Alla conferenza internazionalista di Milano dello scorso luglio abbiamo conosciuto Internationalist Standpoint, trovando ampie convergenze con loro sulle analisi e le posizioni che hanno portato in questa occasione. In questi giorni terribili, segnati dal massacro di Gaza e dall’apparente egemonia di prospettive nazionaliste reazionarie contrapposte nella guerra israelo-palestinese, pubblichiamo allora questa lunga analisi e questo indirizzo politico sul conflitto in corso, di Ciaran Mulholland [un compagno nordirlandese], tratto dal sito Internationalist Standpoint, che condividiamo nel suo impianto classista e internazionalista.
Pur non trovandoci pienamente d’accordo con ogni passaggio del testo, avendo diverse valutazioni sull’ipotesi del parallelo sviluppo di due stati socialisti (ritenendo oggi più significativa la costruzione di un solo stato binazionale, laico e quindi desionizzato), condividiamo infatti profondamente sia la prospettiva di fondo proposta nel testo (la soluzione della questione nazionale nella trasformazione del modo di produzione), sia la priorità politica dello sviluppo di un’unità della classe lavoratrice del popolo oppresso e del popolo oppressore contro le proprie classi dominanti.
E anche, e forse soprattutto, l’indicazione politica della necessità di sostenere l’indipendenza politica [e militare, aggiungiamo noi] delle forze della classe lavoratrice, contro da ogni logica di Fronte popolare ma anche contro ogni logica di fronte di liberazione o difesa nazionale interclassista. Quest’ultima opzione, purtroppo, nella confusione di questi tempi si è paradossalmente estesa, anche a sinistra, addirittura a forze esplicitamente reazionarie, come Hamas sul fronte palestinese o il governo di unità nazionale sul fronte israeliano. Per questo riteniamo questo contributo una soffio di aria fresca, utile a schiarire lo sguardo e andare avanti.
ControVento

di Ciaran Mulholland

“La società borghese si trova a un bivio, o la transizione al socialismo o la regressione alla barbarie”.
Rosa Luxemburg,  La crisi della socialdemocrazia tedesca, 1915.

Il 7 ottobre, 2500 combattenti di Hamas hanno attraversato i varchi nella recinzione che separa la Striscia di Gaza da Israele e si sono diretti in direzione di installazioni militari, kibbutz, villaggi e piccole città. Nel giro di poche ore sono stati uccisi oltre 1400 israeliani. Quanti dei morti fossero soldati in uniforme e quanti civili non è chiaro. Ipotesi e controdeduzioni hanno turbinato sui media e sui social media. Si sostiene che intere famiglie siano state sterminate, che siano stati usati metodi raccapriccianti per uccidere neonati e bambini e che le donne siano state violentate. Lo Stato israeliano ha motivi per esagerare gli eventi, Hamas ha ragioni per sminuirli, ma qualunque siano le cifre esatte, è fuori dubbio che ci siano stati attacchi deliberati contro i civili e che alcuni siano stati uccisi con metodi estremamente brutali. Inoltre, è fuori dubbio che delle oltre 240 persone riportate a Gaza come prigioniere, la maggior parte siano non combattenti.

“Fanno il deserto e lo chiamano pace”.

Lo Stato israeliano si è già impegnato in passato nella punizione collettiva dei residenti palestinesi di Gaza, non ha bisogno di scuse per farlo di nuovo. Nel giro di poche ore dagli attacchi di Hamas, 2,3 milioni di persone sono rimaste intrappolate in condizioni di assedio medievale. Acqua ed elettricità sono state tagliate e le scorte di cibo non possono entrare nella Striscia se non attraverso il valico di Rafah, e solo in quantità del tutto inadeguate. L’aeronautica israeliana ha lanciato ondate di attacchi e al momento in cui scriviamo ha ucciso quasi 10.000 palestinesi, quasi tutti non combattenti. La temuta offensiva di terra è iniziata il 28 ottobre e il bilancio delle vittime aumenta di ora in ora. C’è stato uno scontro in Cisgiordania dove coloni ebrei armati hanno attaccato i residenti palestinesi. Al confine tra Israele e Libano Hezbollah e l’esercito israeliano hanno avuto scontri a fuoco. Anche i ribelli Houthi nello Yemen sono stati coinvolti, lanciando missili e droni sul Mar Rosso verso il territorio controllato da Israele. Non è esclusa un’escalation del conflitto in tutta la regione nei prossimi giorni o settimane. Lo stato israeliano ha dichiarato la sua intenzione di annientare Hamas come forza organizzata e consistente nella Striscia di Gaza. Una tale “vittoria” sarà ottenuta solo con il massacro di decine di migliaia di innocenti e la distruzione praticamente di ogni edificio: secondo le parole dello storico romano Tacito, “fanno un deserto e lo chiamano pace”. Anche se questo sarà il risultato, Hamas sopravvivrà come movimento clandestino a Gaza e manterrà le sue strutture altrove. Una nuova generazione di reclute si riverserà tra le sue fila o in altri gruppi islamici. Più di 1.000 militanti di Hamas sono morti negli scontri a fuoco con l’esercito israeliano il 7 ottobre e questo era il destino che si stavano aspettando svegliandosi quella mattina. Erano giovani che avevano conosciuto solo povertà e repressione e non vedevano altra via d’uscita se non quella di affrontare la violenza brutale con uguale violenza. La prossima generazione seguirà il loro percorso a meno che non venga costruita un’alternativa. 

Hamas non può sconfiggere lo Stato israeliano in un conflitto diretto, ma spera di infliggere significative perdite militari nella sua ben preparata rete di tunnel e fortificazioni. La vastità del bombardamento aereo, che utilizza le armi più avanzate del pianeta fornite dagli Stati Uniti e da altre potenze occidentali, avrà già ridotto la sua capacità di farlo, ma l’esercito israeliano incontrerà comunque delle difficoltà nei combattimenti strada per strada. Hamas ha in ogni caso già ottenuto una vittoria importante, sia sul piano militare, sia soprattutto sul piano propagandistico. È stato in grado di colpire il quarto esercito più grande del mondo con un’operazione ben pianificata, ben eseguita e spietata, dimostrando una forza capace di prendere il sopravvento per gran parte della giornata. Centinaia di soldati israeliani sono stati uccisi. La “Brigata Golani” ha subito più vittime in un giorno che nelle guerre del 1967 e del 1973 messe insieme.

Dopo decenni di sconfitte, Hamas può affermare di aver fatto insanguinare il naso all’esercito israeliano. La sua leadership sembra però comprendere che il successo militare è stato oscurato dal trattamento insensibile riservato ai civili. Alcuni rapporti suggeriscono che Hamas si aspettava una solida linea di difesa israeliana, ed è rimasto sorpreso dalla profondità con cui i suoi combattenti sono penetrati in Israele. Nei giorni scorsi ha negato che siano stati uccisi civili, altre volte ha accettato che ci siano stati massacri, ma ha incolpato i civili di Gaza che hanno attraversato la recinzione dietro i suoi combattenti e hanno attaccato i civili israeliani senza autorizzazione. Un importante portavoce di Hamas in Libano ha interrotto un’intervista quando è stato incalzato sulle vittime civili. La realtà è che Hamas ha ucciso freddamente e deliberatamente i non combattenti. I socialisti [noi diremmo, i comunisti rivoluzionari, NDT] non supportano, né condonano, né difendono il deliberato attacco contro i civili. Ciò non significa che facciamo eco alle parole ipocrite delle principali potenze capitaliste come Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia. I socialisti [noi diremmo, i comunisti rivoluzionari, NDT] sanno che la classe capitalista agisce spietatamente in difesa dei propri interessi, difendendo quando serve (a loro) le brutali tattiche militari come “necessarie” e liquidando le sofferenze dei civili come “danni collaterali”. George Bush si vantava dell’ondata “shock and awe” di attacchi missilistici e bombardamenti nelle prime ore della seconda guerra in Iraq. Elettricità e acqua furono deliberatamente tagliate ai milioni di abitanti di Baghdad, una delle città più grandi e antiche del mondo. Quando l’acqua viene interrotta non c’è sistema fognario e le malattie si diffondono. Senza acqua e senza energia elettrica, il cibo diventa difficile da reperire. Questo assalto a Baghdad differisce dall’invasione russa dell’Ucraina solo per la sua maggiore efficienza, oltre che lo sforzo degli Stati Uniti di evitare il tracollo ucraino dopo l’invasione dello scorso anno. Gli eserciti di Putin sono meno efficaci e meno preoccupati di nascondere le proprie azioni. Anche i media occidentali svolgono un ruolo chiave, esponendo e condannando le azioni dell’esercito russo mentre le azioni dell’esercito israeliano vengono spiegate e giustificate.

Esiste una soluzione sotto il capitalismo?

In tutto il mondo milioni di persone sono scese in piazza a sostegno del popolo palestinese, scioccati e indignati dall’orrore che si svolge davanti ai loro occhi. La mobilitazione continuerà nei prossimi giorni e settimane man mano che i combattimenti sul campo si intensificheranno, ma se si vuole che il movimento contro la guerra abbia successo, i numeri da soli non bastano. Il movimento ha bisogno di una direzione in grado sia di spiegare le ragioni dietro questo conflitto apparentemente irrisolvibile, sia di proporre un’alternativa credibile. Altrimenti prenderà il sopravvento un senso di disperazione e nichilismo.

Quando i e le giovani, i lavoratori e le lavoratrici pongono domande, la sinistra rivoluzionaria ha il dovere di fornire le risposte e una direzione. Purtroppo, gran parte della sinistra avanza posizioni confuse o unilaterali. Ci sono alcuni nelle manifestazioni e sui palchi che le chiudono che chiudono un occhio davanti alla sofferenza dei civili israeliani attaccati il 7 ottobre. Non vi è alcuna indicazione su come si possa porre fine a guerre e conflitti senza fine e su come si possano raggiungere la pace e la giustizia per tutti/e in Medio Oriente.

Una volta spente le braci della guerra, potrebbe svilupparsi un nuovo cosiddetto “processo di pace”, guidato dagli Stati Uniti. La possibilità di una soluzione a due Stati sarà ancora una volta sul tavolo. Il trauma determinato dagli eventi di queste settimane potrebbe innescare dinamiche di cambiamento per un certo periodo, soprattutto se emergessero nuovi leader per sostituire l’anziano capo dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas e il corrotto e screditato Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Possiamo però affermare che una soluzione nel quadro del modo di produzione capitalista è esclusa.

Le prove che il capitalismo non può risolvere l’irrisolta questione nazionale sono ovunque intorno a noi. Negli anni ’90, una serie di trattati e intese sembravano suggerire che le soluzioni fossero possibili. Gli accordi di Oslo del 1993 e del 1995 prevedevano la possibilità di una pace duratura in Medio Oriente e la creazione di uno Stato palestinese. Gli accordi di Dayton posero fine alle guerre devastanti in quello che un tempo era lo stato unitario della Jugoslavia. L’accordo del Venerdì Santo in Irlanda del Nord ha segnato la fine di trent’anni di conflitto e ha inaugurato un’era di condivisione del potere. Il conflitto tra Armenia e Azerbaigian sulla regione contesa del Nagorno Karabakh è arrivato ad un punto morto e quindi è stato congelato a metà degli anni Novanta.

Nel 2023 tutti questi accordi sono sotto stress. Da quasi due anni in Irlanda del Nord non esiste un’amministrazione funzionante poiché le tensioni sulla Brexit hanno portato il più grande partito della comunità protestante (il Partito Unionista Democratico) a ritirarsi dal governo. L’aumento delle tensioni nei Balcani ha visto il governo serbo inviare truppe ai margini del Kosovo durante l’estate e unità paramilitari serbe impegnarsi in scontri a fuoco con l’esercito bosniaco. L’esercito azerbaigiano solo poche settimane è entrato nel Nagorno Karabakh incontrando poca resistenza fa e quasi tutta la popolazione dell’enclave armena è fuggita. La tragedia del Nagorno Karabakh mette in pratica una possibile “soluzione” delle questioni nazionali nell’ambito del capitalismo: lo spostamento forzato di un intero popolo minacciato di annientamento [cioè, la pulizia etnica, NdT]. Dire che non esiste una soluzione alle difficili questioni nazionali sotto il capitalismo non significa semplicemente osservare gli eventi e aspettare il successo della rivoluzione socialista. La soluzione deve esser trovata nella lotta per il socialismo, per esser pienamente realizzata nell’ambito di un futuro socialista. La strada da seguire nell’immediato, allora, è che il movimento operaio prenda il suo posto alla testa di tutte le lotte per la liberazione dell’umanità, compreso il diritto di tutte le comunità, popoli e nazioni a determinare il proprio futuro e a vivere in pace.

In tutti gli ambiti in cui le identità nazionali si scontrano, i periodi di conflitto sono seguiti da periodi di temporanea ristabilizzazione, ma senza una reale risoluzione dei problemi più radicati. Nel capitalismo, la questione nazionale non è solo una questione di identità, ma anche di competizione per risorse scarse. Ciò è particolarmente evidente in Israele-Palestina, dove le comunità vicine competono per le scarse terre fertili e in particolare per le risorse idriche. Lo stato israeliano si è arricchito, non solo grazie ai sussidi americani, ma anche rubando acqua e risorse dalle aree palestinesi. Anche se la classe operaia israeliana rimane una classe oppressa, ha tratto beneficio da questi sviluppi.

Risolvere la questione nazionale attraverso la lotta per il socialismo

C’è una strada da seguire, allora: il primo passo è analizzare, comprendere e, da parte della classe lavoratrice di entrambi i popoli, rifiutare i propri “leader” nazionalisti e iniziare a costruire un’alternativa di classe. La tattica di Hamas non porterà la libertà al popolo palestinese. Le masse palestinesi non possono fare affidamento su Hamas o sull’Autorità Palestinese per creare uno Stato indipendente vitale o per alleviare le privazioni e la disperazione. Né la classe lavoratrice israeliana non può fare affidamento sui suoi governanti per garantire pace e sicurezza.

Affermare che questa è la realtà non è frutto della disperazione, ma un’eco della dichiarazione di Rosa Luxemburg dalla sua cella del 1915, secondo cui solo il socialismo porterà pace e una vita dignitosa per tutti. Era in prigione a causa della sua opposizione alla Prima guerra mondiale quando scrisse il suo famoso “Pamphlet Junius” [Junuis era il suo nome d’arte, che usava per i suoi scritti]. Rosa vice allora che l’umanità si trovava di fronte a una scelta tra la vittoria del socialismo o la fine della civiltà. Trasse conclusioni ottimistiche nonostante gli orrori della guerra di trincea e il tradimento dei dirigenti dei partiti socialdemocratici (della Seconda Internazionale), che si erano schierati con la “loro” classe dirigente nazionale nell’agosto 1914. Nel 1915 milioni di uomini furono impegnati in una lotta titanica nel fango delle Fiandre e della Galizia e pochi riuscivano a vedere una via d’uscita. La Luxemburg, al contrario, non ha mai perso la fiducia nella capacità della classe operaia di liberarsi dei propri padroni e di creare un nuovo mondo. Una visione del mondo marxista le ha permesso di vedere oltre il fumo dei campi di battaglia verso la futura rivoluzione socialista.

Guardare oltre la crisi immediata richiede un’analisi delle circostanze concrete in Palestina e Israele. Oggi quindici milioni di persone vivono all’interno dei confini del mandato palestinese degli anni ’40. In Israele vivono dieci milioni, di cui 7,5 milioni sono ebrei israeliani, insieme a oltre 2 milioni di palestinesi. Tre milioni di palestinesi vivono in Cisgiordania, insieme a oltre mezzo milione di coloni ebrei israeliani. Ci sono 2,3 milioni di palestinesi nella Striscia di Gaza. La popolazione totale entro i confini precedenti al 1947 è ora quasi esattamente divisa 50-50 tra ebrei e arabi palestinesi, ma questi ultimi hanno un tasso di natalità molto più elevato.

Nei 75 anni trascorsi dalla creazione di Israele, una coscienza nazionale ebraico-israeliana si è sviluppata e consolidata. Oggi l’80% degli ebrei israeliani è nato nello stato israeliano e non ha conosciuto altra casa. L’esperienza collettiva delle guerre del 1948, 1956, 1967 e 1973 ha lasciato il segno. Altri conflitti più recenti, con Hezbollah e Hamas, aumentano la sensazione di essere attaccati e minacciati da un numero molto maggiore di arabi nella regione.

L’esperienza arabo-palestinese è stata segnata dalla catastrofe, a cominciare dalla confisca di gran parte della loro terra nel 1948. Da allora, centinaia di migliaia di persone hanno vissuto la loro vita nei campi profughi e in ogni guerra hanno sofferto in modo sproporzionato. Qualunque speranza ci fosse dopo gli accordi di Oslo è scomparsa da tempo. Oggi la Striscia di Gaza è un campo di prigionia a cielo aperto, governato da Hamas, un’organizzazione reazionaria che nei sondaggi d’opinione prima del 7 ottobre aveva il sostegno di meno della metà della popolazione (43%). La Cisgiordania è governata dalla cricca corrotta che controlla l’Autorità Palestinese e che ha ancora meno sostegno di Hamas (non più del 26%).

Due Stati socialisti

Le masse palestinesi aspirano ad un proprio Stato come espressione concreta del loro diritto all’autodeterminazione. Gli ebrei israeliani desiderano decidere del proprio futuro e non si accontenteranno di nient’altro che dell’esistenza di uno Stato in cui si sentano sicuri. Questa è la realtà del 2023, una realtà con cui dobbiamo confrontarci. Come spiegò Trotsky “la lotta nazionale non può essere sospesa con il semplice riferimento alla futura rivoluzione mondiale”. Abbiamo il dovere di comprendere, spiegare e cercare di mobilitare il movimento operaio internazionale dietro la lotta per la giustizia per i palestinesi e per la pace e la sicurezza per gli israeliani, in strutture concordate di comune accordo in un futuro socialista condiviso.

L’unico modo in cui le aspirazioni di entrambi possono essere realizzate e le loro paure superate è attraverso la lotta per una trasformazione socialista della società. La lotta per il socialismo nasce dalle condizioni materiali. La povertà, l’incertezza e la disperazione sono endemiche e vengono accentuate ogni giorno dalla crisi del sistema. Nel contesto di un movimento verso una rivoluzione socialista diventerà più facile sostenere l’unità oltre tutti i confini e i confini e l’unione di tutti i popoli, comunità e nazioni. Ora, però, le divisioni che si sono inasprite nel corso di molti decenni, vengono ulteriormente inasprite nel sangue. Per molti l’idea che sia possibile vivere in pace e condividere le risorse sembra negare la realtà. Il modo per iniziare una discussione con un lavoratore israeliano o palestinese, o con un manifestante ovunque, è situare una soluzione nel contesto dell’obiettivo di un futuro socialista. La lotta per il socialismo è, per definizione, una lotta unitaria e questo fatto indica una via verso una soluzione. Unisce le persone della classe operaia. Quando i lavoratori e i giovani si impegnano in lotte unitarie su questioni di classe, arrivano a rendersi conto di avere più cose in comune con i loro compagni al di là dei confini artificiali di quanto li divida. Ciò vale all’interno delle comunità, oltre le recinzioni e i confini e attraverso le regioni. Nella lotta per il socialismo c’è da aspettarsi l’abbattimento delle barriere, non il contrario.

Tutti i confini politici hanno un carattere temporaneo, non ultimo in Medio Oriente, dove gli stati moderni furono creati dall’imperialismo britannico e francese all’indomani del crollo dell’Impero Ottomano. Confini che in un certo momento della storia sembrano immutabili e senza tempo, in altri diventeranno privi di significato e irrilevanti. Man mano che si sviluppa il processo di unione sotto il socialismo, le relazioni in tutta la regione cambieranno dall’antagonismo e dalla competizione al rispetto e alla cooperazione. Ma l’idea che i confini possano essere rimossi apparirà del tutto utopica a meno che i socialisti non sosterranno con forza che è necessario garantire i diritti di tutte le comunità, popoli e nazioni sia adesso che sotto il socialismo. A tutti deve essere garantito il diritto di determinare separatamente il proprio futuro prima di decidere di farlo insieme.

La classe operaia entra in conflitto con la propria classe dominante sia nelle sue lotte quotidiane su questioni immediate, sia nella sua lotta per un mondo migliore. La classe operaia israeliana deve sfidare la propria classe dominante se vuole raggiungere la pace e la sicurezza. I recenti movimenti di massa contro le proposte di modifica dei poteri della Corte Suprema israeliana hanno dimostrato che ciò è possibile. Quando nasce un nuovo movimento di massa, deve muoversi rapidamente per comprendere non solo gli arabi palestinesi che vivono all’interno dei confini di Israele, ma raggiungere anche coloro che vivono nei territori occupati. Se rimane entro i confini di una sola comunità – la popolazione ebraica israeliana – non avrà successo. La classe operaia e i poveri rurali del mondo arabo, comprese la Cisgiordania e Gaza, devono liberarsi delle cricche dominanti reazionarie e antidemocratiche che producono solo miseria. La Primavera Araba ha dimostrato che ciò è possibile. L’assenza di organizzazioni sviluppate, con il programma necessario per risolvere i problemi che affliggono le masse, ha fatto sì che non esistesse da nessuna parte una direzione di classe. Il risultato sono state rivoluzioni sommerse nel sangue, in particolare in Siria, o che si sono concluse nel caos e nella disintegrazione della società, come in Libia, o in un ritorno all’autarchia quando le classi dominanti hanno ritrovato il loro equilibrio, come nel caso di Tunisia ed Egitto.

Il ruolo della sinistra rivoluzionaria e del movimento operaio internazionale

Oggi ci sono più palestinesi che sostengono Hamas rispetto a prima del 7 ottobre. Sempre più israeliani hanno sostenuto il governo guidato da Netanyahu e la posizione estremista di un “grande Israele”. Trecentomila ebrei israeliani sono stati mobilitati nelle forze armate e sono pronti all’azione. Hamas e Hezbollah hanno decine di migliaia di combattenti armati disposti a morire per la loro causa. Ma sappiamo che ci sono molti in Israele che si oppongono al bombardamento e all’invasione di Gaza e ce ne devono essere molti a Gaza che si oppongono alle tattiche di Hamas, anche se sono meno visibili. Da entrambi i lati delle recinzioni e dei muri, lavoratori e lavoratrici, giovani e non, cercano una via alternativa da seguire. La sinistra rivoluzionaria ha il dovere di fornire un’alternativa, sia attraverso le sue parole che attraverso le sue azioni.

Alcuni nella sinistra rivoluzionaria sostengono che non spetta agli attivisti di altri luoghi offrire consigli a chi è in lotta, ma non farlo rafforza la direzione esistente, in questo caso Hamas. È vitale che il movimento operaio intervenga nel movimento contro la guerra nel proprio paese o regione. È anche importante che il movimento operaio e la sinistra rivoluzionaria sostengano lo sviluppo della politica di classe e delle organizzazioni di classe ovunque.
Chiediamo la fine immediata dell’assalto a Gaza, la fine del blocco e il ritiro immediato dell’esercito israeliano dai territori occupati.
Le masse palestinesi hanno il diritto di organizzarsi e lottare per un futuro migliore. La lotta deve essere sotto il controllo democratico e [noi speriamo possa esser] guidata da organizzazioni di classe, sindacati e partiti di sinistra.
I lavoratori e le lavoratrici hanno il diritto di difendersi, ma l’unica difesa sicura è attraverso comitati di difesa armata democraticamente organizzati nelle comunità locali. La tattica degli attacchi missilistici indiscriminati contro Israele e del prendere di mira i non combattenti non contribuisce alla difesa del popolo palestinese. Per questo dobbiamo lottare per farla finire.
Il movimento operaio internazionale e la sinistra rivoluzionaria devono sostenere la costruzione di partiti operai indipendenti in Palestina e Israele. Tali partiti dovrebbero unirsi nella lotta e dovrebbero convergere con altri partiti emergenti nella regione. È un imperativo assoluto del movimento operaio costruire l’unità oltre tutti i confini nazionali, anche tra le classi lavoratrici di una nazione storicamente oppressa e della nazione che opprime.
Il movimento operaio dovrebbe sostenere uno stato palestinese indipendente e socialista, accanto a un’Israele socialista. Sia gli ebrei che i palestinesi hanno una forte affinità culturale con Gerusalemme, e deve essere una capitale condivisa, oppure due capitali devono coesistere in una stessa città.
I diritti democratici di tutte le minoranze devono essere garantiti. Nella transizione al socialismo, è inevitabile che i palestinesi vivano entro i confini di un Israele socialista, e gli ebrei all’interno di una Palestina socialista. Altre minoranze vivranno in entrambi gli stati.
Il nostro obiettivo è un mondo libero dallo sfruttamento economico e da ogni forma di oppressione, inclusa l’oppressione di tutte le nazioni e comunità. Siamo a favore di una Confederazione Socialista volontaria ed equa degli Stati socialisti palestinesi e israeliani indipendenti e, col tempo, degli Stati Uniti socialisti del Medio Oriente in una Federazione socialista mondiale.

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