L’invasione russa dell’Ucraina è stato il risultato della progressiva maturazione delle tensioni inter-imperialistiche dopo la Grande Crisi e, allo stesso tempo, un fattore di avvio di una nuova stagione di imperialismo di attrito, nella quale si organizzano le società, si tessono aree di influenza e si costruiscono blocchi in funzione della possibile Grande guerra futura.
Così, nell’ultimo decennio, sospinti dalla competizione e dai riassetti della recessione 2009, si sono sviluppati l’allargamento NATO ad oriente, la Belt and Road Initiative cinese, lo scontro commerciale tra USA e Cina, la tessitura delle contrapposte Trans Pacific Partnership (intorno agli USA) e Regional Comprehensive Economic Partnership (intorno alla Cina); l’Aukus e l’asse indo-pacifico, l’allargamento progressivo dell’Organizzazione di Shangai. Euromaidan e la guerra del Donbass hanno aperto un cuneo nella strategia tedesca di sviluppo di una piattaforma euroasiatica (Nordstream e ferrovia sino-europea), spingendo la Russia verso la Cina (accordi del 2014 sui gasdotti) e mettendo sotto tensione la sua struttura capitalista (rilanciata dai primi anni duemila intorno a grandi conglomerati parastatali di materie prime e dei residui dell’apparato militar industriale sovietico). La volontà di potenza coagulata nel regime di Putin ha creduto di cogliere nella nuova assertività cinese, nelle contraddizioni europee e nelle sconfitte USA (fuga da Kabul) l’occasione per ribaltare sul piano militare il suo progressivo confinamento nell’area asiatica. Sbagliando clamorosamente i conti e rilanciando questa tendenza.
Così, negli ultimi mesi si sono stravolti assetti che sembravano immutabili: i sorprendenti disallineamenti sulle sanzioni (confinate all’asse atlantico e suoi strettissimi alleati in Asia orientale, mentre non le hanno applicate il Sudamerica, compresi Messico e Cile; l’India e l’intero mondo arabo); l’accordo tra Teheran e Arabia Saudita a Pechino; i golpe nel Sahel (Ciad, Mali, Burkina-Fasu, Sudan, Niger), a cui si è recentemente aggiunto il Gabon, con un profilo antifrancese sempre più evidente; l’ipotesi di un corridoio infrastrutturale e commerciale tra India, Arabia Saudita e Israele; l’inaspettato allargamento dei BRICS [Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica] ad Argentina, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Iran, Egitto ed Etiopia. Al di là della spaccatura tra un’asse atlantico [USA-UE] ed uno orientale [Russia-Cina], enfatizzato e in qualche modo cristallizzato dalla guerra Ucraina, si stanno tessendo i fili e scavando linee di frattura tra opposti campi e militarismi che segneranno i prossimi decenni.

Questo è il contesto storico e politico nel quale si colloca il 7 ottobre l’improvviso e sorprendente sfondamento della barriera intorno alla striscia di Gaza: sotto l’ombrello di un esteso lancio di missili, un attacco in profondità di reparti di Hamas è stato capace tra l’altro di distruggere il compound del Comando Israeliano meridionale (che sovraintende tutta l’area di Gaza) e di uccidere un inedito numero militari israeliani [tra cui, come risulta dal Jerusalem Post, almeno 1 generale, 3 colonnelli, 7 maggiori, 5 capitani e una decina di tenenti, un centinaio di soldati tra cui molto sottoufficiali, più di una trentina di poliziotti tra cui molti di reparti speciali e tre officer dello Shin Bet]. Insieme a questi obbiettivi militari, però, si è sviluppato l’attacco ad oltre 20 tra kibbutz, città e paesi, oltre ad un rave party, catturando più di un centinaio di israeliani (forse 200)) e facendo oltre 1300 vittime [il numero di gran lunga più alto di morti israeliani in un giorno], con diversi massacri di civili indifesi [Sderot, Kfar Aza, Be’eri, Nir Oz, Nova Festival]. Un attacco che, al di là dello shock nella società israeliana (le cui conseguenze saranno da valutare nel lungo periodo), ha prodotto un’immediata reazione di bombardamenti indiscriminati, anche con bombe al fosforo (oltre 1200 civili morti al 12 ottobre, quasi 2.400 alla fine del weekend, tra cui 50 ad un mercato, 11 componenti staff ONU e 30 allievi Unrwa, 80 bambini), l’attacco agli aeroporti di Damasco e Aleppo, lo sfollamento di un milione di palestinesi intorno a Gaza City (con in relativi incubi su nuovi esodi di massa) e una probabile prossima invasione della Striscia (con ipotesi di nuove aree di interposizione, occupazioni o amministrazioni controllate di lunga durata).

In questi giorni abbiamo visto le valutazioni più disparate nella sinistra italiana e anche nelle sinistre internazionaliste di questo paese.
C’è chi è sceso in piazza gridando ORA PACE, condannando il terrorismo di Hamas e chiedendo che si liberino gli ostaggi, senza nulla dire nel manifesto sull’oppressione nei territori occupati o i bombardamenti selvaggi di Gaza in questi giorni, appellandosi nel documento di convocazione al Consiglio di Sicurezza ONU e alla soluzione dei due popoli due Stati. Una posizione comunicativamente schierata a fianco di Israele, senza nulla dire delle politiche di occupazione e della prigione a cielo aperto di Gaza, con una proposta di intervento delle diplomazie senza senso in una stagione di imperialismo di attrito ed una strategia, quella dei due Stati, che in un mercato mondiale gerarchizzato non può che inverarsi in pratiche e rapporti neocoloniali (come del resto avvenuto con l’ANP).
C’è chi ritiene che questa azione rappresenti un’imponente e spettacolare rivolta palestinese, una nuova Intifada (più o meno di massa) condotta unitariamente dalle forze palestinesi della Striscia, capace di evadere dalla prigione di Gaza per prorompere militarmente nelle colonie israeliane e restituire un po’ di terrore all’occupante sionista. Cioè, c’è chi la ritiene in qualche modo una grande lezione che ancora una volta i resistenti palestinesi hanno dato a tutti gli oppressi del mondo, lottando con tutte le armi a loro disposizione. Questa posizione riconosce giustamente la condizione di oppressione del popolo palestinese e il suo diritto di resistenza, ma sembra non cogliere che non siamo in presenza di un Intifada popolare, che non esiste un fronte palestinese unitario ma soprattutto che l’attuale egemonia politica e militare sia in mano ad Hamas, che ha appunto condotto un’azione militare funzionale al suo progetto politico nazionalista ed integralista.
C’è chi sostiene che in una stagione di crisi dell’ordine internazionale, ogni punto di attrito tende ad infiammarsi, per mano di un nazionalismo borghese che però non può rivestire alcun ruolo progressivo, subordinando le proprie classi lavoratrici alle logiche spartitorie che si stanno tessendo a livello mondiale. Per questo in ogni conflitto sarebbe necessario assumere una posizione disfattista, in Ucraina come nelle vicende israelo-palestinesi. Questa posizione coglie un punto [il ruolo dei mercati mondiali e dell’imperialismo contemporaneo, capace di sussumere l’insieme dei rapporti sociali], ma nel contempo prescinde proprio dall’articolazione gerarchica della divisione internazionale del capitale e del lavoro: proprio questa gerarchia riproduce infatti anche oggi dinamiche di oppressione (forme neoschiavistiche, sopraffazioni di genere, nazionali o religiose), che sono funzionalizzate nel quadro dei moderni imperialismi con proprie specificità.

Questa guerra, come tutte, contiene diversi conflitti. Ad esempio, lungi da sostenere ricostruzioni complottiste, talvolta vicine al ridicolo [dal ruolo del gruppo Wagner alla diretta regia iraniana sulle azioni militari palestinesi, sino al non potevano non sapere riferiti ai servizi israeliani, a cui quindi si attribuisce un ruolo da registi per favorire l’invasione di Gaza], è comunque evidente un ruolo ed un’influenza delle maggiori potenze mondiali sulle dinamiche politiche e militari di tutta l’area araba e mediorientale. Così, nei supporti militari ed economici sono evidenti le dinamiche competitive tra le potenze regionali (Israele, Turchia, Arabia, Iran), con schieramenti qualche volta anche sorprendenti (per esempio il maggior finanziatore di Hamas era l’Egitto dei Fratelli Musulmani, per molti anni e sostanzialmente anche ora è stato il Qatar, mentre l’Iran ha offerto aiuti ma si è anche trovato in diretto scontro militare durante la guerra civile siriana). Così, sono anche palesi i diretti interventi imperialisti (il tentativo della Cina di costruire un equilibrio tra Iran e Arabia, l’ipotesi USA di un corridoio indo-mediterraneo attraverso Arabia e Israele, la presenza russa in Siria, ecc). Il punto è capire quali sono, allo stato e nella dinamica, i pesi delle diverse componenti e quindi delle tendenze che si impongono nel conflitto. Come sempre, non cadere in facili entusiasmi o profonde disperazioni, Né ridere, né piangere, ma capire. In questo quadro, è utile tenere in considerazione diversi elementi.

Lo stato sionista e la resistenza palestinese. La costruzione di Israele come stato ebraico sin dal 1948, pur in un quadro costituzionale irrisolto e con ampi spazi di ambiguità, ha aperto nel processo di decolonizzazione dell’area araba e mediorientale la questione palestinese [come, in un quadro diverso e parallelo, l’emergere dei nuovi stati in Nordafrica e Medioriente ha determinato lo smembramento delle identità kurde e di quelle berbere]. Il rapido sviluppo capitalista israeliano sostenuto dalla diaspora, dall’ok ha-shvūt [il diritto al ritorno] e dall’ombrello imperialista (francese prima e statunitense poi) ha esacerbato questa oppressione nazionale rispetto ad una formazione sociale periferica, organizzandola nel paese con una sorta di cittadinanza di secondo livello e poi nei confronti della maggioranza della popolazione palestinese con l’indefinito status dei Territori Occupati. Il consolidamento e poi lo sviluppo del paese nel circuito capitalista è quindi avvenuto sul versante della sicurezza e dell’IT, con un progressivo passaggio in secondo piano dell’impostazione politico-ideologica laburista. La nuova e significativa immigrazione dai paesi ex-sovietici, la crescita della destra nazionalista e del fondamentalismo religioso, il progressivo differenziarsi dei tassi demografici tra i gruppi ebraici e quelli palestinesi (dovuti anche al diverso gradiente socioeconomico) hanno radicalizzato negli ultimi decenni quell’impostazione iniziale, rendendo ancor più significative le gerarchie etniche del paese e imponendo dinamiche autoritarie anche nella stessa società ebraica.

La deriva reazionaria israeliana e le sue fratture sociali. Infatti, proprio il progressivo polarizzarsi delle gerarchie nazionali che attraversano questa composita formazione sociale, nel quadro delle ambiguità fondative di Israele e dei Territori, ha prima prodotto il crollo della sinistra antisionista [piccola, ma con una certa influenza politico-culturale, come mostra l’esperienza di Matzpen, di cui pubblichiamo qui un’interessante dichiarazione del 1967] e poi determinato il rapido tramonto di un movimento pacifista che non ha mai affrontato fino in fondo i nodi etnici del paese [anche per il ruolo della sinistra sionista del Mapam, a lungo al governo, e poi di Meretz]. Dagli anni Novanta la destra ha quindi trovato una sua nuova e crescente base di massa, sia nell’immigrazione dai paesi sovietici sia nella crescita di nuove forme di integralismo religioso. Questa dinamica ha aperto fratture nella stessa società ebraica, ben oltre i gruppi storici di matrice mitteleuropea (ashkenazita), africana e mediorientale (sefardita) o particolare (come drusi, falascià etiopi, ecc): si è così imposta una divergenza sempre più profonda negli stili di vita e nelle identità collettive tra i settori laici progressisti, la nuova emigrazione conservatrice, i coloni nazionalisti, i fondamentalisti ebraici, nel quadro di una crescente militarizzazione neocoloniale della società e di una deriva politica reazionaria sotto l’egida neoclientelare di Benjamin Netanyahu.

La burocratizzazione capitalista dell’ANP. Parallelamente, negli anni Ottanta l’indipendentismo dell’OLP e di Al-Fatah ha conosciuto una sconfitta militare nella guerra civile libanese, seguita dall’etnicizzazione di quel conflitto su un versante religioso, l’emersione del saliente sciita sulla spinta della Rivoluzione Iraniana e lo sviluppo di Hezbollah come principale forza antisionista. Il ceto politico dell’emigrazione, sull’onda di un Intifada popolare nei territori Occupati largamente autorganizzata ma politicamente poco strutturata, ha colto l’occasione della sconfitta sovietica e dei nuovi scenari della prima guerra irakena per riciclarsi come borghesia compradora e collaborazionista nella logica della pace di Oslo. I due Stati non sono quindi mai potuti nascere, perché nel quadro delle gerarchie capitalistiche dei mercati mondiali e del Washington Consensus, l’Autorità Palestinese è stata concepita sin dall’inizio come struttura frammentata, subordinata ad Israele ed agli indispensabili sostegni USA, UE e soprattutto delle monarchie del Golfo (nell’emergente logica di contrapposizione sul saliente sciita/sunnita del mondo islamico).

La strategia di Hamas. Così, mentre l’ANP si è atrofizzata in logiche affaristiche deteriori, guidata da una gerontocrazia distante da una delle popolazioni più giovani e prolifiche del pianeta, anche nella plurale ed effervescente società palestinese si è sviluppato un movimento islamista, sostenuto nei suoi primi passi dai servizi israeliani e poi soprattutto dalle Petromonarchie, anche per togliere spazio politico e tagliare le gambe sociali ai settori autorganizzati, popolari e progressisti cresciuti nell’Intifada. Questo movimento reazionario, come in altre parti del mondo, usa sempre più la dimensione religiosa integralista come nuovo collante comunitario per sostenere interessi nazionalistici borghesi (basti pensare a Modi in India, a Erdogan in Turchia al PIS in Polonia, al ruolo delle chiese evangeliche con Trump e Bolsonaro, ecc). Questo movimento reazionario è centrato sulla piccola borghesia commerciale, professionale e dei servizi [su cui si è imbastita la prima struttura politica e la prima dirigenza di Hamas], ha sviluppato una sua presa sociale in una società destrutturata, giovane e ad alta disoccupazione come quella palestinese e anche una pratica politica centrata sul controllo della forza e l’uso della violenza (in stile fascista, attraverso le sue milizie armate). Hamas, nel contempo, ha portato avanti un’azione antisionista concorrente a quella sciita di Hezbollah [arrivando ad un’aperta contrapposizione nella guerra civile siriana], con una strategia politica e militare integralista e ultranazionalista, volta a scavare un solco invalicabile con Israele, etnico e sociale, che militarizza e inquadra l’intera società palestinese dietro la sua direzione borghese. In questo quadro si colloca l’uso degli attentati terroristi verso la popolazione, importato nella regione negli anni Quaranta con lo stesso scopo (e opposto campo) dall’Irgun e dalla Banda Stern, poi assunta anche dall’Haganah per sospingere l’esodo palestinese [vedi le ricostruzioni degli israeliani Benny Morris e Ilan Pappe sul 1947/48]. Sia la logica degli attentati, sia la strategia dei massacri messi in campo il 7 ottobre, sono cioè funzionali a dividere irrimediabilmente le popolazioni secondo linee nazionali e non di classe, da una parte creando la mitologia del gruppo militare feroce ed efficiente (come appunto fu per Irgun, Stern e Haganah), dall’altra sottolineando le fragilità e le paure della popolazione avversaria.

In questo quadro complesso, allora, la componente religiosa e quella inter-imperialista non sono secondarie nell’attuale conflitto israelo-palestinese: la prima non solo in relazione alle identità nazionali in gioco, ma anche alle contrapposizioni interne al mondo islamico; la seconda, in parte intrecciata alla prima, emerge nella lunga tessitura di diverse aree di influenza nella regione, in cui sono presenti importanti distaccamenti militari atlantici e russi, come evidenti interessi cinesi (sottolineati dal recente tentativo di definire un nuovo equilibrio tra Teheran e Riyad).

Non sono secondarie, ma non sono dominanti. La consolidata gerarchia etnica nella formazione sociale complessa di Israele e dei Territori, la costruzione nell’ultimo ventennio di una gabbia a cielo aperto a Gaza [37 km di lunghezza per 2 di larghezza, con 2 milioni di abitanti], come in Cisgiordania e nella segmentazione dello stesso Israele, sono la determinante essenziale che non solo forgia le derive ultranazionaliste dell’attuale conflitto, ma innesca la rabbia e la disperazioni delle scelte terroriste e delle tattiche da guerra totale.

Il sostengo all’autodeterminazione e al diritto di resistenza palestinese, quindi, deve esser comunque convinto, proprio perché origina da una condizione consolidata di oppressione sociale. Questo sostegno, però, si deve combinare ad una esplicita contrapposizione politica ad Hamas, il suo progetto e la sua strategia militare, come ad ogni ipotesi integralista di semplice distruzione di Israele ed eliminazione di una popolazione ebraica, oramai presente da tre generazioni nel paese. Come già delineava Metzpen nel 1967, bisogna riportare in primo piano le contraddizioni ed i conflitti di classe che attraversano tutte le popolazioni dell’area, riconoscere l’autodeterminazione palestinese e portare avanti una de-sionizzazione di Israele. Un’impostazione, cioè, che non può fare a meno di mettere in discussione in entrambe le popolazioni i rapporti sociali dominanti e le gerarchie internazionali esistenti, nel quadro di un progetto politico socialista.

Indipendenza di classe e rivoluzione permanente. Si ribadisce, cioè, anche in questo specifico contesto l’impostazione di fondo dei comunisti rivoluzionari. Non solo l’insegnamento fondamentale che Marx e Engels traggono dalla propria esperienza rivoluzionaria sull’importanza dell’indipendenza politica della classe lavoratrice da ogni strategia nazionalista [Indirizzo al CC della Lega dei comunisti, 1850], ma anche l’importanza di portare avanti con rigore e coerenza una strategia dirivoluzione permanente. L’obbiettivo politico contingente delle forze classiste e rivoluzionare non può limitarsi a quello democratico dell’indipendenza nazionale, neanche transitoriamente in formazioni sociali periferiche: proprio le fragilità della borghesia di queste formazioni sociali, le sue inevitabili tendenze compradore e autoritarie, determinano infatti la necessità di sviluppare non solo l’indipendenza, ma anche la contrapposizione rispetto alle strategie nazionaliste, sia sul piano politico sia su quello militare (evitando cioè ogni dinamica, ogni logica, ogni tentazione di fronte o coalizione interclassista, anche semplicemente in un’ottica di liberazione nazionale).

ControVento

 

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