Contributo ragionato di Luca Scacchi,
sviluppato dall’intervento al Coordinamento nazionale
dell’area congressuale CGIL Radici del Sindacato,
Roma, 27 giugno 2025.
Viviamo in tempi interessanti. Non so se sia vero che questa sia una maledizione cinese o se sia quanto di peggio si possa augurare ad un abitante del Mondo Disco (realtà creata dalla penna dell’umorista Terry Pratchett). I tempi interessanti sono quelli di grandi crisi: instabilità, guerre e sofferenze, ma quindi anche cambiamenti, soluzioni di continuità impreviste rispetto allo stato di cose esistenti.
Questi tempi hanno in ogni caso aperto una nuova stagione, dopo la straordinaria pandemia del 2020. La gerarchia internazionale del capitale e del lavoro, pressata dalle tendenze di lungo periodo di questo modo di produzione, è stata scossa dalla Grande crisi del 2006/09 e per oltre un decennio si è acuita la competizione e la tessitura di aree commerciali di riferimento. L’invasione dell’Ucraina nel 2022, il tentativo russo di ribaltare sul piano militare la sua progressiva compressione tra USA e Cina, ha quindi precipitato uno scontro interimperialista che ha innescato un riassetto delle relazioni tra le diverse formazioni sociali che è anche un riassetto dei rapporti sociali nei diversi paesi. La possibilità di condurre una guerra, cioè, non è solo tornata ad essere il principale strumento di gestione delle relazioni internazionali, ma è il prodotto dell’attuale tensione sui saggi di profitto e della crescente sovrapproduzione di merci e capitali. Abbiamo quindi visto tre anni di massacro al fronte con il coinvolgimento della NATO, il fallimento delle sanzioni contro la Russia, l’accordo Theran-Ryad mediato da Pechino, il 7 ottobre e il macello a Gaza, i colpi di stato in Sahel e nel corno d’Africa, la messa all’angolo di Hezbollah in Libano, il crollo del regime siriano, la guerra dei 12 giorni tra Israele e Iran, gli scontri tra India e Pakistan (potenze nucleari), il riarmo al 5% del PIL per il 2035 (lo stesso livello durante la guerra fredda), il ritorno di dazi, le recenti svolte trumpiane verso Russia e UE. Fenomeni che sottolineano la profondità del riassetto in corso e prospettano una competizione mondiale segnata da una crescente contrapposizione tra poli capitalistici continentali.
In questi anni è cresciuta una seconda onda nera (Milei, Meloni, l’ultimo governo Netanyahu, la seconda presidenza Trump, lo sviluppo dell’AFD in Germania, la nuova destra iberica e scandinava), che si è sovrapposta alla prima innescata dalla Grande crisi (Modi, Erdogan, il PIS polacco e Orban, Bolsonaro, la prima presidenza Trump e il governo Salvini-Conte in Italia). Movimenti reazionari di massa sono stati capaci di conquistare il governo anche nelle metropoli imperialiste e non solo in formazioni semi-centrali o semi-periferiche. Questa destra interpreta la nuova stagione con politiche economiche, sociali ed istituzionali assonanti con le sue tendenze di fondo: iniziative contro i migranti per rispondere all’insicurezza diffusa, indirizzi sovranisti per la difesa delle economie nazionali e lo sviluppo di blocchi continentali, tentazioni di keynesismo militare con cui sostenere la contrapposizione internazionale, svolte bonapartiste e repressive per sostenere la militarizzazione e la mobilitazione nazionale. Queste politiche richiamano allora una nuova gestione capitalistica della crisi, in qualche modo diversa da quella degli ultimi quindici anni che ha visto radicalizzarsi le politiche di finanziarizzazione, debito e internazionalizzazione della precedente stagione neoliberista. Questa nuova gestione capitalista è evocata ma fatica a dispiegarsi, trattenuta da assetti e strategie di accumulazione del grande capitale che persistono, sino a quando non si esauriranno i loro spazi di sopravvivenza. In ogni caso l’impronta nazionalista e autoritaria di questa destra, pur capace di raccogliere consenso anche in ampi strati delle classi popolari, guarda all’annichilimento di ogni punto di vista autonomo di lavoratori e lavoratrici all’interno delle proprie formazioni sociali, interpretando con impostazioni comunitarie la logica di mobilitazione nazionale che segna questa stagione di competizione e contrapposizione internazionale.
Questa destra reazionaria si propone allora di subordinare le diverse soggettività sociali, nella forma della negazione e repressione del dissenso praticato da Milei ed evocata da Trump o nella forma del loro inquadramento corporativo, accompagnato dalla repressione del conflitto, tratteggiata da Meloni in Italia ma anche da altri regimi nazionalisti nel mondo (da Erdogan a Modi). Questa destra reazionaria, cioè, si candida anche a sostituire i due principali modelli di regolazione sociale che si erano affermati negli ultimi decenni e che, entrambi, faticano oggi a reggere la profondità delle ristrutturazioni innescate da crisi e competizione mondiale. Da una parte si candida a cancellare la mediazione con il lavoro, dalla forma organica della Mitbestimmung tedesca (la cogestione, ridimensionata dalla precarizzazione del Piano Hartz e oggi in difficoltà a gestire il riassetto di un’industria focalizzata sulle esportazioni, vedi Volkswagen e automotive) a quella allusiva di Biden in USA (sostegno politico, anche nei picchetti UAW, senza riconoscimento istituzionale o politiche di sistema). Dall’altra si candida ad archiviare anche la disintermediazione neoliberale, cioè quella gestione tecnocratica delle politiche sociali ed economiche che porta ad imporre le scelte saltando ogni negoziazione con forzature motivate da supposte necessità oggettive: pensiamo alle politiche di austerità e liberalizzazione di Monti, Renzi o Draghi; alla Loi travail, ai decreti Macron e alla controriforma delle pensioni in Francia, alle iniziative di Mītsotakīs in Grecia dal ridimensionamento del pubblico nel 2013 allo stravolgimento del diritto del lavoro da premier.
Questa nuova stagione vede allora rimesso in discussione il ruolo del sindacato. Mi sono soffermato su questo contesto, perché credo che le tendenze che segnano l’attuale dinamica capitalista stiano facendo emergere i limiti delle attuali pratiche sindacali. Si moltiplicano, infatti, le spinte che tendono a trasformare le organizzazioni sindacali in soggetti sussidiari della produzione. Cosa intendo per sussidiari? Intendo dire che la funzione che i sindacati sono sempre più spinti a ricoprire in una stagione di crisi e competizione internazionale è quella di organizzare la forza lavoro. La forza-lavoro: non i lavoratori e le lavoratrici che con i loro corpi, la loro carne, il loro sangue e la loro intelligenza producono le merci, ma solo la merce che da loro viene venduta per contribuire al processo produttivo. Questa funzione, certo, non cancella la difesa del miglior prezzo e delle migliori condizioni possibili per erogare questa merce, ma contribuisce a inquadrare questa merce e a disciplinarla nei processi produttivi, cancellando il punto di vista autonomo del lavoro e quindi ogni prospettiva od aspirazione ad una trasformazione delle attuali gerarchie sociali. Questa prospettiva, infatti, non coglie il potenziale distruttivo di questo modo di produzione basato sull’infinita accumulazione di valore, non mette in discussione la relazione di subordinazione e sfruttamento insita in questa relazione sociale, non organizza nessun antagonismo collettivo tra capitale e lavoro. Al contrario, ritiene la forza lavoro uno dei fattori della produzione, che può e deve contribuire alla riuscita del processo produttivo stesso: solo il rispetto delle compatibilità economiche e di mercato può permettere di ricevere la giusta mercede e al contempo riprodurre le condizioni della sua vendita nel tempo. È un sindacato sussidiario, allora, perché è accessorio, di supporto e non autonomo, interpretandosi come rappresentante collettivo di uno dei fattori della produzione.
La CISL oggi interpreta pienamente questo sindacalismo sussidiario. In fondo, riscopre le sue radici fondative, quando nacque scindendosi dalla CGIL sotto l’egida di Pastore, della DC ma anche dell’idea di un sindacalismo non confessionale, degli iscritti e partecipativo. In quest’ultimo ventennio, infatti, si è sostanzialmente spenta quella matrice umanista che negli anni Sessanta e Settanta ha portato ampi settori di questo sindacato a sostenere la ripresa della conflittualità operaia e sociale, dalla FIM al SICET. Nel contempo si è esaurito il pluralismo che a lungo ha vissuto in quest’organizzazione (vedi sindacalmente.it), prima con l’emarginazione del dissenso, poi con un sempre maggior verticismo, fino ad arrivare all’inquadramento delle sue strutture con i commissariamenti formali e informali delle sue principali categorie (vedi pubblici e metalmeccanici). Oggi la CISL torna a sostenere il governo (anche con passaggi più o meno diretti, vedi Sbarra), svolge una funzione complice nell’azione delle categorie (rinnovi separati in Funzioni Centrali e Sanità), riporta la sua azione generale in un alveo sussidiario (vedi la legge sulla partecipazione, in vigore dal 10 giugno 2025). Poi, certo, questa funzione non è interpretata solo dalla CISL, pensiamo ai diversi sindacati corporativi del paese.
Questa prospettiva, però, attraversa oramai anche la CGIL. L’impostazione del sindacato dei servizi, sviluppatasi con gli anni Ottanta e sancita dalle conferenze di programma e di organizzazione del 1989 (aprile a Chianciano e novembre a Firenze), ha portato molte Camere del lavoro a focalizzarsi su consulenze e servizi fiscali, perdendo la dimensione collettiva dell’azione sindacale. Le stesse Camere del lavoro sono formate da categorie territoriali: in alcune il tesseramento derivante da servizi e consulenze individuali è significativo se non prevalente, in altre hanno un ruolo sempre più importante enti bilaterali e fondi integrativi, in altre ancora la rappresentanza si focalizza su specifici settori professionalizzati. In fondo, non è un caso se in questi anni segnati da una progressiva divaricazione tra CGIL e CISL (dai tre scioperi proclamati solo da CGIL e UIL sino all’aperta rottura su partecipazione e referendum), nella prassi di diverse categorie si sia registrata una stretta intesa su piattaforme, contratti e percorsi sindacali. Qui emerge una contraddizione. Certo, in alcune occasioni può esser una contraddizione CISL: pensiamo ai metalmeccanici, dove l’unità tra FIM FIOM e UILM di questi mesi si è distinta per un’iniziativa che conferma l’attuale meccanismo annuale di adeguamento ritardato all’inflazione (IPCA depurata) ma rivendica un’ulteriore redistribuzione, quaranta ore di sciopero e il contrasto del DL Sicurezza, con il blocco temporaneo della tangenziale di Bologna in un corteo concluso dal segretario generale FIM. Certo, nei settori pubblici abbiamo visto posizioni contrapposte in Funzioni centrali, Sanità ed Enti locali, due contratti separati e il referendum autogestito CGIL, UIL e USB. Nell’Istruzione e ricerca c’è stato lo sciopero separato del 31 ottobre scorso e l’asse CISL-SNALS nei mesi successivi, mentre nelle Poste si è registrata la rottura con l’accordo sottoscritto da CISL in aperta polemica con SLC e UIL. Però, stupiscono i rapporti unitari sia in categorie che hanno tenuto sul fronte salariale (bancari, edili, alimentaristi, chimici), sia in settori segnati da condizioni di particolare sfruttamento (vigilanza privata, commercio e turismo, trasporti e logistica). Anche quando alcuni accordi erano, diciamo, molto discutibili su aumenti, struttura dei salari, estensione dei perimetri, spazi alla precarietà. Mi sembra, cioè, che prassi e modelli sussidiari siano oramai penetrati anche nella nostra organizzazione, perimetrati in alcuni settori o in particolari strati della classe lavoratrice. Questo, credo, è uno dei principali motivi per cui si dovrebbe iniziare a ragionare seriamente sulla divaricazione delle pratiche categoriali: una discussione che è stata spesso sfiorata, anche all’assemblea nazionale di delegati/e a Bologna del settembre 2022, ma mai veramente affrontata.
Un confronto tra diversi modelli sindacali si è in realtà esplicitato nel dibattito della CGIL, cresciuto nei mesi scorsi e riemerso a valle della recente sconfitta referendaria. Nelle Assemblee Generali degli ultimi mesi più volte esponenti di quella che possiamo definire destra CGIL (la componente più riformista e responsabile) hanno sottolineato la necessità di affrontare questa destra reazionaria sul terreno di una forte iniziativa contrattuale, cioè nell’ambito di tavoli con il padronato in grado da una parte di sviluppare strumenti di gestione delle ristrutturazioni produttive e dell’inflazione, dall’altro di isolare socialmente la Destra di governo. In fondo, questa era la ragione fondante dello scetticismo che questi settori avevano espresso nei confronti della stessa strategia referendaria, che sembrava fuoriuscire dal perimetro dei rapporti tra produttori per coinvolgere l’insieme della popolazione in uno scontro politico dagli esiti incerti. L’ultimo confronto post-referendario ha di fatto aperto un percorso di discussione che a luglio esiterà nell’avvio di una conferenza di programma o di organizzazione, se non nel congresso. In questa occasione c’è stato chi ha sottolineato il rischio del formarsi di un blocco corporativo stabile tra CISL, UGL e autonomi, in grado di marginalizzare una CGIL che a questo punto rischierebbe di esser schiacciata in una prospettiva minoritaria, di semplice accudimento dei movimenti. Proprio questo supposto rischio è diventato occasione di presentare una diversa prospettiva, la possibilità di uscire dall’angolo sul terreno della ritessitura di un nuovo patto dei produttori (capitale e lavoro), in cui il sindacato possa mettere in campo grandi fondi contrattuali per finanziare politiche industriali nazionali e un welfare integrativo che faccia i conti con la crisi del sistema fiscale, in grado di garantire flessibilità e sicurezza (un sistema organico di enti bilaterali?). Nulla di nuovo, in realtà: né in relazione all’elaborazione di queste componenti, né in relazione ai modelli sindacali praticati da alcune categorie. Non a caso, mi viene da dire, Alessandro Genovesi (già segretario Basilicata e poi Fillea, ora a Corso Italia, uno degli esponenti della cosiddetta destra CGIL in questi anni), in un articolo di questi giorni di risposta a Sinopoli e Ranieri sul sindacato di strada (vedi più avanti), rivendica la strategia di uno schema di alleanze sociali e politiche sostenuto da fondi di investimento sovrani del sindacato (a partire dal risparmio previdenziale integrativo) e politiche bilaterali integrativi concrete (denti e occhiali, per capirci), ma soprattutto sottolinea come non potrà più esistere un unico modello sindacale, ma più modelli tenuti insieme da una cultura politica ancor prima che da pratiche organizzative. Per lui, cioè, il punto di partenza è esattamente l’assunzione della differenza come condizione di partenza per ricercare forme di neo-mutualismo e partecipazione attiva per confederare il vasto mondo del lavoro. Si rivendica cioè le prassi frammentate di questi anni, proprio perché l’impostazione concertativa è esaurita ma oggi si può inverare in forma sussidiaria in alcuni settori e frammenti dell’insieme del lavoro.
Questa strategia indica un possibile, se non probabile, punto di caduta per la CGIL, nonostante la difficoltà di un suo dispiegamento organico e generale. Lo abbiamo accennato all’inizio di questa riflessione: in realtà, i sistemi di concertazione e regolazione generale sono oggi in difficoltà, erosi proprio dalle dinamiche polarizzanti innescate dalla Grande Crisi e dalla stagione di competizione che stiamo vivendo. Lo vediamo in Germania in questi mesi, nonostante il piano CDU–SPD del governo Merz, un nuovo intervento a debito su riarmo e infrastrutture, possa forse aprire nuovi spazi nei prossimi anni. Lo abbiamo visto anche in Italia, con un Patto di fabbrica messo in discussione dal padronato e la prevalenza di fatto di una disintermediazione liberista: questa, infatti, è stata l’esperienza concreta sia con il governo Giallorosso di Conte sia con Draghi, questo è quello che ancora vediamo nelle tante amministrazioni che il centrosinistra o il cosiddetto campo largo governano. La stessa frammentazione della struttura produttiva italiana rende complesso per il padronato definire un sistema generale di regolazione, gestibile nei diversi settori e nelle diverse aree economiche in cui oggi è diviso il paese. Non è una caso che, in questi anni, anche il padronato si è diviso: pensiamo all’uscita di FIAT-FCA dal CCNL nel 2010/2012, l’uscita di Federdistribuzione nel 2012 nella Grande Distribuzione Organizzata, il contratto alimentaristi del 2019 firmato solo da Ancit, Assobirra e Unionfood (in pratica, le grandi aziende di trasformazione, della birra e dell’industria alimentare), la recente scelta di Confindustria di non rinnovare il contratto Multiservizi o le diverse propensioni sull’autonomia differenziata. Come abbiamo sottolineato in altri momenti, una strategia concertativa è oggi inconcludente, cioè non solo incapace di difendere i salari reali, ma anche di concludere un accordo in grado di tenere nel tempo.
Proprio nella divaricazione tra settori, però, si può affermare un pluralismo di modelli sindacali, ognuno dei quali compartimentato in una categoria o in uno strato della classe, che apre spazi di sussidiarietà settoriale. La strategia concertativa, cioè, non ha oggi le condizioni per svilupparsi con il governo o in una nuova relazione trilaterale tra governo, sindacati e padronato (il terreno che le è proprio), ma può diffondersi nelle dirette relazioni tra organizzazioni sindacali e padronato in alcuni strati del lavoro, a partire dai settori alti e da quelli bassi dell’organizzazione del lavoro: dove si ha potere contrattuale e dove se ne ha poco, con rapporti di forza consolidati che sono più facilmente trasferiti in pratiche sussidiarie alla produzione. Questa dinamica entra in sintonia con quei settori della CGIL che già hanno sviluppato esperienze e prassi sussidiarie. Questo esito è tra l’altro favorito dall’oggettiva difficoltà che la CGIL ha registrato nella mobilitazione degli ultimi anni contro i governi Draghi e Meloni. La difficoltà a sviluppare un movimento di massa e una conflittualità generalizzata contro le politiche del governo non è stato solo quello dell’unità sindacale, della contrarietà della CISL e delle titubanze della UIL, ma anche quello di costruire una convergenza dei diversi modelli sindacali praticati dalla CGIL tanto nella costruzione di scioperi generali quanto nello sviluppo di effettive campagne su salario, orario e precariato. Gli scioperi generali occasionali e spesso scompaginati degli ultimi anni, ma anche le pratiche contrattuali divaricate tra le categorie, ne sono stati il conseguente risultato. Questi diverse pratiche sindacali, in realtà, si sono fondate sulle effettive divisioni del lavoro.
La disorganizzazione del lavoro e il movimento operaio. Gli ultimi quindici anni hanno visto moltiplicarsi la stratificazione sociale e la divisione politica della classe lavoratrice (intendendo con stratificazione sociale l’articolazione di composizione e condizioni di lavoro, con divisione politica le diverse coscienze collettive che emergono da questa stratificazione). La classe lavoratrice italiana, in realtà, è stata storicamente attraversata da diverse grandi fratture che hanno segnato contraddizioni e scomposizioni nelle lotte di classe del paese: pensiamo a quella tra pubblici e privati, stabili e precari, operai e impiegati, realtà medio-grandi sindacalizzate e filiere diffuse polverizzate, nord e sud, autoctoni e migranti, ma anche a quella di genere. Queste fratture sono state gestite dalle sinistre politiche e sindacali con lo sviluppo di movimenti politici di massa, che pur fondati su specifici settori e segnati da particolari composizioni, si proponevano una ricomposizione del lavoro nelle prospettive, nei percorsi e nelle rivendicazioni. La realtà, certo, era più complessa e contraddittoria di quella che emerge da queste poche righe. Lo abbiamo visto nella polemica e negli scontri tra diverse prospettive politiche (riformiste, alternative e rivoluzionarie) che si articolavano nei diversi passaggi su diverse pratiche e obbiettivi: pensiamo, solo per evocare alcuni esempi, al riconoscimento professionale o agli aumenti uguali per tutti/e; alla scelta tra consigli e assemblee; alla rottura tra unità nazionale e assalto al cielo; alla politica dei sacrifici all’EUR e agli scioperi FLM del 1979; alla diatriba tra salute e occupazione al Petrolchimico di Marghera, all’Acna di Cengio, all’Ilva di Taranto; allo sciopero degli scrutini per aumenti generalizzati o alla valorizzazione degli insegnanti nel 1986/88; all’avvio della concertazione e all’autunno dei bulloni nel 1992/93. Lo abbiamo visto anche sul piano della dialettica tra le diverse soggettività collettive che popolavano il lavoro: pensiamo, sempre per evocare alcuni esempi stereotipati, alle asprezze tra operai professionali piemontesi e operai-massa meridionali, grandi fabbriche metalmeccaniche e insegnanti di scuola, dipendenti diretti ed esternalizzati nei petrolchimici, docenti e personale tecnico amministrativo nelle università, italiani e migranti africani nei distretti veneti. Però in tutte queste vicende, viveva il filo di un movimento operaio, nella sua pluralità e nelle sue polemiche: cioè viveva un’azione collettiva di queste diverse componenti, che si sentivano parte di una parte, in una prospettiva di progressiva riunificazione nella lotta per i propri comuni interessi e per una complessiva trasformazione sociale.
Oggi manca questo senso comune, oggi manca un movimento del lavoro. La frammentazione delle strategie di accumulazione del capitale, divaricata dalla Grande Crisi, poi dalla pandemia e infine dalla competizione di questi anni, ha frammentato le soggettività sociali del lavoro. La differenziazione dei processi produttivi nelle diverse realtà ha intrecciato le classiche linee di faglia della classe lavoratrice italiana con molteplici altre linee di frattura, definite da comparto, settore, luogo di lavoro, contratti, professionalità e anzianità. Si sono non solo moltiplicate le condizioni di lavoro, ma nelle diverse situazioni si definiscono diversi punti di frizione e quindi differenti conflitti con i datori di lavoro. I cicli di lotta allora si sono diversificati, sovrapposti e sfasati, focalizzandosi su diversi questioni (salario, orario, occupazione, aumento dei ritmi, durata del rapporto di lavoro, valorizzazione di posizione), con diverse forme e tempistiche. Questa stratificazione esita quindi in una moltitudine di soggettività, in cui è al momento smarrita l’identità collettiva del lavoro. Ho concretamente sperimentato questa situazione nei miei settori (vedi intervento alla scorsa AG CGIL). Nelle mobilitazioni del precariato universitario e della ricerca, muovendo da simili condizioni e dallo stesso innesco (il DDL Bernini/Meloni 1240), si sono costruiti percorsi paralleli e scarsamente comunicanti sia nelle forme (Precari uniti del CNR, Assemblee precarie universitarie e Stati di agitazione), sia nelle occasioni di mobilitazione, sia su certi aspetti nelle stesse rivendicazioni. Una dinamica non diversa dal caleidoscopio che sono oggi i movimenti dei precari della scuola, divisi non solo territorialmente e nelle rivendicazioni, ma anche rispetto all’anno di inserimento, il percorso formativo, le graduatorie di partenza. Una stratificazione di condizioni e soggettività in fondo accompagnata dall’ultimo rinnovo Istruzione e ricerca, che nel quadro di un unico contratto nazionale ha visto aumenti salariali differenziati per settore (vicino al 5% nella scuola, oltre il 6% nelle università, oltre il 10% nella ricerca), con diversi sistemi che hanno portato a diverse distribuzioni ed esigibilità nei diversi settori. Unire è allora difficile, convergere altrettanto. Questa non credo sia una situazione limitata al mio settore, se devo guardare anche solo alla classe operaia centrale dell’auto e della siderurgia: l’iniziativa sulla grande crisi FIAT e poi contro Marchionne è stata divisa stabilimento per stabilimento; le vertenze delle acciaierie, da Piombino a Genova, da Taranto a Terni, hanno avuto la stessa dinamica, persino dentro il grande gruppo dell’ex-Ilva).
Un tessuto di delegati/e scompaginato. In questa situazione, anche per questioni generazionali, si è progressivamente assottigliato quel tessuto sindacale diffuso di delegati e delegate che nei decenni passati ha organizzato grandi e medie fabbriche (metalmeccaniche, chimiche, alimentari e varie), ma anche altre realtà (Corsera di Milano e Padova, il Politecnico di Torino, la Statale di Milano o di Firenze, la Regione Lombardia, realtà autoferro e ferroviarie, i porti). Questo tessuto aveva sostenuto più cicli di conflittualità in questo paese, dalle assemblee del Lirico agli autoconvocati, dall’autunno dei bulloni al coordinamento RSU, dalla difesa dell’articolo 18 alla resistenza contro la Fornero. La reattività che si esprimeva nelle strutture sindacali e negli scioperi spontanei (in particolare nella cintura Torinese, nella pianura padana da Milano a Brescia, Bergamo, a Padova e Treviso, lungo la via Emilia e in alcuni nuclei toscani, nei gradi stabilimenti meridionali), si strutturava su un quadro sindacale diffuso che aveva una visione generale e reti di relazione oltre il proprio territorio o la propria categoria. Nel marzo 2020, quando partirono gli scioperi spontanei per la sicurezza all’inizio della pandemia, abbiamo forse visto una dinamica simile, sebbene su scala ridotta (Piemonte diffuso, Brescia, alcuni stabilimenti meridionali). Oggi l’innesco e la diffusione dei conflitti sono difficili, mentre alcuni cicli di lotta rimangono compartimentati. La stessa esperienza del sindacalismo di base si rivela sempre più scomposta non solo tra diverse organizzazioni e progetti, ma tra diversi territori e composizioni di classe, che faticano a trovare convergenze di prassi e percorsi prima ancora che momenti di mobilitazione unitari. Gli scioperi generali allora stentano. Le quaranta ore dei metalmeccanici, in questi mesi, si reggono soprattutto sui grandi gruppi sindacalizzati e faticano a svilupparsi anche solo nelle medie imprese diffuse del quarto capitalismo, che pure ha tassi di sindacalizzazione importanti. Nel pubblico impiego, anche quando convocati dai sindacati confederali, si fatica a raggiungere adesioni a due cifre. Nella pratica diffusa sembra perdersi la stessa capacità di individuare le fragilità dei processi produttivi. La resistenza diventa allora scomposta e la convergenza complicata, non solo nelle parole d’ordine ma anche negli stessi percorsi. Quando avviene, come lo scorso 29 novembre, è più per caso che per volontà, più occasione che cammino.
Il rischio di una pluralità di modelli categoriali e di una sopravvivenza sussidiaria. In un passaggio storico segnato da grandi ristrutturazioni, da contrapposizioni mondiali, da culture nazionaliste, dalla disorganizzazione del lavoro, dalla sconfitta referendaria e anche dall’inevitabile successione alla segreteria Landini (comunque destinata a chiudersi nei primi mesi del 2027, per l’esaurirsi degli otto anni del suo mandato), la possibilità è allora che si imponga progressivamente una strategia sindacale di sopravvivenza, , accompagnando nei fatti questa deriva senza contrastarla. Questo, io credo, è il rischio maggiore che abbiamo di fronte, perché si fonda su processi già in corso e in fondo risponde a logiche oramai assunte in alcuni settori dell’organizzazione. La CGIL, infatti, sta abituando a non vedere, non discutere, non affrontare i propri limiti e le proprie incapacità. In questi anni, prima ancora del risultato negativo dei referendum, non si è ammessa e quindi provato a superare sia l’impasse nelle mobilitazioni (i dati sugli scioperi e la loro occasionalità), sia la sconfitta della prospettiva concertativa, delle ipotesi di codeterminazione e della proposta di unità sindacale. Dalla Carta dei diritti ai Referendum, si è scartato, senza mai fare i conti con le proprie inconcludenze. I nodi però si sono aggrovigliati, sul piano dell’azione come su quello dell’organizzazione. La presa d’atto del pluralismo di modelli e pratiche categoriali, oggi, rischia allora di degradare il profilo di sindacato generale della CGIL, riducendola a un insieme di liberi e diversi sindacati (come si teorizzò, ad un certo punto, la CISL). Il prevalere di questa strategia di sopravvivenza nel più grande sindacato italiano difficilmente aprirebbe uno spazio per lo sviluppo di altre soggettività alternative, che dovrebbero ugualmente fare i conti con la disorganizzazione del lavoro e l’arretramento dei rapporti di forza. La scommessa del cosiddetto sindacalismo conflittuale di svilupparsi grazie alle progressive derive della CGIL è stata sostanzialmente già condotta e perduta nella stagione della concertazione, da una parte proprio per la sua difficoltà a porsi su un piano generale in grado di rivolgersi all’insieme del lavoro e non solo ai suoi strati più organizzati e combattivi, dall’altra perché i percorsi generali di espressione dell’autonomia di classe si sono proposti in movimenti di massa che hanno ricompreso ma di gran lunga superato i suoi perimetri (pensiamo solo, negli ultimi decenni, alle resistenze contro le persistenti controriforme delle pensioni, alla difesa dell’articolo 18, al movimento contro il concorsone di Berlinguer nella scuola, al contrasto agli accordi separati e al modello Marchionne, allo sciopero contro la Buona scuola, alle tante resistenze delle fabbriche in crisi). Il prevalere di questa strategia di sopravvivenza, di una molteplicità di modelli ognuno racchiuso nei suoi confini categoriali, avrebbe allora conseguenze che potrebbero essere rilevanti sulla stessa possibilità di tener aperti spazi significativi di conflittualità e di sviluppo dell’autonomia di classe tra lavoratori e lavoratrici.
D’altra parte, questa deriva sussidiaria non è un destino, ma solo un possibile punto di caduta degli attuali limiti e delle attuali tendenze. La CGIL, infatti, è un sindacato vasto, al cui interno proprio nella sua dimensione generale trovano spazio non solo diverse prassi sindacali, ma anche processi contradditori. Del resto, nei grandi sindacati che si fondano sugli interessi generali del lavoro e quindi guardano ad una prospettiva di trasformazione sociale, si tendono spesso a formare tendenze diverse, che rispondono ora a riflessi burocratici, ora a particolari strati professionali, ora a prospettive classiste e di trasformazione, ora a strategie riformiste di regolazione sociale. Il sindacalismo di base ha sbagliato a scommettere sulle derive CGIL, proprio perché spesso è stato incapace di leggere la sua complessità e contraddittorietà: l’adesione alle politiche di sacrifici e la svolta dell’EUR, ma anche la vertenza FLM del 1979, le iniziative dei cosiddetti palombari contro il decreto Scotti, gli autoconvocati; la pratica della concertazione ma anche la conferenza FIOM di Maratea, gli accordi separati e i precontratti, i 21 giorni di Melfi e la difesa dell’articolo 18; lo stretto rapporto con il centrosinistra, ma anche la partecipazione a Genova 2001 della FIOM; il sostegno all’alternanza scuola-lavoro, ma anche il referendum FLC del 2016. Allora, la storia e la molteplice tradizione della CGIL, la dinamica competitiva dell’attuale pluralismo sindacale (la ricerca di uno spazio diverso dalla scelta pienamente sussidiaria della CISL), il ritorno degli accordi separati nel pubblico e nelle poste, la scelta referendaria e l’attuale discussione nell’organizzazione sottolineano in qualche modo che il processo in corso è ancora indeterminato nei suoi esiti effettivi. Del resto, lo stesso gruppo dirigente confederale è spinto a difendere la dimensione confederale dell’azione sindacale, anche solo per tutelare il suo ruolo. Del resto, questa era esattamente la prospettiva che aveva proposto negli ultimi congressi della CGIL.
L’attuale segreteria era infatti stata eletta nel segno dell’unità sindacale e della codeterminazione. La contrasta elezione di Maurizio Landini nel 2019 si era infatti distinta, sin dalle conclusioni al congresso della Camera del lavoro di Milano, per questa prospettiva strategica. Da una parte la considerazione che la storica divisione tra CGIL, CISL e UIL avrebbe avuto ragioni politiche oramai superate dalla storia, mettendo quindi esplicitamente in campo l’ipotesi di un’unità sindacale organica (uno dei primi atti, infatti, fu la convocazione a Matera dei direttivi delle tre organizzazioni). Dall’altra l’apertura di un ragionamento sulla cosiddetta codeterminazione, la costruzione cioè di spazi di condivisione tra sindacati e management delle strategie aziendali in una stagione di ristrutturazioni, a cui si accompagnava la rivendicazione di una conquista salariale attraverso l’intervento politico (defiscalizzazione degli aumenti). Questa impostazione, in fondo, portava a conclusione la logica del Testo unico sulla rappresentanza del 2014 (allora contestato dalla FIOM in alcuni passaggi) e del successivo Patto di fabbrica, sostanzialmente sviluppato sul disastroso rinnovo metalmeccanico del 2016 (TEM e TEC, welfare aziendale, IPCA depurata dai costi energetici). L’impianto strategico della CGIL, cioè, per diversi anni ha ripreso la storica impostazione concertativa sostenuta anche dalla cosiddetta destra CGIL e, nei fatti, si è scontrata proprio con l’inattualità e l’impraticabilità di una prospettiva concertativa generale in questa stagione (sia sul fronte dell’avanzamento dell’unità sindacale, sia su quello dello sviluppo di politiche co-gestionarie con imprese e governo).
Oggi questa segreteria, con la campagna referendaria e la discussione successiva, indica una via d’uscita rappresentata da territorio e agitazione. Anche questa in realtà non è una novità. Sin dal discorso di Milano, questa segreteria aveva aperto anche un ragionamento parallelo. Proprio di fronte alla divaricazione delle prassi sindacali delle categorie e al loro progressivo autonomizzarsi, si era indicata proposto un sindacato di strada, capace di rapportarsi all’insieme del lavoro oltre le classiche divisioni settoriali.
La storia della CGIL, in realtà, è segnata da un rapporto complesso tra orizzontalità e verticalità: tra la struttura confederale e quella categoriale. Basti pensare alla riflessione degli anni Cinquanta (intorno e dopo la sconfitta alla FIAT), che focalizzò i limiti della centralizzazione organizzativa e contrattuale e decise una svolta, con la costruzione delle sezioni sindacali nei posti di lavoro e la contrattazione articolata (tra le altre cose, ad esempio fu notevole il bilancio critico del volume collettaneo Problemi del movimento sindacale in Italia 1943-1973, in particolare nelle ricostruzioni di Soave, Pepe, Pennacchi, Tobagi, Ricciardi, Garavini, Salvati, Romagnoli, Reyneri, Trentin, Pizzorno e Tronti). Nel 1989 e negli anni successivi la CGIL, con lo scioglimento delle componenti di partito, la revisione programmatica della sua impostazione, la teorizzazione del sindacato dei diritti e la definizione del modello concertativo, si è assestata su un modello a matrice tra confederazioni regionali e categorie nazionali (i cosiddetti centri regolatori, che supervisionano gestione delle strutture e formazione dei gruppi dirigenti, esprimendo al contempo paritariamente i delegati/e al congresso nazionale confederale). Questa impostazione matriciale comprende anche lo SPI, il sindacato pensionati, di fatto parificato alle altre categorie nonostante la sua impostazione generale e il suo peso effettivo (metà degli iscritti e notevoli risorse finanziare), che in realtà riduce al 25% con un patto di solidarietà attraverso cui vengono ceduti delegati/e e rappresentanze alle altre categorie. In realtà, nonostante il suo equilibrio formale, questa impostazione scricchiola da tempo, in relazione alla sostenibilità degli apparati, alla duplicazione delle funzioni tra i diversi livelli, alla divaricazione delle politiche sindacali che ogni struttura tende a riprodurre (sul piano categoriale, come abbiamo visto nelle politiche contrattuali, ma anche sul piano regionale, come evidente in tutto il confronto sull’autonomia differenziata o nei diversi comportamenti territoriali dell’organizzazione).
Un primo tentativo di revisione fu compiuto alla Conferenza di organizzazione del 2008. All’inizio della Grande crisi, quando le sue conseguenze sistemiche non era ancora chiare, ma era già evidente l’esaurirsi della strategia concertativa, il disastro del secondo governo Prodi e l’inizio della divergenza tra le categorie, praticamente alla vigilia dell’estensione dei contratti separati, dell’accordo-quadro del 2009, di Pomigliano e Marchionne. La CGIL usciva allora dal XV congresso, l’unico formalmente unitario negli ultimi trent’anni, e stava avviando la successione ad Epifani in un crescendo di tensioni (a partire dallo sciopero generale FIOM e FP del 13 febbraio 2009), anticipo di un XVI congresso (2010) che portò all’elezione di Susanna Camusso, contrastata da un ampio fronte (il documento alternativo La CGIL che vogliamo) che vide convergere esponenti della ex-componente socialista (Nicoletta Rocchi), della gestione Cofferati (Mauro Guzzonato e Maurigia Maulucci), di alcune categorie centriste (Podda in FP, Moccia in Fisac) e di alcune sinistre CGIL (il gruppo dirigente della FIOM di Rinaldini e la rete28aprile). La conferenza di organizzazione cerco di razionalizzare alcune semplificazioni categoriali degli anni precedenti (la fusione di CGIL Scuola e SNUR nella FLC; l’accorpamento dei chimici della Filcea, degli elettrici di Fnle e poi dei tessili della Filtea nella FILCTEM), le nuove politiche di genere (le quote, introdotte nel 2002 e rilanciate in tutta l’organizzazione nel 2006), sui giovani e i migranti. In quell’assise si posero temi che può essere interessante richiamare: il documento sottolineava infatti la necessità di una rinnovata confederalità dell’organizzazione, la centralità del nostro essere Sindacato Generale anche attraverso un necessario rinnovamento della Cgil, …con un forte intreccio fra confederazione e categorie attraverso un lavoro cooperativo e non di primato di una struttura verso un’altra struttura, ma finalizzato alla rappresentanza generale del mondo del lavoro… La confederalità è, dunque, una cultura che deve attraversare l’insieme delle strutture proprio al fine di salvaguardare il ruolo e la funzione di sindacato generale. In questa direzione, anche un’integrazione tra strutture confederali e di categoria sulle diverse materie potrebbe essere un utile strumento di riorganizzazione e razionalizzazione finalizzato anche a valorizzare le competenze esistenti. La conferenza, cioè, indicava il territorio quale luogo delle nostre radici storiche e della ricomposizione dei diritti di cittadinanza, segnalando che in coerenza con tali obiettivi diventava necessario spostare risorse economiche e decentrare i nostri quadri verso le strutture territoriali, dando tra l’altro rilievo al ruolo delle Camere del Lavoro in continuità con le loro funzioni originarie, ma anche le funzioni di strategia e direzione politica dei Regionali anche in virtù delle nuove funzioni costituzionalmente attribuite alle Regioni e l’importanza della definizione delle Città metropolitane. Nel quadro di una gestione unitaria, poi, veniva sottolineata la pratica del Sindacato di programma: il pluralismo delle idee è un bene per tutta l’organizzazione, va sostenuto e rispettato, anche per assicurare un terreno di discussione e rappresentazione democratica. Infine, il documento sottolineava l’importanza di valorizzare i luoghi di lavoro, da una parte con Rsu in grado di assumere sempre più anche una funzione confederale, accompagnata da una soggettività politica, andando oltre la sola azione di contrattazione aziendale, dall’altro con Assemblee e Comitati degli Iscritti da sostenere e rafforzare proprio perché strutture di base. La conferenza aprì una serie di ragionamenti, senza chiuderne di fatto quasi nessuno.
Il tentativo fu ripreso alla Conferenza di organizzazione del 2015. Questa si tenne dopo il complicato XVII congresso, segnato da due documenti contrapposti (il piccolo alternativo del Sindacatoaltracosa e quello dell’ampia maggioranza dell’organizzazione), ma anche dalla scontro tra Camusso e Landini all’interno del documento di maggioranza, sulla coalizione sociale e sul Testo unico, che esitò in una difficile conclusione dell’assise: il voto su tre liste contrapposte per gli organismi dirigenti, il mancato accordo sugli organi collaterali, la minaccia delle minoranze di abbandonare il congresso, l’appello dell’allora segretario regionale Vicenzo Colla a trovare l’accordo, la chiusura solo a sera (molte ore dopo l’orario previsto) con un voto unitario e la sostanziale rinuncia alle proprie ipotesi da parte della segreteria confederale. In un contesto segnato dall’aggressiva politica di disintermediazione di Matteo Renzi e dal dispiegamento delle divergenze contrattuali (CCNL con diversi periodi di vigenze, meccanismi salariali e impostazioni molto differenti tra i settori), Susanna Camusso impose un’assise irregimentata (platea, interventi e voti), in cui tentò di ampliare poteri e prerogative della confederazione. Da una parte Baseotto (allora organizzativo) sottolineò come il fulcro delle CGIL dovesse diventare la Camera del Lavoro Territoriale, intesa come insieme inscindibile del livello confederale, delle Categorie e del Sistema delle tutele individuali, …il primo punto di sintesi tra attività confederale e Categorie (in segreteria confederale due anni dopo entrarono direttamente due giovani segretari, Giuseppe Massafra da Taranto e Tania Scacchetti da Modena); dall’altra le delibere stabilirono un sistema di supervisione confederale dei bilanci, l’accorpamento funzionale tra categorie (funzionari ogni 750 iscritti, unendo territori ma anche strutture categoriali diverse, a geometrie variabili ma con uno schema nazionale predeterminato), l’alleggerimento dei regionali di categoria, l’istituzione delle Assemblee generali (almeno metà di componenti in produzione), la limitazione alle candidature alternative alle proposte dei centri regolatori (almeno 15% firme, decadenza dai ruoli). I risultati effettivi di questi conferenza, a distanza di quasi dieci anni, sono stati molto discutibili anche se mai discussi: al di là di una supervisione generale e dei semafori (la sostenibilità formale dei bilanci delle strutture), il confronto politico sui bilancio aggregato nei centri regolatori non mi sembra abbia mai preso piede, l’accorpamento funzionale è stata un’eccezione, di fatto solo le Assemblee generali hanno sostituito i Direttivi (con un livello di confronto e decisione che si è spesso spostato sul livello informale della riunione dei segretari generali).
Un terzo tentativo è stato condotto dall’Assemblea organizzativa del 2022. Dopo la complessa successione di Camusso (la spaccatura tutta interna alla maggioranza sulle candidature di Maurizio Landini e Vincenzo Colla, risolta solo nel corso dell’assise nazionale a Bari), l’Assemblea è stata chiamata per riprendere il percorso di quella precedente e declinare l’evocazione del sindacato di strada avanzata al XVIII congresso. La centralità delle Camera del lavoro territoriali affermata nel 2016 fu allora articolata su quattro aspetti principali, mettendo da parte gli schemi e le ipotesi di accorpamento e di funzionari trasversali: la centralizzazione della gestione di dati e tesseramento (in uno scontro anche aspro con alcuni regionali, che avevano propri sistemi e banche dati); il rinnovo di un sistema confederale di supervisione delle risorse (dopo anni di pratiche di solidarietà per ripianare costi centrali, rimasto comunque incompiuto per alcune categorie che sono inserite in sistema più ampi di risorse), l’affermazione della centralità della democrazia sindacale (voto RSU e contratti, ma maggior controllo dell’organizzazione sui delegati/e), l’indicazione di nuove organismi territoriali confederali (assemblee di delegati e delegate nelle camere del lavoro e nelle zone). Le schede della conferenza furono approvate a larga maggioranza, come le relative delibere, e quindi confermate al successivo XIX congresso, nel 2023, che ha ribadito gli assi politici di fondo dell’attuale segreteria (la codeterminazione e il sindacato di strada, ponendo in secondo piano un’unità sindacale complicata dalle rotture con la CISL ma tenuta in prospettiva, a partire dall’affermazione di RSU e verifica democratica di accordi e rappresentatività come terreno per tenere insieme il pluralismo sindacale). In realtà, però molte scelte sono rimaste sulla carta (dalle assemblee dei delegati all’implementazione generale delle RSU), poco è stato concretamente implementato o ha modificato le prassi dell’organizzazione. Un unico aspetto è stato sostanzialmente portato a termine: la centralizzazione dei dati del tesseramento e in generale dei dati in possesso all’organizzazione, con effetti ad oggi discutibili (a partire dalla possibilità di profilazione per offerte di specifici servizi o proposte commerciali). Del resto, limiti e problemi di quella discussione e di quelle proposte erano state sottolineate anche nel dibattito..
Ora, cosa sia esattamente il sindacato di strada non è molto chiaro allo scrivente, oltre la semplice evocazione di una pratica di maggior contatto con le persone e il territorio. Sono uno psicologo di comunità è nella vita mi è capitato di occuparmi di dipendenza, sia nella ricerca sia nelle attività di un Serd (allora, quando ci lavoravo, Sert, Servizio Tossicodipendenze). Mi è quindi abbastanza chiaro cosa si intende per lavoro di strada, il concetto che probabilmente è servito come modello di riferimento: un approccio di intervento sociale, educativo e sanitario a bassa soglia, cioè, volto a raggiungere le persone eliminando o comunque riducendo le soglie di ingresso ai servizi sia in relazione agli orari e luoghi, sia in relazione a chi non ha ancora maturato la consapevolezza o l’intenzione di rivolgervisi. Per questo doppio obbiettivo il lavoro di strada si svolge direttamente nei luoghi di vita e aggregazione delle persone, usando percorsi e tecniche volte alla costruzione di relazioni di fiducia, offrendo quindi ascolto, supporto e interventi specifici. Nel 2009 (come ricorda anche la Treccani) la FLAI ha creato un’esperienza del sindacato di strada (e la relativa denominazione) per entrare in contatto con le lavoratrici e i lavoratori agricoli (specialmente gli stranieri), «tutelarli e rappresentarli: un sindacato “mobile”, che ti cerca e ti raggiunge lì dove sei, uscendo dalla logica della sede sindacale “stanziale”, per superare le distanze, le difficoltà, le reticenze che spesso non permettono di avvicinarsi alle nostre sedi. uindi, se in Quindi, in linea generale, per sindacato di strada si intende un modo di essere che a fronte della frammentazione e precarizzazione del mercato del lavoro, mira a essere presente non soltanto in determinati luoghi di lavoro ma anche, in modo diffuso, nelle varie realtà territoriali: questo concetto generale, però, mi sembra che ad oggi non sia in realtà mai stato sviluppato nel dettaglio. Proprio sull’onda della campagna referendaria, mi sembra però che oggi si voglia spingere sul territorio e attraverso l’agitazione politico-sociale quello che non si riesce più a praticare nell’azione sindacale all’interno dei processi produttivi. Come la Rerum novarum ha spinto i preti ad uscire dalle sacrestie, si propone oggi la necessità di uscire dagli uffici della Camera del lavoro e da una sempre più difficile rappresentanza nei luoghi di lavoro, per rilanciare un’azione generale sul piano della trasformazione delle politiche di regolazione e delle relazioni sociali. Sembra, cioè, proporsi la costruzione di un rapporto costante con i 13 milioni di votanti, sviluppando iniziative nei mercati, con i comitati e le associazioni nei territori, per ritessere socialmente l’azione generale del sindacato.
Una proposta di sindacato di strada. Andrea Ranieri (negli anni Novanta segretario CGIL Liguria e poi della Federazione Formazione e Ricerca, struttura di raccordo tra categorie che ha preceduto la FLC) e Francesco Sinopoli (ex segretario FLC e ora Presidente della Fondazione Di Vittorio) hanno in queste settimane provato a razionalizzare questa proposta (Democrazia, lavoro e sindacato dopo i referendum), ritenendo il sindacato di strada indispensabile per rappresentare in maniera unitaria un mondo del lavoro sempre più frammentato. I referendum, nella loro lettura, sono stati sconfitti ma non sono stati vinti, perché hanno appunto mostrato la possibilità di ricomporre sul piano dell’azione politica generale quello che la prassi sindacale quotidiana tende a far divergere. Per questo, votare diventava un modo per ribellarsi allo stato di cose presente, portando la CGIL in contesti normalmente più lontani dal tradizionale agire del sindacato, dalle parrocchie all’associazionismo diffuso e al volontariato dei piccoli comuni, provando finalmente a realizzare, nei fatti, quel sindacato di strada che si era impegnata a essere nei suoi ultimi congressi, ricostruendo un nuovo senso di comunità e di militanza a partire dal territorio. Il sindacato di strada nella loro lettura, allora, è la costruzione di rete all’interno e la costruzione di rete all’esterno, affrontando finalmente la sconfitta storica del sindacato dei consigli e della stagione di protagonismo della classe lavoratrice del lungo Sessantanove. Quella sconfitta, per Sinopoli e Ranieri, è stata rimossa facendo venire meno la capacità del sindacato di situarsi correttamente nella trasformazione del sistema capitalistico, che a partire dalla svolta dell’Eur si è adattato all’idea che fosse l’ingresso nella stanza dei bottoni, cioè il governo del Paese la vera strada per governare le trasformazioni del capitalismo, portando ad una mera disponibilità alla moderazione salariale disancorata dalla forte domanda di democrazia e di potere che era presente in tante lotte sociali. Così, per anni non si sarebbe più riflettuto su quale forma dell’azione sindacale fosse davvero più adeguata a rappresentare il lavoro frammentato del nuovo sfruttamento. Oggi, allora, l’obbiettivo è quello di rafforzare il livello orizzontale delle Camere del lavoro e adottare una modalità che valorizzi l’agire in rete a vantaggio anche dell’azione collettiva nei luoghi di lavoro in cui convivono soggetti diversi, con delegati di sito e di filiera che trovino la loro collocazione e il loro coordinamento nelle Camere del lavoro. Il sindacato di strada, però, dovrà andare oltre una dimensione puramente lavoristica: le camere del lavoro dovranno essere la sede in cui naturalmente si confrontano col sindacato le associazioni e i comitati territoriali, i soggetti che sul territorio si battono per il diritto alla casa, e quelli che danno vita alle comunità energetiche. E nelle aree interne, e non solo, i giovani contadini che da soli o in forma associata si impegnano per una agricoltura biologica e il più possibile a chilometro zero e scoprono anche lì nuove possibilità di lavoro, la lotta per il salario minimo e l’iniziativa per un vero reddito di cittadinanza. Insomma, in questo contributo il sindacato di strada sembra quasi assumere i contorni di un alternativa strategica all’impasse della concertazione di questi anni, tratteggiando (forse) il salario globale come terreno di riconquista rispetto al salario diretto.
Questa proposta, però, mi appare approssimativa e non fondata sull’attuale organizzazione del lavoro. L’agitazione politico-sociale è generica, indistinta e appunto astratta dai rapporti produttivi, dal conflitto che si sviluppa nei processi di lavoro. L’attuale stratificazione delle condizioni e delle identità del lavoro rispecchia in realtà l’attuale disarticolazione dello stesso capitale nelle metropoli imperialiste di vecchio corso (diversamente dai paesi a recente sviluppo, che hanno ancora grandi concentrazioni operaie come alla Foxconn, o dai paesi semi-centrali e semi-periferici, segnati da ampie masse di proletariato recentemente urbanizzato, inoccupato o semioccupato). Questa compartimentazione della nostra classe lavoratrice corre lungo le linee di frattura dei processi produttivi e non penso sia possibile risolverla in un’astratta dimensione territoriale, che rischia di non fare i conti con le determinanti economiche, sociali e politiche che plasmano queste stratificazioni. Si rischia, cioè, di non considerare le diverse soggettività che popolano queste realtà e di non riuscire ad indicare un concreto campo rivendicativo o adeguati strumenti di rappresentanza. Per certi versi, sembra che si stia oggi ripercorrendo su scala più allargata la sperimentazione che alcuni settori del sindacalismo di base hanno affrontato quindici anni fa, a proposito del proletariato urbano come nuovo soggetto conflittuale, che ha ugualmente registrato limiti significativi proprio perché non ha colto complessità e disarticolazione del lavoro. La dico così: la mia impressione è che oggi si rischia di replicare sull’insieme dell’azione confederale l’esperienza FIOM della coalizione sociale di una decina di anni fa. L’aspirazione di allora era in interessante, perché cercava di tessere una convergenza nello sviluppo di movimenti di massa in grado di contrastare l’azione padronale e governativa di disintermediazione sociale, austerità e flessibilizzazione dei salari. La sua declinazione, però, avvenne esternamente ai rapporti di produzione e ai conflitti interni nei processi di lavoro. La scelta di Marchionne di allargare il modello Pomigliano non solo a Mirafiori, ma anche a Grugliasco (uno stabilimento in crisi e sindacalizzato dell’hinterland torinese, un bastione storico FIOM), rese evidente la difficoltà a reggere lo scontro nelle fabbriche. FCA allargò quindi quel modello a tutto il gruppo e la FIOM spostò il conflitto all’interno del perimetro produttivo, con la campagna Union, la coalizione sociale e le vertenze legali, aprendo anche un aspro scontro con propri delegati/e che continuarono a contrastare quel modello in azienda (Val di Sangro, Termoli e Melfi).
Facciamo un esempio concreto: il caleidoscopio del lavoro universitario. Come già ricordato, in quest’ultimo anno negli atenei italiani si è sviluppata una mobilitazione inedita dei precari della didattica e della ricerca (assegnisti, borsisti, ricercatori a tempo determinato, partecipata anche da molti dottorandi). Inedita perché questo soggetto, temporaneo, poco garantito, disperso e senza luoghi di rappresentanza collettiva, non ha quasi mai avuto la capacità di sviluppare movimenti: la lunga resistenza che una decina di anni fa ha portato a conquistare diritti come maternità e disoccupazione (DIS-COLL) e, successivamente, a contenere le figure atipiche (Dl 79/2022, istituzione del Contratto di ricerca), si è mossa con forme diverse, non potendo contare su mobilitazioni in grado di segnare le comunità universitarie. Questa nuova possibilità è stata data dal PNRR, che ha gonfiato i precari, portandoli oltre i 40.000 (circa 25mila assegnisti, 10mila Ricercatori a tempo determinato scaduti o in scadenza, alcune migliaia di borsisti e figure varie ed eventuali, come i docenti annuali a contratto). L’assemblea 90% del 25 ottobre a Sapienza, gli Stati di agitazione a Roma3 del 20 dicembre, l’assemblea nazionale precaria a Bologna del 7-8 febbraio, la giornata nazionale del 20 marzo e lo sciopero precario del 12 maggio hanno rivendicato la stabilizzazione e contrastato la reintroduzione e moltiplicazione delle figure atipiche, rendendo evidente la stratificazione del lavoro in università. Alle decine di migliaia di precari della didattica e della ricerca, si aggiungono infatti circa 57mila docenti di ruolo o in tenure (un contratto a tempo determinato con una stabilizzazione al termine), circa 52.000 tecnici amministrativi e bibliotecari (quasi tutti a tempo indeterminato), 1.500 collaboratori linguistici, un migliaio di tecnologi a tempo determinato, diverse migliaia di lavoratori e lavoratrici in appalto (non solo le classiche pulizie e la vigilanza privata, ma anche bibliotecari, informatici e servizi amministrativi specifici), a cui si aggiunge quella sorta di apprendistato ibrido con la formazione che è il dottorato di ricerca (oltre 45mila). Queste diverse componenti hanno rapporti di lavoro diversi (stato giuridico pubblicistico per il personale docente di ruolo; CCNL Istruzione e ricerca per il personale tecnico, amministrativo, bibliotecario e Cel; contratti individuali privatistici, normati da leggi e regolamenti, per il multiforme precariato docente e di ricerca, con tutele e rappresentanze molto diversificate; contratti nazionali privatistici, del commercio e dei servizi, per gli altri), forme di rappresentanza e identificazione differenti (sindacati e RSU; società e associazionismo; rappresentanti negli organi accademici, ecc), soggettivazioni disarticolate accompagnate da categorie diverse (FLC, FILCAMS, NIDIL, in alcuni casi FIOM). La FLC ha cercato in questo contesto di essere sindacato generale, sviluppando una difficile azione di analisi, intervento e rivendicazione in grado di tenere insieme le diverse soggettività (esemplificativa la proposta di piano straordinario di allargamento degli organici e stabilizzazione), proponendosi di sviluppare una progressiva convergenza in grado di ribaltare le politiche che hanno prodotto questa stratificazione del lavoro universitario (il sottofinanziamento di sistema, l’autonomia competitiva degli atenei, il DL 49/2012 che spinge a ridurre il lavoro diretto negli atenei, la moltiplicazione delle figure e la loro riconduzione a regolamenti di ateneo).
Come sarebbe il sindacato di strada in questa realtà? Nell’ottica dell’agire in rete a vantaggio anche dell’azione collettiva nei luoghi di lavoro in cui convivono soggetti diversi, l’impostazione del sindacato di strada come l’abbiamo prima richiamata nelle università andrebbe probabilmente a sviluppare un’organizzazione focalizzata su delegati di sito e di filiera che trovino la loro collocazione e il loro coordinamento nelle Camere del lavoro. Lo sforzo, cioè, sarebbe quello di costruire strutture e rappresentanze in grado di tenere insieme le diverse soggettività del lavoro, sviluppando un’agitazione sociale oltre una dimensione puramente lavoristica, portando comitati, associazioni, studenti, realtà del territorio a sviluppare un’azione congiunta per conquistare diritti o salario per l’insieme di queste figure. Bene, anzi benissimo. Però, proprio perché il luogo della ricomposizione è individuato nel territorio e nella Camera del lavoro, la dimensione della ricomposizione vedrebbe probabilmente prevalere dinamiche, rivendicazioni e controparti territoriali. Così, invece di affrontare il problema di modificare le politiche universitarie ed i rapporti gerarchici interni all’organizzazione del sistema universitario nazionale, questa struttura sindacale sarebbe forse portata più facilmente a sviluppare contrattazioni di ateneo e contrattazioni sociali di territorio (ad esempio l’intervento di Regione, Comune, Fondazioni bancarie o altro per ridurre i divari di condizioni, attraverso integrazioni ai fondi di ricerca, trasporti gratuiti o convenzionati, edilizia agevolata, welfare integrativo). Queste conquiste, però, lungi da intaccare le fratture strutturali tra le diverse condizioni (originate da normative, contratti, gerarchi e strutture nazionali di riferimento), si intreccerebbero ad esse allargando fratture territoriali già molto evidenti nella realtà universitaria (non solo i diversi livelli di servizio tra un ateneo e un altro, ma anche più direttamente i diversi salari integrati, i diversi livelli di welfare, le diverse possibilità di carriera che esistono negli atenei). La ricomposizione sociale e territoriale che si astrae dai rapporti interni ai processi di lavoro, che si costruisce su una dimensione politica e sociale senza fare i conti con rivendicazioni, conflitti e ricomposizioni nel lavoro, rischia allora di moltiplicare le stratificazioni stesse del lavoro, allentando la dimensione nazionale della contrattazione e della prassi sindacale. Questo ovviamente è solo un esempio, parziale ed astratto, relativo ad un contesto particolare come quello dell’università: credo, però, che in qualche modo possa essere esemplificativo di dinamiche sociali e sindacali comuni anche ad altre realtà, dalle fabbriche ai servizi. Il problema dell’equilibrio tra dimensione categoriale e dimensione confederale dell’azione sindacale, cioè, non è poi così semplice.
Un terzo punto di vista, un punto di vista di classe. Questo dibattito per certi versi attraversa l’ultimo decennio, come abbiamo visto, ma per altri versi è oggi precipitato dall’esperienza referendaria e anche dalla sua sconfitta. Nella prossima discussione, programmatica od organizzativa, emergono con abbastanza chiarezza due diversi punti di vista: li possiamo sintetizzare così, un sindacalismo sussidiario fondato su una pluralità di modelli categoriali; il sindacalismo di strada. Io credo sia utile stare in questo dibattito con un nostro punto di vista. Lo ha in qualche modo indicato la relazione di Eliana Como, lo ha sottolineato anche l’intervento di Adriano Sgrò. Il punto, io credo, non è tanto quello di spostare a sinistra l’asse della CGIL, influire oggi sulle prassi o le politiche della maggioranza dell’organizzazione. Da una parte, questo sarebbe un obbiettivo al di là dei rapporti di forza per un’area con le nostre dimensioni. Dall’altra, le inerzie e le derive sussidiarie sono una componente inevitabile in un sindacato generale come la CGIL: possono essere più o meno contenute, difficilmente eliminate. Il nostro obbiettivo, allora, credo debba essere quello di far vivere, sostenere e sviluppare, percorsi che diano voce agli interessi collettivi del lavoro contrapposti agli interessi collettivi del capitale, facendo vivere quel conflitto di classe dal quale possono originare processi di trasformazione sociale più complessivi. Queste esperienze hanno più facilmente la possibilità di assumere un punto di vista generale del lavoro stando in un sindacato generale, ma vivono e si sviluppano soprattutto nei cicli di lotta e nei conflitti di lavoratori e lavoratrici, nelle loro dinamiche di massa e nei loro percorsi di auto-organizzazione. Per questo un’area classista, conflittuale e democratica come la nostra è importante che si organizzi negli spazi congressuali e democratici della discussione sindacale, ma anche e forse soprattutto nell’agire sindacale nei luoghi di lavoro, nei territori e nelle mobilitazioni sociali. In questi tempi particolari, , di fronte ad una stagione di contrapposizione capitalistica che sostiene prassi sindacali sussidiarie, di fronte ad una destra sindacale che accompagna queste tendenze nelle moltiplicazione dei modelli sindacali e un’attuale segretaria confederale che propone un agitazionismo politico-sociale a livello territoriale, estratto ed astratto dai rapporti di produzione, noi dobbiamo provare proporre un diverso punto di vista, noi dobbiamo provare a tenere aperto uno spazio che rivendichi l’autonomia della classe lavoratrice.
L’autonomia della classe lavoratrice nei confronti del processo produttivo del valore (lavoro e non forza lavoro). Nel confronto odierno, cioè, io penso che noi dobbiamo sostenere la necessità di sviluppare l’organizzazione nei luoghi del lavoro e di agire in un’ottica generale, confederale, riportando a coordinare strutturalmente le nostre politiche contrattuali e categoriali. Dobbiamo proporre un sindacalismo capace di coalizzare la moltitudine del lavoro, rimettendo progressivamente in rete le diverse soggettività del lavoro nei conflitti che avvengono lungo le complesse filiere e gli articolati processi produttivi della società contemporanea. Per molti versi, dobbiamo partire dalla domanda e dall’azione di convergenza da cui è partito il Collettivo di Fabbrica GKN quando si è organizzato in fabbrica (delegati/e di reparto oltre la RSU) e quando ha organizzato la resistenza al processo di dismissione (e tu come stai?). Dobbiamo allora criticare sia la moltiplicazione dei modelli sindacali a livello categoriale, sia l’ipotesi di risolverne l’impasse e le divergenze in un’azione territoriale centrata sulle Camere del lavoro. Questo, io credo, possiamo farlo in due direzioni. Da una parte recuperare riflessioni e proposte sulla democrazia sindacale (dal voto referendario all’elezione dei delegati/e, del resto patrimonio delle sinistre sindacali da sempre), spogliandole però dagli elementi di verticalizzazione presenti nel Testo unico del 2014, nelle pratiche FIOM degli ultimi anni e nell’assemblea organizzativa del 2022. Io credo dobbiamo in qualche modo riscoprire ed attualizzare l’esperienza delle sezioni sindacali, riportando su di esse risorse e poteri, facendole vivere nelle dimensione confederale della pluralità categoriali con cui oggi si caratterizza il mondo del lavoro. Dall’altra parte, dobbiamo sottolineare il ruolo del pluralismo programmatico della CGIL (del resto, uno dei punti presenti nella Conferenza di organizzazione del 2008 e poi abbandonato), contrastando la logica della democrazia delle strutture e del pluralismo dei modelli sindacali categoriali, ponendo l’obbiettivo del confronto programmatico e di far convergere prassi e percorsi sindacali nelle diverse categorie. Quindi, come è stato proposto, fari vivere questo punto di vista nel confronto dei prossimi mesi anche con un testo scritto, che agilmente ma in modo articolato riesca a delineare questa diversa prospettiva.
Qui però dobbiamo dirci anche alcune parole tra noi. In primo luogo, certo, affrontate la logica intergruppo che ancora ci contraddistingue, la differenza e forse anche la contrapposizione tra le culture delle diverse aree che ci hanno preceduto (RiconquistiamoTutto e DemocraziaeLavoro). Lo hanno ricordato sia la relazione, sia diversi interventi. Questo però non è l’unico limite che abbiamo. C’è anche quello di un’estrema divaricazione delle prassi sindacali che ha attraversato noi come ha attraversato l’insieme della Cgil. Il problema non è tanto questa o quella posizione che abbiamo assunto in questa o quella categoria, sui rinnovi o le politiche sindacali. Il problema è che non ne abbiamo avuto la capacità di discuterne. Anche dentro di noi abbiamo replicato prassi sindacali divergenti, rispecchiando le divergenze contrattuali della CGIL. Però, non è esattamente vero che non c’è stata trasparenza su questi problemi e queste differenze, come sostenuto da alcuni. Lo scorso anno abbiamo fatto un’assemblea nazionale a Livorno, in cui si sono esplicitamente confrontati punti di vista ed ipotesi diverse. Alcuni e alcune hanno detto chiaramente che secondo loro la funzione dell’area si era sostanzialmente esaurita, avevamo limiti evidenti nell’organizzarci e soprattutto c’era la necessità di andare oltre noi per riuscire a pesare nell’organizzazione e a spostarla a sinistra. Altri e altre, tra cui il sottoscritto, hanno al contrario sottolineato la necessità di sviluppare una convergenza a partire proprio dal terreno contrattuale e dalle prassi sindacali, che sono il cuore della nostra azione. Altri ancora hanno proposto punti di vista critici sull’intero percorso dell’area, come sottolineato sin dalla sua nascita. Abbiamo poi (quasi tutti) votato un documento che doveva darci un percorso comune, ma quel documento è rimasto sostanzialmente lettera morta, perché comportamenti e prassi sono rimasti divaricati. Di più, l’esecutivo è stato incapace di uscire da blocchi e reciproci veti, portando così all’assenza di indicazioni ma anche di spazi di ulteriore discussione.
Io credo che proprio questo lungo anno abbia dato ragione a chi sosteneva a Livorno l’importanza di mantenere uno nostro punto di vista. Lo abbiamo misurato nella scelta referendaria e nella campagna che si è sviluppata, lo abbiamo visto nelle politiche contrattuali divergenti di questi mesi, lo abbiamo confermato nella scelta CGIL di stare a Piazza del popolo lo scorso 15 marzo (partecipare senza aderire) e la nostra indicazione differente. La stagione di contrapposizione internazionale riporta in campo il riarmo europeo e anche politiche nazionaliste a livello continentale e anche la CGIL si mostra attraversata da tensioni e titubanze sulla questione. Proprio in questi mesi, allora, abbiamo visto l’utilità e la funzione di avere un nostro punto di vista alternativo, collettivo e organizzato. Non solo per noi, per orientarci in queste vicende, ma anche per settori della CGIL e del lavoro, per le dinamiche di convergenza e di movimento più complessive (penso alla piazza alternativa del 15 marzo, alle mobilitazioni sul ddl sicurezza, al corteo del 21 giugno). La credibilità, l’ascolto, l’autorevolezza nostra è cresciuta, proprio perché abbiamo mantenuto questo punto di vista autonomo.
Allora, per chiudere, io credo che oggi si confermi una nostra funzione, anche in questo confronto in CGIL. Io credo oggi abbiamo un’altra occasione di riprendere e sviluppare il nostro percorso, se non altro perché siamo costretti dalla dinamica delle cose a riflettere su strategie, prassi e percorsi sindacali. Noi oggi dobbiamo fare il tentativo di costruire un nostro punto di vista, classista, conflittuale e democratico, e dobbiamo provare a farlo insieme collettivamente, non solo nell’Esecutivo, ma soprattutto nel coordinamento nazionale, nei territori e nelle categorie. Per questo io ritengo imprescindibile rivederci a settembre e tessere questo ragionamento nei territori e nelle categorie. Ogni stagione interessante è una stagione di tragedie e sofferenza, ma è anche occasione di cambiamento, se si colgono queste occasioni e se lo si fa collettivamente, evitando di rinchiudersi o di riprodurre coazioni a ripetere. Apriamo allora il confronto e la discussione con questo coordinamento nazionale, ritessiamo uno spazio di autonomia, ricostruiamo un cammino comune.
Luca Scacchi