I documenti fondativi di ControVento sono [appunto] la sua carta fondativa e il suo regolamento, che inquadrano scopi, principi e modalità di sviluppo di questo percorso. La scelta di aderire a questa associazione, a questo laboratorio politico, è quindi determinata fondamentalmente da questi documenti. Per comprendere meglio però l’analisi e il cammino attraverso cui si è arrivati a definire questa proposta, pubblichiamo un documento di riflessione sul presente e sulle ragioni di Controvento, proposto dai compagni e dalle compagne della Tendenza Anticapitalismo e rivoluzione nel loro percorso di uscita dal PCL.

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La recessione 2009 ha chiuso una fase, in Italia e nel mondo. Il crollo dei subprime nel 2006/7, la bancarotta di Lehman Brothers nel 2008 e poi il successivo collasso dei mercati finanziari si sono tramessi all’economia reale e hanno così esaurito l’onda lunga della globalizzazione. Quel lungo ciclo depressivo era segnato da un’espansione dei profitti senza parallelo aumento della produttività (intensificando lo sfruttamento) e dall’estensione dei circuiti di valorizzazione del capitale (nelle metropoli imperialiste con aziendalizzazioni e privatizzazioni; nel mondo con l’industrializzazione delle periferie). Così, nel quadro del neoliberismo e del Washington consensus, in quella fase si è consolidata una nuova egemonia delle classi dominanti dopo la lunga contestazione operaia, studentesca e dei movimenti di liberazione, anche grazie all’assunzione di queste politiche da parte di larga parte delle direzioni progressiste e riformiste, soprattutto anche grazie alla destrutturazione del campo sovietico e all’integrazione del travolgente sviluppo capitalista cinese (nel quadro di una rivoluzione passiva che ha permesso una piena continuità di regime). Questo lungo ciclo è stato però segnato anche dal rilancio di movimenti di resistenza, con molteplici radici politiche e sociali: lotte comunitarie di difesa di mercati e ambienti locali (esemplificativa quella zapatista in Chiapas), lotte delle classe operaia organizzata in difesa del salario globale (in Italia l’autunno dei bulloni nel 1992, i precontratti, la difesa dell’art 18, i 21 giorni di Melfi), lotte studentesche contro l’autonomia liberista delle università (in Italia la pantera nei primi anni novanta e l’onda alla fine dei duemila), mentre si sviluppavano da una parte istanze democratico radicali e di sganciamento molecolare [come quelle proposta dai circuiti negriani e dalle Temporary Autonomous Zone], dall’altra tentativi di rilancio di una prospettiva socialista a matrice sia riformista che rivoluzionaria (anche transitoriamente confluenti come nel PT brasiliano o nel PRC).

Spazi di raggruppamento nella globalizzazione. Questi percorsi di resistenza si sono ritrovati insieme in lotte e movimenti nel corso di oltre un decennio. Proprio al culmine di quella fase (entrata della Cina nel WTO e guerre di Bush, 2001) sono confluiti nel movimento dei movimenti, che contestava la guida di questa globalizzazione, il G8 (da Seattle a Genova) e le guerre neocoloniali (in Asia e in Medioriente), creando un ampio campo politico in cui si confrontavano ipotesi riformiste, centriste, nazionaliste, anarchiche, democratico radicali e anche rivoluzionarie. In quella lunga fase si era quindi aperto uno spazio politico di raggruppamento: nel quadro di movimenti e lotte di classe di massa, nello scontro contro quella gestione liberale del ciclo (pienamente sostenuta dal cosiddetto centrosinistra), si poteva infatti provare a riorganizzare un progetto comunista e rivoluzionario, in grado di fare bilancio del comunismo storico novecentesco (a partire dall’URSS, lo stalinismo e anche le sue derive riformiste), rilanciare la necessità di un diverso modo di produzione da costruire attraverso la presa del potere (ribadendo quindi l’importanza di un partito di avanguardia e un metodo transitorio), riunificare su base programmatica diverse soggettività e quindi superare le derive autoreferenziali che il movimento trotzkista viveva da diversi decenni. Questo è stato il tentativo portato avanti con Progetto comunista nel PRC e poi con la fondazione del PCL (la sinistra che non tradisce, all’opposizione del governo Prodi), parallelamente alla Dichiarazione di Genova, alla fondazione del CRQI e alla proposta di una progressiva convergenza tra diverse organizzazioni internazionale rivoluzionarie.

La Grande Crisi. Quel lungo ciclo depressivo, caratterizzato dalla globalizzazione, era segnato anche da profondi squilibri economici [a partire dalla crescita del debito USA e lo sviluppo economico cinese], l’esponenziale crescita di bolle finanziarie e conseguenti crolli [il Black Monday di Wall Street nel 1987, lo scoppio della bolla immobiliare giapponese nel 1991, il Mercoledì Nero della rottura dello SME nel 1992, il crollo del peso messicano nel 1994, la crisi asiatica e quella russa nel 1997/98, il crash argentino e poi l’esplosione delle dot.com nel 2001]. La recessione del 2009 ha segnato invece l’apertura di una crisi generale e di lungo periodo, come già avvenuto altre volte al termine di una lunga onda depressiva [le Grandi Depressioni del 1873/1896 e degli anni trenta del novecento]: il ciclo economico non ha oggi a disposizione strumenti o meccanismi endogeni di rilancio, stante l’intrecciarsi di una sovrapproduzione di merci e capitale, uno squilibrio tra settori e mercati, la caduta tendenziale del saggio di profitto. Nella storia, infatti, queste Grandi Crisi sono state risolte da processi esogeni al ciclo economico, come una grande espansione territoriale dei mercati (imperialismi) o la grande distruzione creatrice di una guerra mondiale. Questa crisi generale ha avuto in questo decennio una dinamica peculiare, proprio per i profondi squilibri cresciuti nella fase precedente: l’immane espansione capitalista cinese (trainata da un modello di accumulazione centrato sul basso costo del lavoro e sugli investimenti, arrivati sino al 50% del PIL), senza precedenti per dimensioni e per durata, ha per ora parzialmente compensato il pieno dispiegarsi della tendenza ad una lunga depressione, riducendo però  progressivamente i tassi di crescita cinesi (di fatto dimezzati negli ultimi anni, in quella che è stata definita una nuova normalità). Si è determinato in ogni caso un progressivo acutizzarsi della pressione capitalista sul lavoro (più in generale sulle classi subalterne), anche attraverso profonde ristrutturazioni che integrano filiere e processi produttivi, nel quadro di una complessiva digitalizzazione che se da una parte apre inedite possibilità di connessione globale, dall’altra sviluppa nuovi spazi e modalità di controllo della prestazione lavorativa come della più complessiva vita sociale delle persone. Nel contempo, gli strumenti di regolazione sviluppati nel corso dell’ultimo secolo stanno cercando di contenere la tendenza alla stagnazione, agli squilibri, ai crolli e alle nuove depressioni, a partire dall’uso massiccio di politiche monetarie [bassa inflazione e tassi di interesse negativi], l’intervento delle banche centrali [raddoppiato a oltre 20mila mld di dollari dopo il 2009/2012, oggi oltre i 30mila mld] e anche lo stanziamento di investimenti pubblici straordinari [nel 2009 800 mld di dollari in USA, oltre 500 in Cina].

Il surriscaldamento globale e l’emergenza climatica. L’evolversi ciclico e su onde lunghe del capitalismo si innesta sulla tendenza ad una continua espansione su cui si regge questo modo di produzione. Il nuovo sviluppo negli ultimi decenni di un mercato mondiale integrato ha reso sempre più evidente la depredazione dell’ambiente inscritta nella logica del profitto: da una parte per l’estensione di circuiti di valorizzazione ad ambienti e contesti sociali sinora relativamente periferici, dall’altra per la significativa estensione della produzione di merci, del commercio e dei consumi nel mondo. Per dare sono un dato in relazione al consumo di suolo e di acqua, la produzione di carne dal 1980 ad oggi è passata dalle 150 mln di tonnellate a oltre 330. La popolazione della Terra è infatti cresciuta negli ultimi decenni [passando dai 5 mld del 1987 ai 6 nel 1997 e ai 7 nel 2011, raggiungendo probabilmente gli 8 nel 2025], nonostante il significativo calo dei tassi di natalità (dai 5 bambini per donna intorno al 1970 ai 2,5 attuali), anche per il miglioramento delle condizioni sanitarie (il tasso di mortalità infantile è passato dai 111 per mille nati nel 1980 ai 43 attuali). Nei primi anni duemila oltre il 50% della popolazione mondiale si è trasferita in città e questo processo di urbanizzazione accelerata non si è fermato: oggi circa 4 mld di persone abitano in contesti urbani. La questione ambientale (lo sfruttamento e l’inquinamento di acqua, aria e terra) diventa però oggi emergenza non solo nel suo dispiegarsi globale, ma in rapporto a due specifici processi: da una parte l’esaurimento di risorse finite (vedi le energie fossili), dall’altra i tipping points (i punti di non ritorno) di un’accelerazione antropocentrica dei cicli di variazione delle temperature (V° Rapporto dell’Ipcc sui cambiamenti climatici, 2014), con conseguenze progressive e devastanti sugli ecosistemi (mettendone a rischio in primo luogo l’abitabilità umana). L’intreccio e la saldatura di una Grande Crisi e dell’evidenza dell’emergenza climatica rende sempre più evidente la barbarie di questo modo di produzione; amplifica squilibri e contraddizioni di questa stagione economica; sospinge e impone riconversioni produttive e dei consumi senza precedenti (e c’è chi pensa di fare proprio della riconversione verde l’occasione di una distruzione creatrice talmente impattante da riavviare il ciclo).

Pandemia e competizione. La pandemia in corso si è quindi innestata su processi di più ampio respiro, mostrando le fragilità sanitarie della globalizzazione, evidenziando gli effetti nefasti della lunga stagione neoliberista, precipitando una recessione inedita per dimensioni ed estensione, aumentando sensibilmente povertà e diseguaglianze, ampliando squilibri e contraddizioni della crisi, elicitando un intervento pubblico senza precedenti [quasi 17mila miliardi], sospingendo con ancora maggior forza i processi di profonda ristrutturazione industriale.

La Grande Crisi e poi la pandemia hanno quindi stimolato la competizione tra aree economiche e monetarie, a partire dai principali poli capitalistici (USA, UE e Cina), che sono da questa dinamica sospinti ancor più a condurre da una parte politiche nazionaliste e di riarmo, dall’altra a stringere attorno a sé alleanze e blocchi di riferimento. Gli Stati Uniti, senza più la forza del dopoguerra e la prominenza conquistata negli anni novanta con la vittoria della guerra fredda, impantanati in sconfitte ripetute nel quadrante asiatico e mediorientale (Afganistan e Iraq), logorati nel loro dominio tecnologico e indeboliti da un debito imponente, spostano il proprio focus politico e militare nel quadrante indopacifico (Aukus). La Cina sviluppa sempre più evidenti propensioni imperialiste (sospinte dal suo modello di accumulazione e dalla necessità di trovare mercati per i suoi investimenti), dispiegando la sua penetrazione nel mondo (One road One Belt), avviando una sua proiezione militare (basi a Mogadiscio e in Tagikistan), aprendo una nuova corsa agli armamenti (flotta oceanica, missili ipersonici, deterrente nucleare strategico, ecc). L’Unione Europea rimane con una struttura incompiuta (senza un reale mercato unico dei capitale, un capitale continentale sufficientemente strutturato, un assetto politico-istituzionale definito, una forza militare integrata), bloccata dalle diverse propensioni dei suoi imperialismi e da evidenti spinte centrifughe (in particolare nella sua parte orientale), ma nel contempo tenuta insieme e sospinta a sviluppare processi di integrazione dal progressivo precipitare della competizione interimperialista. Nel frattempo, le periferie e le semiperiferie sono scosse da crisi, riassestamenti geopolitici ed emergenza climatica. Questi paesi vivono sregolati processi di urbanizzazione (oltre a Tokio e le metropoli cinesi, le grandi città del mondo sono infatti Lagos, Dehli, Istanbul, Karachi, Bangkok, San Paolo, Mosca, Mumbai, Lahore, Lima, Giacarta e Kinshasa), in cui si muove un enorme sottoproletariato di recente immigrazione e forme dominanti di lavoro informale (secondo l’ILO, nel 2020 oltre 2 miliardi di persone, due terzi della forza lavoro impiegata nel mondo), oltre che un’esile e giovane classe media (globalizzata negli stili di consumo e di vita, ma instabile nelle sue reali condizioni economiche). In questa fase di Grande Crisi questa particolare composizione sociale di periferie e semiperiferie accompagna esplosioni potenzialmente rivoluzionarie (in cui però spesso è debole, o assente, non solo un partito rivoluzionario ma anche una classe lavoratrice organizzata), regimi e movimenti reazionari, spaccature sociali e persino guerre civili più o meno latenti [come avvenuto nelle primavere arabe, a Gezy park, nei movimenti giovanili in Cile, Iraq e Libano, nelle lotte per i salari o per l’acqua in Iran, nelle lotte contadine in India, nelle mobilitazioni e nei colpi di stato in Myanmar e Thailandia, nelle rivolte in Sudan, Kazakistan e in tanti altri paesi]. In questo quadro composito, assume sempre più rilevanza il nuovo imperialismo cinese, cresciuto nell’alveo di un regime burocratico stalinista e diventato con una rivoluzione passiva condizione proprio dello sviluppo capitalista: la sinistra nel mondo (e in Italia) sarà sempre più chiamata a prender posizione rispetto alla progressiva precipitazione di una conflittualità interimperialista, fuori e contro oggi logico neocampista, in cui sul versante europeo e statunitense si potranno anche innescare derive nazionaliste oggi ancora latenti.

La nuova stagione della Grande Crisi ha disorganizzato la classe e sviluppato un’onda reazionaria. Mentre nei paesi a recente sviluppo capitalista (nella semiperiferia e nei nuovi centri imperialisti) emerge una classe operaia concentrata ed imponente, ma ancora politicamente disorganizzata (in modo particolare in Cina, anche per il regime burocratico dominante), nei paesi a capitalismo avanzato l’ultimo decennio è stato segnato da un’evidente arretramento della coscienza e della capacità di lotta della classe lavoratrice. Particolarmente in Italia (ma non solo) è progressivamente sfumato nel senso comune e nelle rappresentazioni collettive il legame tra condizione sociale e prospettiva di trasformazione, anche per la progressiva scomposizione e disorganizzazione della classe, oltre che per la perdita di credibilità della sinistra [decomposizione del cosiddetto popolo di sinistra]. Questa dinamica ha amplificato una perimetrazione territoriale, professionale e d’impresa delle lotte sociali, parallela alla frammentazione che particolarmente in Italia ha conosciuto il capitale e la struttura produttiva, rendendo sempre più complesso avviare movimenti di massa e processi di generalizzazione delle lotte. Nel contempo, proprio in questo decennio si sono attivati alcuni ceti medi colpiti dalla crisi, esprimendo soggettività collettive, sviluppando un’autonoma capacità di mobilitazione e talvolta facendo diventare il loro punto di vista un riferimento in grado di agglutinare altri interessi e settori sociali. In questo quadro si è diffuso un senso comune reazionario, caratterizzato da profili anti-sistemici e complottisti, nostalgie di un tempo mai vissuto e revanscismi antitecnologici, comunitarismi e fondamentalismi di ogni tipo. Questo senso comune reazionario, attraverso l’impostazione antisistema e comunitaria dei 5 stelle, sollecitato dalla diffusa diffidenza verso i migranti, è penetrata nelle classi subalterne e persino nella classe operaia organizzata, consolidandosi nel corso del governo Conte/Salvini. Un’onda reazionaria su cui si è innestato nei mesi scorsi il movimento novax e no green pass, grazie alla mancanza di un punto di vista di classe sulla gestione dell’emergenza pandemica e a relative prassi conflittuali (su protocolli di sicurezza, gestione vaccinale, strategie preventive e di cura) della sinistra e dell’insieme del sindacalismo (confederale e anche conflittuale). In questa dinamica, settori dell’estrema destra sono riusciti a diventare punto di riferimento in cortei di migliaia di persone, oltre che a costruire un circuito che coinvolge decine di migliaia di persone (iniziative, chat e gruppi social).

I processi di raggruppamento comunista e rivoluzionario si sono quindi impantanati. In questo cambio di stagione, in Italia e nel mondo, i percorsi delle organizzazioni rivoluzionarie si sono di fatto impaludati nel generale arretramento di classe, rendendo nel contempo evidenti i limiti della loro impostazioni. Il CRQI è stato incapace di sviluppare una proposta politica aperta alle altre forze rivoluzionarie internazionali, avvitandosi in dinamiche centralizzate intorno al PO, congelando per anni la sua attività per poi frammentarsi nel tempo: in questa dinamica, è risultato evidente lo squilibrio tra il PO e le altre organizzazioni, la difficoltà a sviluppare spazi e strumenti di confronto, la debolezza di una struttura internazionale di semplice coordinamento tra i diversi partiti nazionali, senza chiarezza sul percorso da compiere. Il PCL, nel momento in cui la sinistra si è radicalmente ristretta (crollo delle elezioni del 2008) e lo spazio politico dell’opposizione è stato occupato da molteplici forze riformiste e centriste, ha prima visto congelarsi la sua capacità di esser punto di riferimento, poi avviato processi di progressivo logoramento, sino a ridimensionare sostanzialmente le sue dimensioni e la sua capacità di intervento politico (sul piano elettorale e sociale): in questa dinamica, è emersa la debolezza di una strategia di costruzione basata sull’inevitabile innescarsi dell’incendio delle fascine e la promozione propagandista della propria direzione (pensando, demarcandosi dagli altri, di poter assumere la direzione del naturale sviluppo delle lotte: vedi esperienza di Alitalia nel 2008). Così, a livello internazionale nell’ultimo decennio si è protratta, e per certi versi approfondita, la distanza e la concorrenza tra diverse internazionali-frazione o circuiti della sinistra rivoluzionaria, mentre nella scomposizione dei social forum si è confermata la marginalizzazione delle avanguardie rivoluzionarie (con l’eccezione dell’Argentina) e si è ridimensionato ma non cancellato un circuito centrista e riformista. In Italia, rimane un’ampia avanguardia politica e sociale di diverse decine di migliaia di compagni/e, ma è un quadro militante in realtà scollegato dai propri terreni di radicamento (fabbriche e periferie in primo luogo), in cui si affollano confusamente diversi ceti e progetti politici tra loro concorrenti (PRC, PCI, PaP, SA, SCR, PCL, ecc), tutti segnati da una profonda autoreferenzialità, se non dalla riproposizione parossistica delle proprie strategie e dalla difficoltà a trarre un bilancio delle proprie esperienze [con la parziale eccezione di SCR, passata da una linea di costruzione interna ai partiti della sinistra allo sviluppo autonomo di una propria organizzazione indipendente, riproducendo però lo stesso stile settario nei due diversi contesti, e per certi versi di PaP, che prova la nuova proiezione politica di due diversi e contraddittori gruppi, CCW e Retedeicomunisti].

In questo contesto il PCL ha conosciuto una progressiva deriva. Il rifiuto di prender atto del cambio di fase, trarre un bilancio della propria esperienza e dei propri limiti, adeguare la propria azione al nuovo contesto, ha permesso il progressivo prevalere di tendenze avanguardiste, dinamiche autoreferenziali, centralizzazione dell’organizzazione e focalizzazione sulla leadership. Queste tendenze sono divenute dominanti con il V congresso e hanno quindi determinato una sempre più evidente degenerazione, caratterizzata da irrigidimento del centralismo democratico (a partire da un frazionismo di maggioranza), centralizzazione dell’organizzazione e dell’intervento, sviluppo di componenti pubbliche di partito nei sindacati e nei movimenti, parossismo elettorale, sino ad arrivare alla ricostituzione dell’OTI (un’internazionale-frazione, che raccoglie intorno al PCL pochissimi compagni/e con cui si è mantenuto in questi anni un’indefinita relazione personale). Come mostra lo sviluppo nell’AMR Progetto Comunista di quei settori che hanno dato vita al Pdac, queste tendenze non erano completamente estranee al percorso ed alla matrice su cui si è costituito il PCL (non sono cioè estranee all’esperienza e ai percorsi del marxismo rivoluzionario più in generale, che spesso contiene propensioni e tendenze al settarismo avanguardista). In quella fase però erano state contenute e marginalizzate dalla prospettiva del raggruppamento, oltre che da un gruppo dirigente composito e articolato.

Proprio il cambio di fase e la successiva deriva del PCL hanno quindi messo in evidenza la necessità di approfondire la riflessione sul partito. La necessaria costruzione di un’organizzazione di avanguardia, che si struttura intorno ad un programma di transizione socialista, deve infatti tener sempre presente l’importanza della lotta di classe: il ruolo cioè di una dinamica di massa e di una spinta rivoluzionaria che nasce nei conflitti interni ai rapporti di produzione, nell’autorganizzazione della classe, con cui un partito deve sempre rapportarsi costantemente. Si pone cioè qui la centralità teorica, politica e pratica non solo dello sviluppo di un metodo e una prospettiva consiliarista dei processi rivoluzionari (in cui la centralità non è solo quella dell’azione dell’avanguardia organizzata, ma del suo rapporto con i processi di massa), quanto di un metodo rigorosamente transitorio nella costruzione dell’intervento del partito (la necessità cioè di evitare ogni sostitutismo e ogni avanguardismo, ponendosi nelle lotte quotidiane una spanna sopra la coscienza di classe). Una centralità del rapporto tra classe e partito che non si pone solo sotto il profilo dell’azione, ma anche nella centralità dello sviluppo di un pluralismo democratico nel partito, elemento fondamentale per contrastare derive avanguardiste e riformiste (bonapartiste di sinistra e di destra) che inevitabilmente nascono nelle dinamiche complesse del movimento del capitale e dello scontro di classe.

In questo cambio di fase, esaurita la spinta propulsiva del processo di raggruppamento, ci sembra allora importante riavviare un confronto collettivo. Il profondo arretramento di classe avvenuto nel nostro paese, la difficoltà a costruire percorsi di collegamento e generalizzazione delle lotte, l’ossificazione e l’isolamento di una larga avanguardia, la frantumazione e il parossismo di larga parte delle organizzazioni della sinistra, la deriva del PCL, rendono oggi difficile pensare sic et simpliciter alla partenza di qualunque nuovo percorso politico organizzativo, più o meno legato a dinamiche di raggruppamento. Nel contempo, proprio questo difficile contesto, la confusione della fase e la scomposizione delle lotte, l’isolamento dell’avanguardia e la sua frammentazione, hanno sospinto e sospingono in questa stagione ad un ritiro o un parziale abbandono dalla militanza, aumentando i gradi di separazione tra percorsi personali e ragionamenti complessivi. Ci sembra allora proprio oggi necessario riavviare un percorso collettivo di confronto e riflessione, consapevoli della transitorietà e della complessità della fase, per capire come ritessere le ragioni e gli obbiettivi di un percorso comunista e rivoluzionario, che abbia presente il bilancio delle esperienze passate, l’importanza di collocarsi nel quadro della Grande Crisi e dei conflitti interimperialisti che segnano il nostro futuro, la necessità di rapportarsi costantemente alle dinamiche di classe e alla sua capacità di sviluppare conflitti (a partire da quelli interni ai processi produttivi).   

Per questo abbiamo proposto e contribuiamo, insieme ad altri/e, al percorso di un’associazione marxista rivoluzionaria, cioè un laboratorio [o un laboratorio marxista rivoluzionario, cioè un’associazione], che si propone la rielaborazione di un progetto comunista e rivoluzionario a fronte degli arretramenti e delle sconfitte dell’ultimo decennio. Un luogo plurale e transitorio in cui ridefinire collettivamente una proposta politica e organizzativa per i comunisti rivoluzionari in questo paese. Uno spazio in cui possano incontrarsi e collegarsi compagni e compagne che provengono da diverse collocazioni e traiettorie politiche, che mantengono temporaneamente anche posizioni e collocazioni diverse, come strumento collettivo che possa avviare percorsi di confronto con altre soggettività e realtà, per una possibile azione comune. Un’associazione che possa quindi strutturare una rete nazionale di compagni e compagne, formare collettivi nel territorio, darsi strumenti pubblici di analisi ed elaborazione (rivista e sito). Un soggetto, in ogni caso, che si fonda esplicitamente su un proprio perimetro programmatico, come definito appunto dalla sua Carta fondativa [l’opposizione alle classi dominanti e loro governi, la prospettiva di un governo dei lavoratori e delle lavoratrici, il collegamento tra obiettivi immediati e prospettiva anticapitalista, un rapporto dialettico tra avanguardia e autorganizzazione, una prassi consiliarista, una prospettiva ed una prassi internazionale], oltre che una prospettiva internazionalista ed internazionale.

ControVento, appunto, per riavviare un percorso comunista e rivoluzionario.

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