La manifestazione nazionale promossa dal Collettivo di fabbrica GKN, le dinamiche del conflitto di classe e noi.

La lunga pandemia ha approfondito e rilanciato alcune tendenze affermatesi con la Grande Recessione. In quest’ultimo decennio abbiamo infatti visto frammentarsi il capitale, i ceti intermedi ed anche il lavoro. Il capitale, in primo luogo, si è scomposto su diverse direttrici: grandi imprese sono scomparse (Alitalia) o hanno ridotto fatturato e manodopera (Eni o Tim), alcune sono cresciute (Poste, Ferrero, Fincantieri), altre sono diventate perno di multinazionali (Luxottica, Atlantia) o ne sono state acquisite (Pirelli, Ducati, FCA, Italcementi), mentre sono maturate nuove piccole multinazionali (il cosiddetto quarto capitalismo di Mapei o Brembo). Si sono quindi divaricate le strategie di accumulazione e le conseguenti politiche padronali (esitate, ad esempio, nelle spaccature sul rinnovo del CCNL alimentari). Nella crisi è collassato il blocco dei ceti medi: i distretti e i piccoli commercianti sono stati affondati da euro, liberalizzazioni ed e-commerce; alcuni settori professionali sono stati sussunti (formalmente o realmente) da catene di servizi; altre piccole imprese, settori professionali, tecnici e dirigenti hanno invece migliorato proprio le proprie condizioni in termini di mercato o di reddito. In questo decennio, infine, si è ulteriormente scomposta e disorganizzata la classe, con lo snellimento delle grandi fabbriche, l’esplosione delle filiere, la diffusione delle tecnologie digitali nei processi produttivi, ben oltre la faglia tra pubblici e privati, grande e piccola impresa, stabili e precari, nord e sud che aveva segnato la lunga onda depressiva neoliberista. I conflitti, ma anche le coscienze, si sono frammentate per stabilimenti o per settori. Il lavoro si è percepito sempre più come una moltitudine, sfaldandosi la percezione di uno scontro generale tra classe e capitale, mentre la sinistra politica perdeva ogni credibilità (governo Prodi e successive vicende) e si alzava una travolgente onda reazionaria.

Il lungo lockdown, la generalizzazione delle misure di sicurezza e la più profonda recessione dalla seconda guerra mondiale hanno colpito soprattutto alcuni settori (intrattenimento, traporti e turismo) e alcune condizioni (autonomi e precari). La ripresa, trainata da un nuovo e immane intervento pubblico (200 miliardi di euro in due anni, al netto del PNRR) ha riallineato i settori, ma non ha eliminato le divergenze. Anzi, per certi versi le ha approfondite. Così, a guidare la ripresa sono state tre regioni del Centro-Nord (Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto), che dal 2000 si sono imposte come il nuovo triangolo produttivo del paese. Così, crescono in particolare le esportazioni di beni intermedi, a fronte di una sostanziale stabilità dei beni strumentali e un calo dei beni di consumo ed energia. Si delinea cioè un rilancio delle imprese inserite in filiere internazionali, mentre si registrano difficoltà in quelli nazionale, in particolare nel meridione. A questo si aggiunge che una quota significativa di aziende ha incontrato già in autunno, prima della guerra, difficoltà di approvvigionamento (il 20% nei servizi ma ben il 60% nell’industria, specialmente chimici, gomma-plastica e metalmeccanica), a partire dalla nota questione dei semiconduttori. Difficoltà che si sono proiettate sui prezzi di vendita e i tempi di consegna, come nella riduzione dei margini di profitto. Tutto questo rilancia le dinamiche centrifughe del capitale italiano e si riverbera sulla dinamica di classe, accompagnando e amplificando quella perimetrazione territoriale, professionale e d’impresa che si è imposta negli ultimi anni. Infatti, i conflitti nei rapporti di lavoro, le vertenze, i cicli di lotta sono profondamente segnati nelle forme e nei tempi dalle specificità di ogni settore, rendendo più complesso intrecciare i diversi percorsi.

La lunga pandemia non ha cancellata la lotta di classe, però ha reso più frammentate relazioni e identità. Lo abbiamo visto negli scioperi del marzo 2020, nella conflittualità della logistica, nelle tante vertenze locali, come nelle mobilitazioni che si sono moltiplicate a partire dalla fine del lockdown. Però, con le misure di contenimento, sono cambiate le relazioni e le abitudini sociali delle persone. In primo luogo, la percezione della realtà è sempre più filtrata dall’uso dei social (vedi il massivo aumento con il lockdown), mentre si sono ridotti i contatti diretti (Drolet e al, 2021), anche sul lavoro (Jarvis e al, 2021), a partire dai 6,5 milioni di lavoratori e lavoratrici coinvolti nello smartworking (ancora 5 milioni nel 2020 e oltre 4 milioni nel 2021, di cui 1,77 mln nelle grande imprese e 860mila nel pubblico impiego). Così, in molti posti di lavoro sono cambiate le relazioni e la circolazione delle informazioni: si sono ridotti cioè proprio quei momenti di socialità che strutturano lo sviluppo di rappresentazioni condivise. Così, la pandemia ha impattato anche sulle identità collettive (Abrams, Lalot, Hogg 2021), innescando una ricerca di supporto e quindi un maggior senso di coesione (Hawdon e Ryan, 2011), però anche polarizzando le distanze rispetto altri gruppi (Hogg, 2014): si è cioè innescato un processo di coesione rivale (Abrams, 2010), che salda i rapporti sociali in competizione con altri gruppi (Abrams et al., 2019). Ad imporsi, però, non è stata la contrapposizione tra le più generali identità di classe (lavoro e capitale), ma si sono moltiplicate quelle tra le diverse realtà specifiche già sottolineate dalle fase o, ancora di più, tra quelle rese più salienti dalla pandemia stessa (ad esempio, vax e novax).

Oltre questo tempo sospeso. Queste dinamiche, congiunturali e di lungo periodo, hanno segnato quindi questa stagione, rendendo difficile la generalizzazione delle lotte e l’innescarsi di movimenti di massa (lo abbiamo visto nella scarsa propensione al conflitto di molti settori, nella drammatica partecipazione agli scioperi nella scuola a giugno 2020 o nella funzione pubblica nel dicembre successivo, nella dinamica isolata del percorso dei cosiddetti combattivi). In estate e in autunno si sono però riempite nuovamente le piazze. I pride da giungo in poi, youth4climate a Milano a settembre, il corteo in solidarietà della GKN a Firenze il 18 settembre, lo sciopero unitario dei sindacati di base del 11 ottobre, la piazza sindacale del 16 ottobre contro l’assalto alla sede Cgil, lo sciopero generale CGIL e UIL di dicembre, la ripresa delle mobilitazioni studentesche tra autunno e febbraio. Nonostante questa positiva ripresa, però, non si è riusciti a superare una frammentazione che sembra proprio segnare il presente. I cortei estivi del Pride e quelli sul clima a Milano, con una dominante partecipazione di giovani e giovanissimi, sono rimasti nel perimetro occasionale degli eventi; il corteo della GKN di settembre, che ha visto un coinvolgimento di massa in città e in Toscana, ha avuto una proiezione nazionale molto più limitata; lo sciopero dei sindacati di base dell’11 ottobre, oltre che limitato (23mila aderenti nel pubblico e un impatto relativo nei traporti), ha visto divisioni tra i promotori e soprattutto l’emersione delle contrapposizioni su vaccinazioni e greenpass; la piazza del 16 ottobre ha visto una partecipazione significativa, attivisti sindacali e per certi versi popolo, ma il coinvolgimento dei posti di lavoro è stato molto più ridotto (pochissimi gli striscioni di azienda e di fabbrica); lo sciopero del 10 e del 16 dicembre, CGIL e UIL, è stato comunque limitato e, soprattutto, nonostante gli impegni si è rivelato esser occasionale; la mobilitazione studentesca rimane circoscritta, oltre che divisa nelle sue dinamiche territoriali e politiche.

Manca cioè la capacità di unire la classe lavoratrice. In questa fase le diverse realtà, composizioni e identità del lavoro, come le diverse soggettività, impostazioni e progettualità politiche nella classe, hanno difficoltà a riconoscersi e convergere nelle mobilitazioni. Stenta cioè ad innescarsi una dinamica di massa. Da una parte, i rapporti e i conflitti nella produzione rendono difficile l’autorganizzazione di un movimento politico di massa, come ad esempio teorizzato in altre fasi da Pino Ferraris. Dall’altra parte, mancando le soggettività politiche e sindacali, non riesce neanche a svilupparsi un fronte unico di classe e di massa. Nonostante si sia di fronte ad una crisi economica mondiale che si aggrava, con una disoccupazione in aumento ed un capitale internazionale passato a un’offensiva sistematica, deprimendo il salario e il tenore di vita degli operai; nonostante inizia ad esser evidente che il rischio di una nuova guerra imperialistica, o addirittura parecchie guerre di questo genere, NON si è ridestata fra gli operai una tendenza spontanea e letteralmente inarrestabile all’unità. I nuovi strati politicamente meno sperimentati NON sognano l’unione di tutti i partiti operai e di tutte le organizzazioni operaie in generale. Nonostante nelle condizioni generali in cui ci si trova ora è inevitabile che ogni seria azione di massa, anche se muove solo da richieste di carattere parziale, ponga all’ordine del giorno problemi più generali e fondamentali, il problema è proprio la difficoltà a sviluppare una seria azione di massa. La tendenza spontanea all’unità e il sogno di un’unità delle diverse organizzazioni sono sostanzialmente estranee all’immaginario di massa, perché l’esistenza stessa di un unico campo politico e sociale del lavoro non è più percepito dalla grande maggioranza di lavoratori e lavoratrici.

L’unica realtà organizzata di massa che rimane, la CGIL, l’unica che ad oggi seppur con difficoltà e fatica potrebbe farsi carico di questo obbiettivo, è sostanzialmente bloccata dal suo impianto concertativo, dalla sua strategia di cogestione della crisi, oltre che dalla tendenza ad accompagnare le divisioni della classe per mantenervi un radicamento (vedi la politiche sindacali e contrattuali, diverse nelle diverse categorie). In modo simile e parallelo il sindacalismo di base e conflittuale, al di là delle storiche divisioni che lo hanno caratterizzato (spesso legate alle diverse soggettività politiche), al di là delle sue modeste dimensioni, fatica anche solo a raggiungere una propensione di massa, perché è diviso da diversi radicamenti, prassi e modelli sindacali sviluppati in diverse frazioni della classe. Questa assenza allora pesa: interagisce e approfondisce la disorganizzazione del lavoro, permette la penetrazione dei movimenti reazionari nelle classi subalterne, impedisce la diffusione di vertenze parziali su cui innestare una dinamica più generale di trasformazione sociale.

In questa assenza è emerso il ruolo del collettivo di fabbrica GKN. Questa realtà ha cioè costruito, in questi mesi, una capacità oggettiva di proiettarsi a livello di massa, non solo di costruire consenso e solidarietà intorno alla propria lotta (come avvenuti anche in altri conflitti, dalla Texprint di Prato all’Ilva di Genova, dall’Alitalia all’INNSE di Milano). Lo ha fatto in primo luogo nel suo territorio, ma lo ha fatto a livello generale ponendo al centro i conflitti del lavoro nell’immaginario diffuso, proponendo iniziative che hanno parlato all’insieme della moltitudine del lavoro, in nome di un interesse collettivo [e voi come state? #insorgiamo].

Questa capacità, in primo luogo, è costruita sulla solidità di quell’esperienza. Lo storico stabilimento FIAT di Novoli, poi trasferitosi a Campi Bisenzio e comprato da GKN, ha una sua lunga tradizione sindacale. La forza però di occupare lo stabilimento quando Melrose ha licenziato, la spinta a coinvolgere la città e chiamare a fine luglio ad un corteo nazionale, l’inventiva di lanciare una prospettiva generale e nazionale di mobilitazione, è stata determinata dalle vicende degli ultimi anni. In primo luogo, proprio dalla particolare struttura del Collettivo: diversamente dal logoramento che hanno spesso conosciuto le rappresentanze nell’ultimo decennio (anche per un’impostazione, nel Testo Unico del 10 gennaio 2004 come nella Carta dei diritti proposta dalla CGIL, che pone al centro le organizzazioni sindacali), in GKN contro il modello Marchionne sono nati i delegati di raccordo. Rappresentanti di reparto eletti da lavoratori e lavoratrici di ogni turno, riconosciuti contrattualmente, queste figure si rapportano con le RSU, si alternano ogni sei mesi coinvolgendo più lavoratori e lavoratrici nell’attività sindacale, permettono di preparare le assemblee e sviluppare un controllo operaio (o almeno una sorveglianza) sulle dinamiche della produzione. È proprio questo peculiare modello sindacale che, sin da subito, ha permesso di rispondere all’improvvisa chiusura dello stabilimento, tener uniti l’insieme di lavoratori e lavoratrici e proiettarsi in una dinamica di massa.

Con questa solidità il Collettivo di fabbrica ha sviluppato un’azione progressiva di generalizzazione e radicalizzazione della vertenza. Il Collettivo si è cioè fatto carico di darle una prospettiva, nel quadro dell’assenza di una dinamica di fronte unico di massa, a fronte delle titubanze e delle inconcludenze della FIOM nella gestione di quella come delle altre fabbriche in crisi (proprio quando la CGIL aveva appena sottoscritto la presa d’atto sui licenziamenti). In primo luogo, cioè, si è posto l’obbiettivo di provare a cambiare i rapporti di forza generali, in rapporto a una dinamica di massa, senza minoritarismi o necessità di segnare identitariamente discriminanti programmatiche (come ha ricordato a tutti noi Dario, al termine del corteo nella zona industriale di Campi il 24 luglio 2021). Secondo noi ha cioè interpretato con la giusta progressività, con un metodo realmente transitorio, l’obbiettivo di fare di quella specifica vertenza un’occasione generale di mobilitazione, capace di segnare avanzamenti importanti anche nelle rivendicazioni e nel senso comune. Così, consolidata l’occupazione, a settembre il Collettivo di Fabbrica ha potuto porre sul tappeto la costruzione di un corteo nazionale, e vinta la prima causa sviluppare la richiesta e poi l’elaborazione di una legge contro le delocalizzazioni, la rivendicazione di una nazionalizzazione e quella di un controllo di lavoratori e lavoratrici sulla produzione, a partire dal Polo pubblico per una mobilità sostenibile.

Certo, questo processo non è stato, e non è, lineare o senza ostacoli. Ha pesato e pesa, in primo luogo, la disorganizzazione più complessiva del lavoro, l’assenza di un fronte unico di massa e di classe, l’immobilismo della CGIL. Hanno pesato, e pesano, le inevitabile fatiche e anche gli errori di un percorso sviluppato giorno per giorno. Le altre realtà in lotta, per delocalizzazioni o per crisi industriali (come Gianetti, Alitalia, Whirlpool Napoli, Saga Coffee, Jindal Steel Piombino, ILVA, Timken, Speedline, Elica, Embraco, ecc) sono in settori e territori diversi, con storie e propensioni diverse. Il sindacato confederale, con la forza dell’insieme del lavoro, non ha voluto unificarne l’iniziativa (per esempio con una campagna nazionale contro delocalizzazioni e per le nazionalizzazioni): risulta allora complicato per una singola vertenza compattarne le diverse direzioni, talvolta arretrate nella ricerca di specifiche vie di uscita. La costruzione degli #insorgiamotour, il tentativo cioè di portare nei territori quest’esperienza e soprattutto la parola d’ordine di una mobilitazione generale, è rimasta limitata, guardata con diffidenza e sospetto da tante soggettività (in primis, FIOM e CGIL), talvolta facendo fatica ad orientarsi nella particolarità delle diverse realtà. In autunno si è anche provato a rilanciare un processo di convergenza sul terreno rivendicativo, con un documento per fare della nazionalizzazione e del controllo della produzione parole d’ordine transitorie in grado di collegare, catalizzare, unificare un fronte politico e sociale: l’assemblea nazionale di novembre alla GKN, in realtà, ha evidenziato proprio la debolezza delle diverse soggettività politiche e sindacali della sinistra, divise e competitive, non in grado di raccogliere e rilanciare questo appello in un movimento più generale.

Nel frattempo, la vertenza GKN è proseguita. Certo, non ha vinto ma ha ottenuto risultati importanti, dimostrando che la lotta paga: un compratore si è impegnato non solo alla continuità produttiva, ma anche alla salvaguardia dei posti di lavoro (dei posti di lavoro, non di lavoratori e lavoratrici). Proprio questa vertenza, però, oggi si trova in un momento particolarmente delicato: il rischio di un’archiviazione pubblica della vicenda, l’uscita della GKN (con prodotti e macchinari, il cui controllo rappresentava un punto di forza), la verifica concreta degli impegni sulla riconversione produttiva (con un piano industriale tutto da vedere).

Un momento delicato che si è intrecciato con un inverno pesante, per tutti/e. Lo sciopero generale del 10 e del 16 dicembre, contro una legge di bilancio ed una politica economica del governo antipopolare (dal fisco regressivo al mancato rilancio di sanità e scuola), si è rapidamente impantanato nelle inconcludenze della CGIL e degli equilibrismi del suo gruppo dirigente: l’annunciato proseguo della lotta si è perso nelle nebbie e lo sciopero è rimasto, di fatto, isolato e occasionale, certificando così il suo risultato limitato non come un primo passo, ma come una sconfitta. A gennaio è riesploso un rapidissimo e significativo nuovo picco pandemico, congelando il paese nella paura di un nuovo collasso di un sistema sanitario mai rafforzato. Soprattutto, con l’inverno, si è consolidata un’inflazione determinata dagli squilibri del rimbalzo economico, non occasionale, che ricade in particolare sul lavoro dipendente (energia, certo, ma anche alimentari e materie prime), oltre che su alcuni produzioni. In questo panorama, l’inverno si è chiuso con lo scoppio della guerra in Ucraina, la sua estensione, il delinearsi di uno scontro di potenze, lo stringersi dei blocchi e l’innescarsi delle conseguenti economie di guerra.

In questo cupo inverno, il Collettivo di fabbrica ha provato a rilanciare. Collegando la fase delicata della sua vertenza, la crisi e l’impantanamento delle dinamiche generali di lotta, ha proposto un corteo nazionale di #insorgiamo, esplicitamente diretto a sostenere percorsi di convergenza. A fronte dell’assenza della CGIL, che non si fa carico di questa necessità, nella mancanza di una dinamica di fronte unico di classe e di massa, ha avanzato cioè una proposta e un percorso di fronte unico, rivolto a far convergere un ampio insieme di soggetti e soggettività, non solo il sindacalismo conflittuale, le realtà classiste e internazionaliste, quel che rimane della sinistra di opposizione. Ha proposto infatti un percorso che sull’insorgenza e la convergenze prova ad incrociare i diversi settori del lavoro e le diverse soggettività politiche che lo compongono, con l’ambizione di incidere sui rapporti di forza tra le classi, sulle coscienze di massa e sui suoi immaginari, non solo sulla difesa della sua particolare vertenza. Un tentativo che è stato capace di sviluppare proprio questo profilo: in piazza infatti ci saranno i e le giovani di Friday for future (che hanno con determinazione costruito lo sciopero globale per il clima del 25 marzo in abbinata con il corteo fiorentino del 26 marzo), gli studenti e le studentesse della Lupa e dell’Unione degli studenti, i movimenti della Società della Cura e il sindacalismo di base, l’ARCI e il SiCobas, la FLC CGIL e le diverse organizzazioni della sinistra.

Con la guerra, questo corteo si è fatto carico, ancora di più, di delineare un campo generale. La discussione sulla piattaforma per il corteo nazionale del 5 marzo ha reso evidente che il movimento della pace è oggi diviso. Di fronte al salto di qualità dell’invasione russa dell’Ucraina, una guerra di attrito tra blocchi imperialisti, da una parte si è trovato chi nonostante il suo impianto pacifista (l’illusione di soluzioni diplomatiche e organismi internazionali che non colgono le ragioni di guerra radicate nell’attuale modo di produzione) ha assunto di fatto una posizione disfattista (contro l’invasione, contro l’allargamento della NATO, contro l’invio di armi all’Ucraina, in solidarietà a lavoratori e lavoratrici russi e ucraini che si battono contro la guerra); dall’altra parte si è trovato chi, nonostante il suo impianto pacifista, ha assunto una posizione di pieno sostegno alla resistenza Ucraina, compreso l’invio delle armi NATO a quel governo. La scelta della CISL di disertare Piazza San Giovanni ha portato chiarezza su quel corteo. Quel solco è stato poi approfondito dalla convocazione, proprio a Firenze, della manifestazione Cities stand with Ukraina, con un profilo evidente dal titolo, dai suo colori e dall’intervento del Presidente Zalensky, con la sua richiesta di no-fly zone e sostegno NATO alla guerra. La CGIL ha mostrato la sua ambiguità e la sua inconcludenza, coordinando la rete per la pace e il disarmo che ha prodotto la prima piattaforma contro la guerra, lavorando per annacquarla pur di tenere in piazza la CISL il 5 marzo, partecipando il 12 marzo a Firenze nonostante la sua contrarietà all’invio di armi. Proprio di fronte a questa dinamica, il corteo del 26 marzo si è di fatto assunto il carico di dare anche una prima risposta di massa contro la piazza fiorentina del 12 marzo, riportando nella stessa città e nelle stesse vie un popolo contro la guerra, che chiede con forza e determinazione di fermare l’invasione, non inviare armi all’Ucraina, rivolgere contro entrambi i regimi e contro questo ordine sociale la propria rabbia e la propria paura (#insorgiamo, per l’appunto).

Un passero è un passero. Certo, sappiamo bene che una vertenza non può essere il perno di un fronte unico di massa e di classe. Non è suo compito: non ha il profilo generale, la forza e la continuità per garantirne l’innesco e lo sviluppo, per tenerne insieme la diverse parti e portarne avanti il movimento. Nella stessa piazza del 26 marzo sono tanti, troppi, i soggetti che oggi mancano: in primo luogo, incredibilmente, la FIOM, la Camera del lavoro di Firenze, la CGIL toscana e soprattutto quella nazionale. Mancano anche alcuni sindacati di base, per la ragione esattamente uguale ed opposta (la paura che una vertenza di massa esca dai perimetri dell’influenza delle proprie organizzazioni, il timore che proprio la dinamica di questa lotta renda evidenti gli spazi e le coerenze di chi conduce un’opposizione in CGIL). La fragilità e la divisione delle diverse soggettività della sinistra politica e sociale hanno poi inciso anche sulle risorse, i traporti, la costruzione di iniziative nei territori: tutte quelle condizioni che sono cioè importanti per la sua effettiva costruzione. Una supplenza non può che esser tale: temporanea, occasionale, in qualche modo parziale.

Oggi però questo corteo non è solo quello che serve: è l’ossigeno che tiene insieme una convergenza possibile. Forse l’unico della stagione. Per questo saremo a Firenze e, nella nostra infinita piccolezza, abbiamo tentato in ogni modo a contribuire alla sua riuscita, a costruire un’ampia partecipazione politica e sociale, un’allusione se non un vero e proprio fronte unico di massa e di classe. Di questo ringrazieremo sempre il collettivo di fabbrica, che oggi, proprio in questo cupo inverno, ha posto la domanda e si è fatto carico di immaginare uno spazio. La risposta vera, proprio come ci insegna il collettivo di fabbrica, starà a tutti noi: stando a Firenze in piazza il 26 marzo e poi anche dopo il 26 marzo.

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