Alle elezioni legislative francesi, perde Macron, si afferma Mélenchon, ma la vera vincitrice

è l’estrema destra xenofoba di Marine Le Pen

Emmanuel Macron esce fortemente ridimensionato dal voto delle elezioni legislative; il suo partito La République En Marche perde la metà dei propri deputati, e alla coalizione Ensemble!, di cui fa parte, mancano più di quaranta seggi per raggiungere la maggioranza assoluta. Il rovescio elettorale non ha risparmiato neppure alcuni pezzi da novanta del macronismo, come il ministro della sanità e l’ex ministro degli interni che nelle urne conoscono una cocente bocciatura.

Per la prima volta, la conquista dell’Eliseo non ha avuto come di consueto un effetto trainante sul rinnovo dell’Assemblea nazionale. Dalle urne escono quattro blocchi: il centrodestra liberale macroniano, la sinistra egemonizzata da Mélenchon, la destra repubblicana e l’estrema destra lepenista. Sullo sfondo della crisi dei tradizionali partiti, crescono e si affermano le due ali estreme dello schieramento politico. A sinistra, coglie un significativo successo il variopinto cartello elettorale messo assieme da Mélenchon (Nupes – la Nuova unione popolare ecologista e sociale), ma è soprattutto a destra che si  realizza una vittoria senza precedenti, con Marine Le Pen che conquista 89 deputati: il triplo rispetto al miglior risultato ottenuto dal Front National nel 1986. Mentre il numero di voti ottenuti dalla coalizione di Mélenchon non è cresciuto rispetto al totale del 21017, il Rassemblement National è aumento di 1,2 milioni di voti rispetto a cinque anni fa. Un vero e proprio exploit, tenuto conto che la crescita dell’estrema destra è avvenuta nonostante si sia registrato un significativo aumento del tasso di astensionismo.

Nel 2017, il neoeletto presidente aveva pubblicamente declamato il suo obiettivo politico principale: usare i pieni poteri che le urne gli avevano affidato per ridurre il peso degli estremismi, in particolare quello dell’estrema destra sovranista. Dopo cinque anni si deve constatare il suo fallimento: invece di arginare le ali estreme dello schieramento politico, Macron con le sue politiche antisociali le ha alimentate. Nel risultato ha pesato anche la diffusa ostilità dell’opinione pubblica verso un capo di stato considerato troppo arrogante e lontano dalle preoccupazioni quotidiane di buona parte dei cittadini. Emblematica, a questo proposito, è stata la nomina a primo ministro di Elisabeth Borne, che era la ministra dei Trasporti che promosse e difese le misure penalizzanti che fecero scoppiare la rivolta dei gilet gialli. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata però la proposta legislativa di elevare l’età pensionabile da 62 a 65 anni, che assieme agli obblighi  penalizzanti previsti per i beneficiari del reddito di solidarietà attiva, ha indicato chiaramente una nuova virata verso un modello sociale ultraliberista.

Dunque, il candidato dei poteri forti e della grande finanza che più spingeva per distruggere il sistema di protezioni sociali, esce ammaccato dalla prova elettorale. “Era una re, diventa un faraone”, “è un gallo azzoppato” ha chiosato icasticamente la stampa transalpina, segnalando il declino di quella grande coalizione che si proponeva di rompere i consueti schemi per meglio garantire la governabilità borghese della seconda potenza economica europea. L’attuale blocco borghese, il partito dell’ordine, la “Francia dei piani alti”, così come l’ha definito il quotidiano ‘Le Monde, alla prova delle urne si è dimostrato meno solido di quanto potesse apparire. Al di là dei limiti e degli errori dell’enfant prodige delle banche d’affari, a mettere in crisi l’impianto politico di Macron è stata la crisi economica; una crisi prolungata che ha travolto i piani espansivi di ognuno dei paesi dell’area della U.E., spaventato le popolazioni, facendo vacillare il tradizionale assetto politico- istituzionale con il quale si esprimeva la governance.

 

Un sistema politico scomposto.

Il sistema elettorale maggioritario a doppio turno non è riuscito come in passato a ingessare l’involucro politico nelle forme proprie dell’alternanza bipolare; quello che in Francia per lungo tempo hanno visto socialisti e gollisti avvicendarsi alla guida del paese, sulla base di programmi praticamente intercambiabili, salvo relative differenze sui temi dei diritti civili. Infatti, la logica del doppio turno è quella di marginalizzare le ali estreme e di favorire le formazioni del centro liberale.

Cosi come da altre parti, anche nel paese d’oltralpe si affaccia lo spettro dell’instabilità. Per la prima volta dal 1958 l’impalcatura della Quinta Repubblica che garantiva una scontata stabilità all’esecutivo subisce uno scossone, perché il modello elettorale francese (doppio turno con ballottaggio tra le prime due formazioni) nacque su impulso del generale De Gaulle per evitare le alchimie parlamentari che producevano a getto continuo crisi di governo, maggioranze fragili e mutevoli. Un sistema, quello della Quinta Repubblica nato per garantire il ruolo predominante del centro liberale borghese, e che all’epoca fu adottato per annullare il peso politico del PCF che fino al 1956 era il più forte partito del panorama politico francese. Mentre con il sistema proporzionale, il Partito comunista francese rappresentava circa un quarto dell’elettorato, l’imposizione della legge elettorale maggioritaria a doppio turno erose e poi liquidò la sua forza parlamentare (in due anni, con il cambio del sistema elettorale, il PCF passò da 145 a 10 deputati, vincendo solo dove era maggioranza assoluta, come in alcuni collegi delle zone minerarie del Nord e della cintura operaia di Parigi).

Al di là dei correttivi che verranno escogitati per ovviare all’eventuale impasse istituzionale che si potrà registrare, resta il fatto che la forza del malcontento, che fino a ieri non era riuscita scavallare le mura di Gerico di un sistema elettorale penalizzante, oggi sia riuscita ad entrare nelle aule parlamentari con una forza politica per nulla trascurabile. Un malcontento, assai eterogeneo, diversamente connotato, che rivela in controluce le enormi contraddizioni che l’attuale modello capitalista produce senza soste.

Mélenchon non è il nuovo Danton.

Parte di questo malcontento, è stato raccolto da Mélenchon, che dalle ceneri di una sinistra debole e sparpagliata è riuscito a far emergere un polo alternativo attento a sintonizzarsi sui bisogni delle classi popolari del paese; in un tempo segnato dal conflitto tra un neocentrismo tecnocratico e le varie espressioni politiche di un populismo di destra e di estrema destra, è riuscito cioè a invertire la tendenza di una sinistra sempre sconfitta e marginalizzata. Agitando alcune parole d’ordine (salario minimo intercategoriale a 1500 euro, riduzione a 60 anni dell’età pensionabile, sostegno al potere d’acquisto dei lavoratori) il leader di France insoumise è riuscito ad incrinare l’unanimismo del dibattito pubblico sull’economia, apparendo come colui che meglio rispondeva al malessere che appartiene ad un numero crescente di lavoratori poveri, alle prese con l’inflazione e con salari insufficienti. La frustrazione di chi ogni giorno fatica senza ricevere un’adeguata contropartita, ha permesso a Mélenchon di conquistare un significativo consenso tra i giovani e nei dipartimenti della regione parigina, in particolare in quelli a prevalente composizione proletaria. Questo risultato in qualche modo rappresenta anche, sul piano della contesa elettorale, un sottoprodotto del ciclo di lotte sociali che negli ultimi anni ha attraversato il paese transalpino.

In Italia, l’affermazione del ex ministro socialista è stato salutato con giubilo da quello che resta della sinistra radicale. Dopo Tsipras e Pablo Iglesias, l’ex ministro socialista è la nuova cometa che illumina il cielo di una sinistra alla ricerca di una figura carismatica capace di rivitalizzare un’area politica rarefatta e dispersa. Ma il profilo, il programma e l’impianto politico incarnato dal leader degli insoumise non sembra destinato a far marciare un progetto politico classista ed anticapitalista. Mélenchon non è un novello Danton portatore di rivoluzioni e di cambiamenti radicali; il suo orizzonte rimane nel campo di quel riformismo di sinistra che si pone l’obiettivo di modificare i tratti più antisociali del capitalismo contemporaneo; il rafforzamento del protezionismo economico e il piano di investimenti pubblici proposto da Mélenchon vanno in questo senso, delineando chiaramente un’impostazione neo-Keynesiana. Va detto inoltre, che Nupes è un cartello elettorale destinato a scomporsi in più gruppi (Melanchionisti, verdi, Pcf e Socialisti). Nei gruppi parlamentari non mancano esponenti non propriamente “radicali” come quelli che sono stati eletti dal Partito Socialista, che ha mantenuto i suoi deputati a un livello molto migliore di quanto si potesse aspettare senza un’alleanza con Mélenchon.

In questo cartello elettorale, non è invece entrato l’NPA (il nuovo partito anticapitalista) che ha criticato i pochi candidati circoscrizionali concessi e la torsione moderata che l’ingresso dei socialisti ha comportato. Dopo il mancato accordo, il partito di Philippe Poutou si è presentato autonomamente in 16 collegi, ragrannellando in media lo 0,46 per cento, mentre in gran parte delle circoscrizioni ha dato l’indicazione di votare la coalizione di Mélenchon. Si è invece presentata in quasi tutti i collegi (554 su 577) l’altra formazione politica di matrice trotskista, Lutte Ouvrière. I suoi candidati hanno ottenuto un totale di 229.810 voti, riportando una media del 1,07 per cento. Un risultato modesto, ma che segna un miglioramento rispetto al risultato di cinque anni fa, quando aveva ottenuto 159.470 voti con una media dello 0,72 per cento.

Le Fratture sociali e la crescita dell’estrema destra.

Così come è avvenuto per le elezioni presidenziali, anche nel voto delle legislative si rintracciano le profonde fratture sociali che attraversano la società francese. Centro e periferia, grandi città e zone rurali da tempo disegnano in Francia una cartografia sociale ed economica ben definita Rilevanti sono le differenze tra quelle regioni che si stanno spopolando, conoscendo una progressiva scomparsa dei servizi pubblici essenziali, e quelle aree metropolitane dove si concentra il grosso delle funzioni amministrative, politiche ed economiche. Da questo punto di vista è ragguardevole il divario tra città come Parigi o Lione e quella diagonale impoverita che va dalle Ardenne ai Pirenei atlantici, dove vengono cancellati i piccoli ospedali territoriali, e le stazioni ferroviarie chiudono i battenti in favore dell’alta velocità e del trasporto privato. In qualche modo, tali differenze si riflettono anche nell’espressione elettorale. Le grandi città dell’ovest, del sud-ovest e dell’Alsazia che votano il partito di Macron; gli ex bacini industriali, le zone periurbane e le piccole città che costituiscono il cuore del consenso di Marine Le Pen; le periferie popolari e i centri delle città universitarie che gonfiano le vele di Mélenchon. In particolare il successo di Marine le Pen rappresenta l’espressione di un malessere diffuso, rivelatore di un disagio verso l’Europa della Francia periferica, agricola, tradizionalista, sempre più in rotta di collisione con la Francia urbana ed europeista; quella parte di società, spesso costituita da lavoratori autonomi, che si sente abbandonata dallo stato francese, ritenuto indifferente, protervo ed oligarchico.

I primi studi compiuti sui flussi elettorali attestano che il grosso degli elettori del Rassemblement National provengono dagli strati sociali meno privilegiati, a partire dal ceto operaio. Ciò conferma una tendenza, presente da tempo non solo nel paese transalpino: quella cioè della capacità della destra e dell’estrema destra di conquistare crescenti consensi tra i cittadini a basso reddito, operando così un preoccupante sfondamento reazionario all’interno delle classi subalterne. Chi pensava che la pandemia e la guerra potessero stabilizzare la società, affievolendo le istanze protestatarie e offuscando le tendenze rappresentate dal populismo e dal sovranismo, è stato smentito. In Francia, così come in altri paesi europei come l’Italia, esiste una corrente legata all’estrema destra xenofoba che prospera, con intensità diversa a secondo dei momenti. Una corrente che rappresenta ormai una presenza stabile nel panorama politico odierno. Il successo ha certamente risolto una parte dei problemi che affliggevano il partito di Marine Le Pen, a partire dalla conquista di quel radicamento istituzionale che gli era sempre sfuggito. Infatti, nel recente passato, i buoni risultati ottenuti alle presidenziali e la rilevante centralità mediatica conquistata nel dibattito pubblico del paese, non si era mai tradotta in una forza parlamentare significativa, ma solo in un pugno di deputati e qualche sindaco in piccole città di provincia. Ora invece, utilizzando questa nuova centralità politico-istituzionale ottenuta, può tentare di uscire dallo stato di isolamento in cui era stata lasciata finora. Ma è su un altro versante che la leader del Rassemblement National giocherà una partita assai più difficile e importante. Da un lato dovrà tentare di mantenere quell’immagine di forza antisistema costruito nei decenni, che si batte contro le élite e la disgregazione del tessuto culturale di un paese sempre più multiculturale, conciliandolo con quel profilo credibile e moderato che l’aspirazione a governare richiede. In particolare, un tassello essenziale di questa strategia sarà la capacità di rivolgersi a quei settori conservatori di elevato livello sociale, delusi dai postgollisti, che da tempo condividono alcuni temi della vulgata lepenista (preferenza nazionale, immigrazione, peso della presenza islamica), ma che finora non hanno condiviso le forme plebee con le quali il partito di Marine Le Pen ha condotto le sue campagne xenofobe, da sempre segnate da uno stile tipicamente populista teso a colpire l’istinto degli elettori.

Inoltre, dopo aver vinto il duello a destra con Eric Zemmour, si apre la partita della conquista della sua area di riferimento (7% alle presidenziali ed oltre 120mila iscritti alla sua formazione Reconquête). Il giornalista di origini algerine, retore di una destra ultrareazionaria sempre pronto a inanellare una serie di lugubri constatazioni sull’immigrazione e sui  suoi riflessi sulla delinquenza, durante la campagna elettorale ha provato, non riuscendovi, a coalizzare un blocco che tenesse insieme un pezzo di borghesia che guarda con favore al nazionalismo, con la tradizionale base del R.N. Ora che i suoi sogni di grandezza si sono infranti, per Marine Le Pen si apre la possibilità di attingere a quel bacino per rafforzare il proprio partito. Ma questa incursione presenta si, un occasione per reclutare nuovi militanti, ma anche un potenziale pericolo per quella strategia di “sdemonizzazione” che da tempo rappresenta un elemento centrale della strategia lepenista di avvicinamento alle stanze del potere, perché parte rilevante della base che ha sostenuto Zemmour esprime posizioni ed atteggiamenti assai più radicali di quelle recitate dalla figlia del fondatore del Fronte Nazionale.

Al di là di quelle che saranno le evoluzioni di una estrema destra che rappresenta oggi un arcipelago agguerrito e mutevole, resta il compito per le forze del movimento operaio che rimangono legate ad una impostazione classista ed internazionalista, di riprendere con forza il terreno del conflitto sociale anticapitalista, il solo che può erodere l’egemonia reazionaria sulle classi subalterne, invertire il corso politico corrente, e aprire la strada ad una nuova stagione politica e sociale.

Piero Nobili

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