NELL’ULTIMO CROLLO DI BORSA, CONTINUA LA GRANDE CRISI DI QUESTO INIZIO DI SECOLO

[Articolo pubblicato sul n° 6 del 2015 di Unità di classe]

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Wang Xiaolu, giornalista di Caijing, è stato arrestato dopo il crollo di Borsa per aver “costruito ad arte e diffuso false informazioni sui titoli azionari e il mercato dei futures”. Con lui, sono stati fermati quasi 200 tra trader, giornalisti e consulenti finanziari…E’ lo stile Xi Jinping. L’attuale segretario del PCC è salito in sella dopo una faida nel Politburo con Bo Xilai, presunto riferimento di una corrente che avrebbe voluto un maggior riequilibrio sociale (la cosiddetta nuova sinistra cinese). Faida conclusa con la caduta di Bo, tra le voci di un colpo di Stato sventato dal segretario uscente, Hu Jintao (il sole24ore, 22.3.2012). In quel contesto si è aperta la lunga campagna contro la corruzione: un’epurazione di massa che ha coinvolto 250mila funzionari (Denyer, Washington Post, 13.2.15; Genghini, Polisblog, 23.7.15). Una campagna che ha colpito obbiettivi precisi: Zhou Yongkang (capo dei servizi, padrino di Bo e uno dei 9 grandi del Comitato permanente del Politburo) ed i cerchi magici degli ex premier ancora vivi (Jang Zemin e Hu Jintao). Una svolta bonapartista in corso nel PCC, che sottende ad una svolta del capitalismo cinese, in un quadro di crescenti tensioni economiche e sociali. Il crollo di agosto, infatti, non è arrivato improvvisamente. I segnali della caduta dei valori immobiliari, del rallentamento della produzione, della fragilità azionaria si rincorrevano da mesi (Focus.it 10.7.15; Bertoncelli, Ilghirlandaio, 3.4.15; Provenzani, Forexinfo.it, 1.6.15). A giugno Shanghai ha perso più del 30% del suo valore (Bremmer, Time, 24.8.2015). La fragilità economica cinese non è quindi dovuta ad un complotto, come sostenuto sulle TV cinesi,  ma neanche dalle manovre monetarie sulla yuan o dalla crisi delle esportazioni, come sostenuto su tanti giornali borghesi, italiani e non.

UNA CRISI CHE VIENE DA LONTANO.

Da cosa è originata questa fragilità? Paul Krugman, famoso economista neokeynesiano, ha recentemente avanzato una sua risposta. Da sette anni (e chissà per quanti altri ancora) stiamo vivendo in un’economia globale che procede barcollando da una crisi all’altra. Perché l’economia continua a incespicare?..Per un’immane “bolla globale di risparmio”: in pratica, una sovrabbondanza di risparmi sugli investimenti (Repubblica, 25.8.15). Persino gli economisti borghesi arrivano ad ammetterlo: la crisi delle Borse di oggi è solo l’ennesima puntata di un enorme crisi di sovrapproduzione di capitali (il risparmio, nel linguaggio di Krugman). La crisi è determinata da immani quantità di capitale che non riescono più a trovare occasioni per valorizzarsi (cioè, possibilità di generare un profitto attraverso lo sfruttamento del lavoro). La diminuzione tendenziale del saggio di profitto e l’enorme crescita di capitali ha portato ad una spasmodica ricerca di nuove occasioni di valorizzazione: nella finanza (derivati), nei nuovi mercati (globalizzazione), in nuovi settori (IT e privatizzazione servizi), in nuovi territori (Cina, Vietnam, ecc). Ma questa spasmodica ricerca non ha risolto il problema, ..e si barcolla da una crisi all’altra.

INVESTIMENTI ESTERI, ESPORTAZIONI ED OGGI INVESTIMENTI CINESI

La Cina ha avviato il suo risveglio capitalista con Deng (1979), il mercato agricolo (fine delle comuni e appello all’arricchimento) e le Zone Speciali (aree industriali a bassa tassazione, infrastrutture e scarso costo del lavoro). Con queste aree è diventata la fabbrica del mondo, garantendo ai capitali stranieri alti tassi di profitto e permettendo lo sviluppo di un capitale cinese, cresciuto su esportazioni a basso valore aggiunto (vestiti, giocattoli, piccoli elettrodomestici, ecc). Dagli anni novanta questo capitale cinese si è però progressivamente evoluto, alzando qualità e valore aggiunto delle produzioni, con la crescita di un mercato interno e proiettandosi sui mercati mondiali. Il capitale cinese è diventato oggi non solo Foxconn (che assembla i prodotti Apple, Dell, HP, Nintendo nelle più grandi fabbriche del mondo), ma anche Hair, Huawei, ChemChina, Lenovo, ChinaMobile, PetroChina, ICBC (le ultime oggi tra le prime aziende del mondo). Nell’ultimo decennio, però, la crescita cinese non è stata trainata dalle esportazioni, ma dagli investimenti, che oggi coprono il 50% del Pil (Mazzuccato, Repubblica, 21.8.2015). Il 50% del secondo PIL al mondo: 10milae300 miliardi di dollari!!! Vuol dire che ogni anno in Cina si investe più del doppio dell’intero PIL del nostro paese (poco più di 2mila mld). Una quantità immane di soldi. Per fare un esempio, prendiamo il più grande investimento nel nostro paese, la Tav (in tutto circa 30 miliardi di euro, 1440 km). In Cina si stanno completando 10660 km di linee TAV, poco meno della metà dei 25mila km esistenti nel mondo; più di Spagna, Giappone, Francia e Germania messe insieme (rispettivamente 3800, 3000, 2100 e 1600 km). Questa quantità di investimenti è anomala. La quota di investimenti sul PIL è di circa il 20% in USA, Giappone e Germania; del 17,3% nella UE (dal 25,3% dell’Estonia a poco sopra i 10% dell’Irlanda). L’Italia, con la crisi, è passata dal 20% circa al 18%. Registrano percentuali simili solo paesi con PIL molto ridotti e grandi investimenti esteri (minerari o simili), come Turkmenistan, Capo verde, Sao tomè o Mongolia. Paesi a recente sviluppo capitalista, come la Corea o l’India, hanno percentuali molto inferiori (intorno al 30-35%). Simili cioè a quelle cinesi, prima del 2007 (35-40%). 

Di fronte alla crisi mondiale, la Cina ha cambiato il proprio modello di sviluppo basato sull’esportazione, ed ha spostato circa il 10% del suo PIL sugli investimenti. Il 10%: uno spostamento immane, sostenuto dallo Stato (infrastrutture, prestiti bancari, incentivi pubblici), con una veloce crescita dell’indebitamento complessivo del paese, quadruplicato dal 2007 al 2014 e arrivato oggi a circa il 280% del PIL (cioè sugli stessi livelli dei paesi a capitalismo avanzato: USA 280% Germania 265%, con gli altri paesi in genere tra 300 e 350%, Italia compresa). Questi investimenti sono finiti su infrastrutture (TAV, aeroporti, metropolitane, autostrade, ecc), su aziende produttive (crescita stabilimenti auto nel primo mercato del mondo, nuovi stabilimenti nel centro della Cina, ecc), ma anche nelle costruzioni (con la creazione di interi quartieri, intere città, tuttora vuote). Un enorme bolla immobiliare. Questa politica alla fine ha mostrato la corda: la precipitazione di borsa è fondamentalmente dovuta alla contrazione degli investimenti immobiliari, per un’offerta in eccesso con appartamenti invenduti (Mazzuccato, Repubblica, 21.8.2015).

UNA CRISI CHE TRAVOLGERA’ LA CINA O CHE RILANCERA’ UNA SUA ESPANSIONE IMPERIALISTA?

Molti, in particolare nella sinistra, tendono a focalizzarsi sulla fragilità dello sviluppo cinese, sulle sue grandi contraddizioni sociali e demografiche, sui contrasti tra le diverse aree del paese, sull’aggressione americana, sulla possibile scomposizione del paese di fronte a queste forze convergenti. La storia ci ha dimostrato più volte la sua imprevedibilità. Oggi però è necessario in primo luogo riconoscere che la Cina è un polo capitalista emerso (e non emergente). Questo ci mette nella difficile condizione di dover capire (e spiegare) come un economia socialista, uno stato operaio per quanto degenerato, possa aver ricostruito al suo interno un modo di produzione capitalista senza particolari rotture sociali e politiche. Dovremmo rifletterci. Ma se il calabrone vola, è inutile ripetere che presto si schianterà. Bisogna innanzitutto capire come e perché sta volando. 

Anche perché le tendenze non mi sembra siano quelle dell’implosione. Anzi. La crisi cinese, inserita nella Grande Crisi di questi anni, sta determinando politiche per la sua gestione. Molti vagheggiano un cambiamento strutturale alla Pasinetti (economista cattolico sociale, post-keynesiano, appartenente al gruppo di Cambridge di Sraffa), secondo cui la priorità non va data alle industrie tradizionali (con capacità produttive in eccesso), ma ai consumi e ai servizi, come turismo, salute, scuola, IT, energia pulita e disinquinamento (Mazzuccato, Repubblica, 21.8.15). Insomma, un riequilibrio capitalistico con la crescita non solo di salario diretto, ma anche di quello indiretto (pensioni) e quello sociale (servizi pubblici), che espandendo la domanda aggregata in Cina risolva la crisi (ma, scusate, non era la politica attribuita a Bo Xilai?). 

Una riproposizione del modello espansivo del capitale USA e Europeo nel dopoguerra, permesso allora proprio dalle immani distruzioni del conflitto. Difficile che si possa riproporre oggi, in salsa cinese. Potrebbe esser più effettiva la ripresa di un modello centrato sulle esportazioni. Ma non di merci, di capitali. Per dare sfogo alla propria sovraccomulazione, si potrebbe esser tentati di costruire un’area d’influenza produttiva, commerciale e monetaria, in cui limitare ed al limite estromettere i capitale concorrenti. E’ la strada di una politica imperialista. Una strada che in Cina ci sembra già emergere. Di fronte ad un imperialismo americano che sta strutturando una propria strategia offensiva (TPP e Pivot to Asia), il regime nazionalista di Xi Jinping disegna le via della seta, una propria area commerciale, strumenti monetari (internazionalizzazione dello yuan) e di governo dei mercati (Banca Asiatica d’Investimento, Banca Cinese dello Sviluppo; Nuova Banca Internazionale di Sviluppo).

In questo quadro, si evidenzia l’importanza della crescita della coscienza politica della classe operaia cinese. La principale classe operaia al mondo per numero e per concentrazione. Una classe che nell’ultimo decennio, con il passaggio nelle grandi migrazioni urbane e la sua transizione generazionale, si è formata socialmente, ha attivato conflitti di massa, ha conquistato significativi aumenti salariali. Una classe che oggi affronta la possibile emersione di una propensione imperialista e che deve quindi porsi il compito di sviluppare una prospettiva anticapitalista e antimperialista. Su questo compito, su questo obbiettivo, è importante che tutte le avanguardie rivoluzionarie inizino a riflettere.

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