LA CAMICIAIA DELLA BOVISA, PRIMA VITTIMA DELLO SQUADRISMO FASCISTA

“I fascisti non sono mica come i funghi, che nascono così, in una notte. No. I fascisti sono stati i padroni a seminarli, li hanno voluti, li hanno pagati. E coi fascisti i padroni hanno guadagnato sempre, al punto che non sapevano più dove mettere i soldi…” (dialogo di Olmo Daccò, interpretato da Gérard Depardieu nel film ‘Novecento di Bernardo Bertolucci)

Teresa Galli, operaia cucitrice in un’azienda della Bovisa, un quartiere popolare di Milano, è considerata la prima vittima dello squadrismo fascista. Nei primi mesi del 1919 è una giovane socialista impegnata nelle lotte che la classe operaia milanese sta conducendo nel turbolento periodo del primo dopoguerra. Il 15 aprile del 1919 durante lo sciopero generale convocato dalla camera del lavoro per protestare contro le ripetute violenze poliziesche dei giorni precedenti, un colpo di rivoltella le recide la vita, spegnendo in un attimo i sogni e le speranze dei suoi diciannove anni. Per moltissimo tempo, Teresa Galli è stata dimenticata: solo il prezioso lavoro di ricerca di alcuni storici (come Marco Rossi) e di alcuni militanti (di area anarchica e internazionalista) ha riscoperto la sua figura, riportando alla luce i fatti che determinarono la tragica fine di questa giovanissima lavoratrice.

Quest’anno ricorre il centenario della Marcia su Roma, in cui lo squadrismo fascista trovò la sua consacrazione. C’è il rischio concreto, che la narrazione rievocativa che accompagnerà questo evento risulti superficiale, sommersa da una bulimia memorialistica che tutto sfuma e diluisce; o peggio ancora che questa ricorrenza venga piegata nel segno di un revisionismo storico che di fatto parifica vittime e carnefici, oppressi ed oppressori, aggrediti e aggressori. Anche per questo, riportare alla luce la vicenda di Teresa Galli, una donna, una socialista, un’operaia assassinata da coloro i quali si ergevano a cani da guardia degli interessi padronali, non è un esercizio irrilevante. In questa difficile congiuntura storica segnata da una profonda regressione sociale, politica e civile, anche il lavoro di difesa e di riaffermazione della memoria e della verità storica come strumenti di conoscenza e formazione della coscienza, rappresenta un tassello importante per contrastare la ventata reazionaria che si sta dispiegando.

La Grande Paura.

All’inizio del 1919 una pace illusoria regna sulle macerie di un’Europa che esce tramortita da un conflitto mondiale che ha provocato lutti, miseria e disperazione. Settanta milioni di giovani avevano passato gli ultimi anni sui campi di battaglia a spararsi l’un l’altro per garantire alle proprie borghesie la conquista di spazi, territori, risorse e mercati. In Italia dei sei milioni di reclutati nel regio esercito, uno su dieci non è tornato. Uno su dieci è tornato invalido o mutilato. Dopo quattro anni di guerra la situazione economica e sociale del paese è drammatica. I tre quarti della spesa pubblica erano stati spesi per sostenere lo sforzo bellico, mentre il debito pubblico era cresciuto in maniera esponenziale passando dai 15 miliardi dell’anteguerra ai 60 dopo la vittoria. La rapida svalutazione della lira che arriva a valere solo un  quinto di quella del 1914 accresce a dismisura il costo della vita. Mentre la guerra ha arricchito in misura spropositata le classi possidenti e quei settori commerciali coinvolti nelle forniture belliche, l’impoverimento dei ceti popolare raggiunge il suo acme. La borghesia industriale, alle prese con il restringimento del mercato, scarica sui lavoratori i costi della riconversione industriale. In un paese dove aumentano enormemente le diseguaglianze, tra le classi subalterne cresce l’odio nei confronti di chi ha voluto la guerra, e che con essa si è arricchito; cresce anche la speranza di un cambiamento radicale che rovesci la piramide sociale sulla quale prospera il regno del capitale. Infatti, la brusca e straordinaria accelerazione della storia, che in Russia ha prodotto l’abbattimento di una dinastia plurisecolare ed ha portato al potere i bolscevichi agisce come un potente richiamo simbolico e materiale. Per questo insieme di fattori nel paese si sviluppa un intenso e prolungato ciclo di lotte che mette a repentaglio i tradizionali assetti di potere dell’Italia liberale e savoiarda. Le grandi famiglie del capitalismo italiano sono atterrite da tale prospettiva , il problema che si trovano ad affrontare, in una fase così instabile e aperta ad un possibile rivolgimento rivoluzionario, è come mantenere e consolidare il potere economico ottenuto durante il periodo di guerra. La risposta che si daranno è quella di affidarsi allo squadrismo di Mussolini, che nel corso di quegli anni si dimostrerà un efficace strumento della reazione di classe, capace di colpire senza pietà le organizzazioni sindacali e politiche della classe operaia. Ed è per questo, che un settore della grande borghesia italiana, in particolar modo quello legata all’industria pesante (Ilva, Montecatini, Ansaldo, ecc) non farà mancare il proprio  sostegno finanziario al movimento fascista.

I Fasci di Combattimento.

Appena terminata la guerra, il malcontento generale che si è a lungo accumulato nella società, si radicalizza, incanalandosi in direzioni opposte e contrarie. Anche a destra, negli ambienti nazionalisti cresce un notevole fervore, pronto a ricercare una soluzione reazionaria allo stato di crisi in cui è precipitato il paese. Nel marzo del 1919 a Milano in piazza San Sepolcro, vengono fondati i Fasci di combattimento. Attorno a Mussolini si aggrega una schiera composita e colorata che esprime stati d’animo esasperati: verso una vittoria che viene ritenuta “mutilata”; verso una classe politica che non rispetta gli impegni presi con i reduci; verso chi combatte il militarismo e l’espansione italiana sui confini orientali, verso, soprattutto, il “nemico interno” individuato nel Psi e nel movimento operaio e contadino, che alla fine del conflitto bellico sta nuovamente rialzando la testa. La gran parte dei convenuti proviene da quei ceti medi che temono di venire declassati, da quegli strati intermedi della società che nel primo dopoguerra nutrono un profondo risentimento. Ai Fasci di combattimento aderiscono una parte degli Arditi, quel corpo d’élite dell’esercito che, impiegato esclusivamente come reparto d’assalto, all’atto della smobilitazione si era trovato a disagio nel nuovo ambiente sociale che si era prodotto.  Accanto a loro ci sono anche i Futuristi, quella congrega artistico letteraria con ambizioni politiche, che pochi anni prima aveva glorificato la guerra come “sola igiene del mondo”, e che ora intravvede nel fascismo in formazione il nuovo involucro politico in cui intervenire. La miscela che si forma a piazza San Sepolcro è assai variegata. Il programma che viene enunciato è alquanto contraddittorio, e in alcune sue parti evoca persino una natura sociale progressiva: giornata lavorativa di otto ore, confisca dei sovraprofitti di guerra, sequestro dei beni della chiesa, suffragio universale con voto alle donne sono tra le parole d’ordine che dal palco vengono evocate. Il raggruppamento che sorge in piazza San Sepolcro si presenta all’opinione pubblica come una forza antipartito, con caratteri eversivi, e al tempo stesso portatore di un riflesso d’ordine che intende ripristinare. Lo stesso Mussolini in quell’assise si dichiara conservatore e progressista, reazionario e rivoluzionario, aristocratico e democratico. Ma dietro queste fumisterie, dall’atto costitutivo dei Fasci di combattimento emerge chiaramente il suo obiettivo primario e caratterizzante: l’annientamento fisico degli istituti politici e sindacali del movimento operaio.

Il Martedì di Sangue.

Dopo poche settimane dalla fondazione dei Fasci di combattimento, la natura violenta e reazionaria del nascente movimento fascista si materializza sulla piazza milanese, inverando i presupposti d’ordine dichiarati durante il raduno di piazza San Sepolcro. È questo lo sfondo e il contesto in cui maturano gli avvenimenti che conducono alla morte di Teresa Galli. Il 13 aprile 1919 durante una manifestazione socialista, la polizia regia uccide un dimostrante in via Corsieri. Due giorni dopo, i socialisti e la Camera del Lavoro proclamano uno sciopero generale tenendo un nuovo, imponente, comizio all’Arena per protestare contro la repressione poliziesca. I comizi sono tenuti da Luigi Repossi e Claudio Treves. I convenuti -secondo molte testimonianze riportate dalla stampa dell’epoca- inneggiano alla Russia dei Soviet, chiedendo ai dirigenti politici e sindacali del partito socialista una risposta energica ai soprusi perpetrati da una polizia asservita agli interessi  del potere economico e finanziario. Così, Gaetano Salvemini ricostruisce i fatti di quella giornata: “Dopo che il comizio socialista si era sciolto, una parte della folla che ostentava bandiere rosse e nere e ritratti di Lenin e dell’anarchico Malatesta, si mise in marcia verso il centro della città. È chiaro che gli spartachisti e gli anarchici si erano messi d’accordo per organizzare una dimostrazione senza il concorso dei socialisti di destra e dei massimalisti”. In via Mercanti a poche centinaia di metri dal Duomo un nutrito gruppo di nazionalisti guidati da ex ufficiali attacca il corteo operaio a colpi di revolver e di bombe a mano. Anche da alcuni palazzi del centro si spara contro i “sovversivi”, numerosi sono i feriti tra i dimostranti, mentre sul selciato priva di vita rimane Teresa Galli.  Il corteo viene disperso ed altri due giovani di sedici e diciotto anni (Pietro Bogni e Giuseppe Luccioni) vengono uccisi dai colpi di rivoltella esplosi dal manipolo che sventola il tricolore e i gagliardetti neroteschiati. Occupata la piazza, impedita la sfilata delle sinistre, le squadracce guidate dal capitano degli arditi Ferruccio Vecchi e da Filippo Tommaso Marinetti si dirigono a passo di carica verso la sede del quotidiano “L’Avanti!” e dopo un breve assedio, l’assaltano devastandola e incendiandola. Al termine del raid gli squadristi si recano sotto le finestre della redazione del “Popolo d’Italia, dove acclamano Mussolini ed esibiscono alcuni oggetti trafugati dalla sede del giornale socialista. Gli autori di questa mattanza non verranno perseguiti. Anzi. Il giorno dopo il ministro della guerra, generale Enrico Caviglia riceve in un hotel milanese i capi della spedizione omicida, Marinetti e Vecchi, e li loda per la lezione inflitta ai socialisti. Mentre il prefetto decreta la sospensione di ogni manifestazione, il Corriere della sera definisce la distruzione del quotidiano del Psi “il frutto dello sciopero: a provocare gli incidenti, furono coloro che, armati di randelli e muniti di bandiere rosse, vollero recarsi a ogni costo in piazza del Duomo.

Il primo clamoroso esempio di quelle che saranno le modalità d’azione dello squadrismo, provoca sconcerto e rabbia tra le fila del movimento operaio milanese. Oltre ai morti e alla devastazione de “L’Avanti!” sono più di seicento gli operai che vengono arrestati. A fronte di questa grave provocazione, la risposta della camera del lavoro e della direzione del partito socialista è debole, impotente, improntata a una dichiarata remissività politica. Come scrive Gaetano Arfè: “Nessuna ritorsione, nessuna energica pressione sul governo perché disarmi le bande fasciste, nessuna denuncia all’opinione pubblica democratica dell’illegalismo reazionario, ma un fermo monito al proletariato perché non accetti provocazioni” (1)

Dopo l’Aprile del 1919, sarebbero dovuti passare ancora molti mesi e alterne vicende, prima che il movimento guidato da Mussolini fosse in grado di affermare nell’insieme del paese la propria vocazione reazionaria e antioperaia. Ma i fatti di Milano, in cui la violenza squadrista fa la sua prova generale senza che le organizzazioni del movimento operaio siano in grado di contrapporre una decisa mobilitazione atta a contrastare la reazione, rappresenta il primo passo del fascismo verso il processo che lo porterà due anni e mezzo dopo a conquistare il potere.

  1. Gaetano Arfè, ‘Storia del socialismo italiano (1892-1926) Einaudi

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