiddetti camalli genovesi, storicamente influenzata da Lotta comunista (spesso al centro delle polemiche in questi mesi, per la sua posizione di unità delle classi lavoratrici palestinesi e israeliane contro entrambe le proprie direzioni nazionaliste): Cogliamo inoltre l’occasione per precisare che l’iniziativa è certamente partita dalla cooperazione tra Music for Peace e CALP di Genova, ma è stata sollevata dall’intera popolazione. Per la prima volta non sono state le sigle a trascinare il popolo, ma il popolo ha trascinato sigle, associazioni, istituzioni, enti e tutto!…Potete scrivere e condividere riflessioni, proclami, dubbi e quant’altro, ma dovreste invece camminare uniti e unite. Bisogna comprendere che non si tratta di visibilità e neppure di chi è più bravo. Non condividere questo cammino significa mettere in dubbio che i cittadini e le cittadine hanno realmente la possibilità di cambiare le cose. Sorvoliamo sulle competizioni e non giudichiamo chi è accanto a noi. La bellezza di questa onda è proprio l’unione, ognuno con le proprie differenze accomunati tutti con un unico obiettivo. Proprio per questo, nonostante le forzature e le sbavature in questo percorso, ho sostenuto con tanti altri lo sciopero generale del 22 settembre, come si è visto anche nella dichiarazione di Radici del sindacato nella FLC CGIL. Nel prisma di queste settimane di settembre, si sono comunque confermate le fragilità e le coazioni a ripetere del sindacalismo italiano. Per fortuna, nei mille raggi di risposta che si sono dipanati, alcuni hanno tenuto il focus dello sviluppo del movimento e dell’unità ed alla fine si è affermato un percorso di convergenza che ha travolto, almeno per il momento, le resistenze di organizzazione.

5. L’estraneità non scontata di una parte del sindacalismo italiano. La crescente attenzione e attivazione di massa ha trascinato sigle, associazioni e sindacati. Non tutti, però. Alcuni hanno scelto di non starci e di estraniarsi da questa mobilitazione: la UIL, la CISL, il sindacalismo autonomo e professionale. La posizione della UIL non sorprende, nel suo opportunismo alla continua ricerca di rappresentanze particolari, tenendo anche conto della presenza di componenti oramai assimilate nella destra reazionaria in alcuni settori e territori (gli scioperi generali scomposti del 2022 e 2023 erano in fondo un tentativo di gestire questa particolare composizione). In ogni caso, nella prospettiva del suo XIX congresso (2-4 luglio 2026, Padova), dopo la sconfitta referendaria della CGIL, nel pantano dei rinnovi separati del pubblico impiego, al piede di partenza delle mobilitazioni autunnali, questa estraneità risulta alla fine non casuale e in qualche modo parla dei nuovi adattamenti di questo sindacato (confermati dalle prime valutazioni sulla legge di bilancio). La scelta della CISL risulta ovvia, nel quadro dell’assetto sussidiario e governativo enfatizzato dalla gestione Fumarola, considerata l’evidente curvatura delle mobilitazioni contro le posizioni del governo: eppure, l’iniziativa contro il genocidio ha inevitabilmente attraversato anche il campo valoriale di matrice cattolica di questo sindacato. Ne è risultata evidente, e persino espressa, una sofferenza. Il sindacalismo autonomo e professionale è particolarmente presente nell’istruzione e ricerca, cuore di questo movimento: alle ultime elezioni RSU lo SNALS ha avuto l’11,6%, la Gilda l’8,0% e l’Anief il 7,9%. Certo, come scrive il segretario regionale di una di queste formazioni ad un docente, sono un sindacato autonomo e non ideologico, la cui azione ha per scopo la tutela dei diritti dei lavoratori della Scuola e il miglioramento della qualità del servizio… in conseguenza, non ha mai aderito a o promosso scioperi che non avessero un obiettivo definito o che fossero motivati dalla sola contrapposizione politica, che nulla hanno a che vedere non solo con rivendicazioni contrattuali, ma neppure con aspetti di altro tipo che coinvolgono il nostro lavoro (legge di bilancio, sicurezza sul luogo di lavoro, miglioramento della sanità). Queste scelte, allora, potevamo essere prevedibili, però non erano in realtà scontate. Il sindacalismo italiano, quello di matrice cattolica ma anche quello moderato, non si è mai estraniato dalle mobilitazioni contro la guerra, che hanno radici profonde nel movimento italiano del lavoro, sin dalle mobilitazioni contro l’intervento in Libia, nel 1911 o la Prima guerra mondiale nel 1914/15. CISL, UIL, almeno alcuni sindacati autonomi potevano esser presenti con un proprio profilo e una loro azione, anche frenante o alternativa rispetto alle rivendicazioni e alle dinamiche del movimento: hanno invece scelto di esser assenti, a suo modo una novità da registrare.

6. Il ruolo del sindacalismo conflittuale e di base. Come è stato sottolineato, l’ampio sostegno per l’azione della Flotilla ha permesso di attivare dinamiche di massa nella mobilitazione e la chiamata allo sciopero ha permesso di coagularle in una dimensione generale. Il sindacalismo conflittuale e di base ha avuto il ruolo fondamentale, e il conseguente merito, di esser stato sin dai primi tempi protagonista delle mobilitazioni propal e contro il genocidio; quindi, è stato capace di cogliere il cambio di clima intorno alle iniziative della Flotilla e, come abbiamo visto con i portuali di Genova, dare per primo forma all’ipotesi di uno sciopero generale. Così, USB, CUB, SGB e AdL Varese hanno proclamato il primo sciopero generale del 22 settembre. Abbiamo visto come in questa dinamica c’è chi ha forzato, nelle dinamiche del movimento genovese e del sindacalismo conflittuale, tanto che la proclamazione di quello sciopero ha sollevato critiche nel SiCobas (da ottobre 2023 presente nelle iniziative per Gaza e la Palestina), pur partecipandovi; ha visto prendere le distanze UniCobas, ha visto silenzi non casuali nella Confederazione Cobas/Cobas scuola e in altri soggetti. Forzature e imposizioni si sono percepite anche nella gestione delle piazze, sia il 22 settembre sia il 3 ottobre, e hanno probabilmente riattivato antichi rancori e prodotto nuove fratture, in un sindacalismo conflittuale e di base che rimane profondamente diviso. In ogni caso, nel quadro di una marea che ha poi travolto ogni illusione di controllo e direzione su di un movimento plurale e composito, le diverse organizzazioni sindacali conflittuali e di base hanno avuto il merito di aver contribuito alla sua partenza e al suo sviluppo.

7. Resistenze, difficoltà e svolte della CGIL. La CGIL è stata travolta dalla spinta popolare unitaria alle mobilitazione. Dopo lo sciopero generale con la UIL la scorso novembre e la sconfitta referendaria di giugno, la CGIL si è ripiegata in un dibattito interno sulle sue strategie, i modelli sindacali, i futuri assetti del gruppo dirigente, sfumando l’agenda autunnale al di là della programmazione di un corteo nazionale fissato da luglio al 25 ottobre 2025. Ai primi di settembre, comunque, il sua radicamento diffuso, la rete di strutture e delegati/e nei territori e nei luoghi di lavoro, ha colto e segnalato il cambio di clima e l’attivazione intorno alla Global Sumud Flotilla, nella quale l’organizzazione non è stata particolarmente presente, non avendo sviluppato in questi anni una significativa attenzione e partecipazione al movimento di solidarietà per la Palestina. La reazione immediata, ad esser sinceri, è stata profondamente inadeguata e sostanzialmente autocentrata: ritenendo che l’esser rimasta l’unica organizzazione di massa nella sinistra politica e sociale le conferisca una sorta di ruolo determinante nelle mobilitazioni di massa, ha costruito propri appuntamenti di organizzazione, di fatto concorrenti rispetto al movimento nascente. Così è stato con i presidi e le manifestazioni di sabato 6 settembre, di fatto alternative alle giornate del 4 e del 7 lanciate dai riferimenti italiani della Flotilla; così è stato il 19 settembre, con uno sciopero generale improvvisato, chiamato in pochi giorni a ridosso del 22 e per di più, appunto per la presenza di quest’ultimo, senza i settori più coinvolti di scuola, università e ricerca. Il risultato è stato fallimentare, tanto il 6 che il 19 settembre. Mentre i presidi e i cortei promossi dal circuito della Flotilla registravano partecipazioni significative e già segnate da una dinamica di movimento (per fare un esempio, a Roma decine di migliaia si trovano domenica 7 settembre al corteo e il giorno dopo in diverse migliaia ad un presidio improvvisato davanti alla Sapienza, contro il primo attacco a Tunisi), le iniziative CGIL si limitavano a qualche centinaio di partecipanti (apparato, dirigenti e attivisti dell’organizzazione). Lo sciopero del 19 settembre ha visto piazze di qualche migliaio di partecipanti (Bologna, Mestre, Firenze, Milano, Genova, Torino, Roma, Catania), al di là di qualche iniziativa più significativa e riuscita (il corteo e il blocco del porto di Livorno). Un errore talmente evidente che l’organizzazione l’ha percepito subito, ben oltre i confini dell’area alternativa di cui faccio parte. Lo avevano segnalato sin dalla settimana precedenti il tessuto di delegati e attivisti nelle università, nelle scuole e negli enti di ricerca, che ha infatti convogliato di fatto la partecipazione allo sciopero di lunedì (in alcune realtà, come Milano, portando struttura e RSU in piazza con gli studenti). La grande partecipazione del 22 settembre ha quindi travolto le residue titubanze e resistenze: la partecipazione popolare ha trascinato sigle, associazioni, istituzioni, enti e tutto. Così, la CGIL ha avuto la capacità di praticare una svolta, a partire dal riconoscimento dei percorsi e degli appuntamenti di movimento. La Confederazione si è inserita in un coordinamento di fatto con gli altri soggetti e si è arrivati all’inedita conferenza stampa unitaria di GSF, CGIL (Landini), USB (Lutrario), CUB (Amoroso) e Cobas (Miliucci), rompendo in qualche modo un tabù. Questa svolta ha prodotto le manifestazioni unitarie dopo l’attacco alla Flotilla, lo sciopero unitario del 3 ottobre e anche il corteo del 4 ottobre, nonostante le perplessità su alcuni passaggi della piattaforma di indizione (e qualche paura, anche mia devo dire, sull’inserimento in corsa nel corteo). L’enorme partecipazione popolare ha superato ogni titubanza e ogni timore. Il dubbio, comunque, è che nonostante l’evoluzione positiva, il passaggio non sia stato meditato e assunto dall’insieme dell’organizzazione, a partire dal riconoscimento degli errori di settembre e della necessità di esser parte di parte.

8. La determinazione delle mobilitazioni. Lo sciopero generale ha trovato ampio consenso e sostegno, perché di fronte alla gravità della situazione a Gaza l’indignazione popolare sentiva la necessità di azioni in grado di impattare nel paese. Il richiamo a bloccare tutto, che riprendeva il bloquons tout delle mobilitazioni francesi contro l’annunciata finanziaria lacrime e sangue di Bayrou (poi dimissionario), era cioè l’esternazione dell’esigenza di marcare una discontinuità, a fronte del genocidio e dell’attacco a un soccorso umanitario internazionale. Le dimostrazioni del 22 settembre e del 3 ottobre hanno quindi visto pratiche di massa volte a bloccare effettivamente il paese. Nel contesto di una società interconnessa come quella moderna, la generica rivendicazione di bloccare tutto si è cioè personificata nell’obbiettivo di bloccare tangenziali, autostrade, strade, binari ferroviari e stazioni. Le azioni sono state condotte per lo più in una dimensione di massa, al di là di ogni logica avanguardistica, riprendendo l’esempio dello sciopero dei metalmeccanici a Bologna dello scorso giugno (quando in diecimila, compresa la FIM e il suo segretario nazionale, bloccarono la tangenziale della città). Nonostante il decreto sicurezza approvato in primavera, che aumenta i reati e inasprisce le pene per le dimostrazioni (iniziative non autorizzate, blocco strade, occupazione di palazzi, interruzione del servizio), decine di migliaia se non centinaia di migliaia di persone le hanno bloccate insieme, dimostrando che proprio la dinamica di massa permette di rompere divieti e imposizioni autoritarie. La pratica dei blocchi, poi, non è stata solo di alcune grandi città (Roma, Milano, Bologna, Torino, Genova, Firenze, Napoli), ma si è diffusa anche in città e cittadine (tra gli altri Bergamo, Brescia, Massa, Vicenza e Thiene, Treviso, Pisa). Nonostante ci siano stati qua e là azioni di repressione (cariche, arresti e denunce), in sostanza le cosiddette forze dell’ordine hanno lasciato fare, dimostrando appunto che l’azione di massa è in grado di rompere le regole.

9. La forzatura della normativa sullo sciopero.  La proclamazione CGIL, USB, CUB-SGB, Cobas e altri dello sciopero generale, dopo l’attacco alla Flotilla è stata fatta in meno di ventiquattro ore, quando le regolamentazioni conseguenti alle legge 146 del 1990 prevedono in genere un preavviso di 10 giorni. I sindacati hanno invocato l’oramai famoso articolo 2, comma 7 della stessa legge, che consente deroghe in tema di preavviso minimo e di indicazione della durata nei casi di astensione dal lavoro in difesa dell’ordine costituzionale, o di protesta per gravi eventi lesivi dell’incolumità e della sicurezza dei lavoratori. La Commissione di regolazione dello sciopero, come atteso e come precedentemente dichiarato per le proclamazioni USB e SiCobas, non ha accolto questa causale, ma i sindacati hanno mantenuto lo stesso la proclamazione dello sciopero. Molta retorica è stata spesa su questa forzatura. La realtà è un po’ diversa ed è utile esserne consapevoli. Ritengo importante, comunque, che politicamente la CGIL abbia finalmente messo in discussione la legge 146 del 1990, contrastando le prescrizioni della Commissione nazionale di garanzia. In primo luogo, perché credo che sia la prima volta che la CGIL non segue le indicazioni della Commissione, aprendo così di fatto una riflessione critica su una regolamentazione a cui ha largamente contributo in un’altra stagione storica. Su questa dinamica, ci sono anche prime riflessioni giuridiche. In secondo, ma non secondario luogo, perché in alcune categorie della CGIL si sono aperte proprio in questa stagione riflessioni su nuovi possibili strumenti di sciopero, che partono invece proprio da una conferma di quella normativa. Lungi da me quindi sottovalutare l’importanza di quanto avvenuto o la necessità che la riflessione critica sulla normativa antisciopero prosegua e si sviluppi, anche con azioni concrete. Però, mi sembra anche importante riconoscere che il 3 ottobre, per fortuna, la forzatura della normativa è stata tutta in capo ai soggetti sindacali (sanzioni e multe), perché lavoratori e lavoratrici della maggior parte dei settori hanno potuto contare sulle coperture di un altro sciopero generale, indetto con motivazioni convergenti nei tempi opportuni dal SiCobas. In caso contrario, la forzatura avrebbe potuto comportare conseguenze non irrilevanti anche per alcuni aderenti allo sciopero (nell’istruzione e ricerca, ad esempio, anche solo una lettera di richiamo avrebbe potuto comportare problemi per i precari). Allora, il 3 ottobre è stata importante non solo per una piena convergenza tra i diversi sindacati, ma anche per garantire piene coperture allo sciopero (particolarmente nei settori della conoscenza). A questo risultato, comunque, non si è arrivati solo per caso, ma anche perché il SiCobas ha saputo tenere quella proclamazione di fronte alle contestazioni della Commissione (particolarmente nella scuola) e perché c’è stato chi ha interagito con il SiCobas e a suo modo ha contribuito ad arrivare a quello sciopero.

10. Un movimento fluido, molteplice, autorganizzato molecolarmente. Le mobilitazioni di queste settimane hanno avuto la forma della marea, richiamando le esperienze di massa di nonunadimeno, della reazione contro i femminicidi, dei pride. Tutto questo è stato entusiasmante proprio perché ha saputo dare alle iniziative una dimensione di massa, capace di rompere i confini ed i confinamenti delle diverse organizzazioni e soggettività. La marea, cioè, ha travolto sindacati, partiti e associazioni, grandi e piccole, riportandole tutte alla condizione di esser parte di una parte, soggettività interne ad un movimento più complessivo. La lunga fase di regressione e disorganizzazione del movimento operaio, infatti, ha disabituato le diverse soggettività organizzate ad interagire con le appartenenze collettive complessive della classe lavoratrice. Nella marea del 22 settembre, del 3 ottobre, del 4 ottobre, ognuno ha allora riscoperto una dimensione di massa preziosa ed indispensabile per qualunque prospettiva si intenda costruire. Questa marea, però, è anche un limite, proprio perché si è espressa più come marea che come movimento politico di massa. Questa grande autorganizzazione molecolare, questa fluidità e orizzontalità nella partecipazione, infatti si esprime nella pressoché totale assenza di spazi democratici di confronto e decisione (assemblee, delegati/e, comitati e consigli), a cui a dire il vero l’esperienza italiana è sempre stata restia per la doppia influenza di matrice stalinista e operaista (al contrario, ad esempio, dei movimenti spagnoli o francesi), ma anche nella mancanza di momenti o strutture di coordinamento tra i diversi soggetti (intersindacali, intergruppi; assemblee cittadine). Tutto è caotico, vivo: le diverse impostazioni e prospettive convivono come tante correnti in un mare comune. Questo è stato fondamentale nel successo del 3 e del 4 ottobre, in cui hanno convissuto rivendicazioni sulla Palestina e la resistenza tra loro molto diverse, senza che nessuna potesse rivendicare un’egemonia sulla mobilitazione. Però, al contempo, oggi manca la possibilità di confrontarsi, discutere, contrapporre ma anche sviluppare le diverse impostazioni e le diverse prospettive. Manca anche la possibilità di strutturare questo movimento nei diversi territori e di articolarlo nelle diverse realtà sociali, elaborando interventi e azioni specifiche per i diversi contesti. Manca cioè, al momento, la possibilità a questo movimento di fare collettivamente esperienza, maturare, evolversi e direzionarsi. Così, la marea rischia di passare come un’onda, esaurendosi rapidamente.

11. Una marea confinata. È utile riconoscere un altro limite importante di questo movimento: i suoi confini. Come abbiamo ricordato, la partecipazione alle manifestazioni di queste settimane è stata incredibile, per intensità e per diffusione. Da anni, in diverse realtà da decenni, non si ricordavano piazze così piene. In alcune cittadine e paesini, c’è persino chi dice che non siano mai visti cortei o iniziative così partecipate: un segno della diffusione capillare di cortei e manifestazioni, anche per la significativa partecipazione di studenti e giovanissimi, che si sono attivati a partire dalle proprie scuole. Però, non tutta la società si è attivata con la stessa intensità. Abbiamo sottolineato come la chiave di volta di questo movimento, che ha direzionato e sorretto il suo sviluppo, è stata la forma dello sciopero generale, il coinvolgimento diretto di lavoratori e lavoratrici. Però, non tutto il lavoro si è attivato in questa mobilitazione. Se la proposta dello sciopero è arrivata da uno specifico settore della classe operaia centrale (i portuali), è importante anche esser consapevoli che non tutta la classe lavoratrice organizzata ha partecipato con la stessa intensità. Certo, alcune fabbriche storiche, sindacalizzate e politicizzate, hanno risposto nelle diverse città all’appello e alla mobilitazione. Però, la mia impressione guardando quei cortei e quelle manifestazioni, è che mancasse una presenza organizzata e di massa dei lavoratori e delle lavoratrici delle fabbriche metalmeccaniche, chimiche, alimentari. In piazza c’erano dirigenti, delegati/e, attivisti sindacali, molti magari con la propria famiglia, ma non ho visto una partecipazione per posto di lavoro, fabbrica, azienda, stabilimento o ufficio. Lo sottolineo, perché credo sia importante tenere in considerazione due cose. In primo luogo, il rischio che nelle prossime settimane e nei prossimi mesi si delinei e poi si apra una faglia tra chi è stato in queste piazze e chi non vi ha partecipato, tra chi ha vissuto e vive l’indignazione per la questione palestinese e chi vive nella propria miseria quotidiana, tra una giovane generazione che si affaccia alla partecipazione politica e una sinistra ancorata alle forme organizzative di un’altra stagione. Evitare che questa faglia si delinei e si apra una frattura è responsabilità di tutte le soggettività che si muovono in questo movimento. In secondo luogo, proprio perché ancora nella forma della marea e proprio perché ancora confinato, questo movimento non ha ancora un impatto diretto sulle relazioni sociali di questo paese e quindi sul suo quadro politico. Queste settimane non hanno spostato i rapporti di forza tra le classi del paese, la disorganizzazione della classe lavoratrice, la pressione della competizione internazionale su salari, orari e organizzazione del lavoro. Queste settimane, per il momento, hanno solo aperto uno squarcio e mostrato le possibilità di un movimento di massa. La Meloni e il suo governo reazionario, allora, mantengono il proprio consenso, nella società italiana e nei risultati elettorali (come si è visto anche recentemente in Valle d’Aosta, nelle Marche, in Calabria). Certo, questo consenso non è maggioritario, ma è significativo e in grado di plasmare il senso comune, davanti ad un’opposizione parlamentare in fondo liberale ed una classe lavoratrice frammentata.

12. E adesso? Come ricordava Music for peace, abbiamo visto in queste settimane una spinta unitaria fortissima. Espressa non solo dentro gli organismi e le assemblee del sindacato, ma con i piedi e la testa, partecipando a cortei e scioperi. Una rottura dei confini e delle appartenenze che non ricordo in altri momenti di grande attivazione sociale. La domanda oggi è quanto di questa partecipazione, autorganizzazione e determinazione rimarrà e si svilupperà il prossimo autunno. In questi giorni abbiamo già percepito un calo della tensione, anche per la confusione e l’incertezza di una tregua complicata, agita da chi meno te l’aspetti (Trump e gli USA). Il trasferimento di questa partecipazione nel contrasto alle politiche di riarmo, guerra, austerità che il governo Meloni sta confermando nella sua legge di bilancio è lineare, ma solo nelle menti e nei cuori di quell’ampia avanguardia di sinistra che richiamavamo aprendo questa riflessione. Il suo trasferimento nel senso comune di chi ha partecipato al movimento non solo non è scontato, ma avrà bisogno di tempi, esperienze e maturazioni che forse non avranno neanche la possibilità di darsi, proprio per le forme e le modalità attraverso cui si sono espresse queste mobilitazioni. Qualcuno, allora, può pensare di accelerare questo processo alzando il livello dello scontro e costruendo fughe in avanti avanguardistiche. Qualcuno può invece pensare che sia utile tirare le proprie reti organizzative, prima che questa attivazione rifluisca completamente e scompaia. Io credo invece che questa marea debba esser lasciata esprimersi, curando con pazienza e determinazione la sua fioritura, cercando di saldare faglie e linee di frattura. A novembre ci saranno scioperi e iniziative contro le politiche del governo. Sarebbe utile che la CGIL fosse in grado di sentirsi nuovamente parte di parte, superando il lutto della possibile rottura con la UIL e delineando un percorso di sciopero generale aperto. Sarebbe, cioè, utile evitare di riprendere autisticamente la propria agenda, come si sta rischiando di fare con la manifestazione del 25 ottobre che appare, nei temi e nelle forme, sostanzialmente astratta dagli eventi di queste settimane. Sarebbe utile che il sindacalismo conflittuale e di base, sia quello di USB sia quello delle altre organizzazioni, cogliesse l’importanza di curare lo sviluppo del movimento, evitando la riproposizione di iniziative e appuntamenti di organizzazione o di schieramento. Magari provando ad intrecciare o unire i percorsi dello sciopero generale con quelli dell’iniziativa studentesca, a partire dalla prossima giornata di mobilitazione del 14 novembre. Avendo l’ansia di muoversi nella convergenza. Come ricorda un recente appello di Radici del Sindacato in FLC, oggi è il tempo del conflitto, oggi è il tempo della convergenza, oggi è il tempo di fare un passo indietro per sentirsi parte di un movimento, capace di crescere e sviluppare un’opposizione sociale di massa a questo governo reazionario.

19 ottobre 2025
Luca Scacchi

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