di Tiziano Bagarolo

[Dossier pubblicato su “Bandiera Rossa” n. 24, 20 settembre 1981]

Nei frequenti cambi di governo e di ministri che ha caratterizzato la cosiddetta Prima Repubblica, era regola che l’iter di impegnativi provvedimenti a medio-lungo termine passassero per le mani di numerosi ministri (nonché di enti e comitati vari) prima di approdare in Parlamento e di essere approvati. Tale fu anche la vicenda del PEN, il piano energetico nazionale, che prevedeva all’inizio degli anni Ottanta il rilancio del nucleare in Italia. Questo articolo – pubblicato sul giornale della LCR “Bandiera Rossa” n. 24, 20 settembre 1981 – esamina uno dei momenti salienti di questa vicenda. Integrano l’esame due schede dedicate (1) alla parte nucleare del piano e alla tecnologia del plutonio e (2) all’impatto ambientale delle centrali termoelettriche a carbone.

Il ministro dell’Industria Marcora ha annunciato in un dibattito alla festa milanese dell’Unità l’intenzione di varare in tempi strettissimi, entro metà ottobre, il nuovo piano energetico nazionale (PEN). Spadolini in persona ha espresso la fretta del governo di avviare la costruzione delle centrali nucleari previste do PEN in un articolo di metà agosto su “Holding”, rivista dell’IRI, la finanziaria pubblica a cui fanno capo le principali aziende del settore elettro-meccanico-nucleare. “E’ incredibile – ha scritto il capo del governo – che lo Stato non possa dar seguito a decisioni votate dal Parlamento solo perché vi si oppongono gli interessi, peraltro legittimi, di ristrette comunità locali”. E conclude affermando che d’ora in avanti la scelta dei siti per le centrali sarà effettuata dal governo “in tempi brevissimi”.

Il richiamo al Parlamento – ma bocciando il referendum non è stato impedito al Paese di pronunciarsi direttamente? – è un’indecente foglia di fico per tentare di coprire la volontà del governo di prevaricare gli enti locali e, quel che è più grave, le preoccupazioni e la volontà della gente. Oggi il governo ha in mano gli strumenti per procedere. Il CNEN ha presentato la carta dei siti, cioè la mappa delle regioni e delle località che possono ospitare le centrali nucleari e a carbone. Un nuovo piano energetico, il terzo della serie, è stato presentato al Parlamento. L’ex ministro dell’Industria Pandolfi, principale artefice del piano, ha già fatto un buon lavoro di convincimento verso alcune giunte regionali distribuendo contributi di miliardi sotto forma di “compensazioni”. Favorevole è il momento politico. Dopo anni di polemiche e di lotte che hanno paralizzato ogni decisione l’assenza di un movimento di opposizione organizzata, l’appoggio del PSI e del PCI, il silenzio complice del sindacato lasciano oggi via libera al governo. Il rischio che scelte gravi passino nell’indifferenza e senza un tentativo di risposta è grande.

Nel PEN, infatti, si configura il decollo di un impegnativo programma nucleare, con tutte le conseguenze che questa scelta comporta: inquinamento radioattivo dell’ambiente, rischi di incidente, prospettiva di sviluppo dell’inquietante tecnologia del plutonio. Ma anche l’altra scelta portante del piano, lo sviluppo su vasta scala dell’uso del carbone, non comporta minori minacce per l’ambiente e per la salute, soprattutto se dovesse mancare un’attenta vigilanza dei lavoratori e delle popolazioni sull’applicazione dei sistemi disinquinanti e sulle localizzazioni.

In che misura queste sono scelte giustificate dai bisogni reali? La tesi di questo documento è che l’Italia è giunta a un punto critico e ha di fronte scelte non rinviabili se vuole preservare le basi del suo sviluppo. Occorre diminuire drasticamente la dipendenza dalle importazioni petrolifere per migliorare la bilancia dei pagamenti e la competitività dei prodotti industriali (nei cui costi entra anche quello del petrolio). Le fonti rinnovabili non possono contribuire a risolvere questo problema che in misura marginale e a costi ancora troppo elevati. Di qui la necessita di ricorrere al nucleare. E in attesa che le prime centrali nucleari entrino in funzione verso la fine del decennio occorre prevedere un massiccio corso al carbone.

Tuttavia premesse, obiettivi e strumenti di questa strategia non reggono a un esame critico. Per formulate la previsione di una demanda complessiva di energia di 185 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio (mtep) nel 1990 si è fatta l’ipotesi di una crescita economica media annua del 3 per cento, che non fa i conti con l’attuale fase di crisi capitalistica, e di una crescita della domanda di energia in rapporto all’aumento del reddito esattamente doppia di quella del periodo 1973-79. Contrario ad ogni logica di uso razionale dell’energia è poi il netto incremento della quota dei consumi elettrici (dal 28,7 per cento del totale nel 1980 al 37,1 nel 1990) quando è noto che proprio negli impieghi dell’elettricità maggiori sono gli sprechi e maggiore è lo spazio per la sostituzione con le fonti rinnovabili, in particolare con le tecnologie solari (negli usi termici).

Un esempio di come il PEN affronta lo sviluppo delle fonti rinnovabili: si fa la stima di 2.000 MWe (megawatt) di potenza geotermoelettrica sfruttabili nel nostro Paese, ma si prevede di utilizzarne solo 200 entro il 1990. Mentre il PEN ufficiale era ancora in elaborazione e se ne conosceva una prima bozza, Mattioli e Scalia, due studiosi da anni impegnati nel comitato nazionale per il controllo delle scelte energetiche, hanno provato a elaborare un piano alternativo a partire dagli stessi dati del piano ufficiale ma da ipotesi diverse: una stima più accurata dei fabbisogni previsti, ricorso a misure (molto moderate) di risparmio e impiego, maggiore di quello previsto dal piano governativo ma inferiore alle attuali possibilità tecniche, delle fonti rinnovabili (idro- e geo-elettrica, solare). Le loro convincenti conclusioni sono che “le scelte principali della politica energetica del governo – nucleare e massiccio ricorso al carbone – non trovano motivazioni dall’interno di uno scenario, peraltro impegnato assai blandamente nella direzione del risparmio e delle fonti rinnovabili, ma un po’ più rigoroso nel fare le sue previsioni di consumo. Si tratta in realtà di scelte strategiche a priori anche se, forse, in questi ultimi anni inerzia culturale e politica, più che inconfessabili interessi delle multinazionali, sono alla base di queste scelte” (“Quale energia”, n. 1 nuova serie, gennaio-marzo 1981). Mi sembra di poter condividere il giudizio di Mattioli e Scalia, con una riserva per l’ultima osservazione: credo che i quasi 84.000 miliardi di investimenti previsti dal PEN nei prossimi dieci anni abbiano invece molto a che vedere con interessi nazionali e multinazionali.

Scheda 1 I gravi pericoli del plutonio come combustibile
Entrata in servizio entro il novembre 1981 della centrale di Caorso, completamento delle due unità da 1.000 MWe ciascuna di Montalto di Castro, realizzazione di altre quattro centrali da 2.000 MWe nei corso del decennio. Un contributo ai fabbisogni complessivi di 2 mtep nel 1985 (pari aill’1,2 per cento) e di 8 mtep nel 1990 (parz al 4,3 per cento). Investimenti di oltre 13.500 miliardi in dieci anni. Queste in sintesi le cifre del programma nucleare contenuto nel PEN. Un programma più limitato di quello proposto a metà degli anni settanta da Donat Cattin, ma si tratta solo di un punto di partenza. Il punto di arrivo naturalmente sono i reattori veloci autofertilizzanti, che hanno bisogno del riciclo del combustibile irradiato e del plutonio come combustibile. Cioè di un ciclo tecnologico che presenta alti rischi sanitari e ambientali, che può essere indifferentemente usato anche per fini militari (per costruire la bomba atomica), che per questo motivo implica un sistema di sicurezza del materiale fissile che apre la strada alla militarizzazione dell’industria nucleare e del territorio. “In Italia una decisione circa l’uso industriale dei reattori veloci non è attuale” si dice nel piano. Però si decidono tutte le azioni per “mantenere aperta” questa opzione: collaborazione al reattore Superphénix 1 con la Francia e la RFT e partecipazione al progetto Superphénix 2, realizzazione del reattore veloce sperimentale PEC del Brasimone, costruzione di un impianto pilota per il riprocessamento del combustibile e l’estrazione del plutonio. Il problema delle scorie radioattive è liquidato con superficiale leggerezza: “per le scorie radioattive ad alta attività il problema si porrà dopo il 1990 per modesti quantitativi relativi a combustibile ritrattato all’estero”; solo all’inizio del 2.000 per il combustibile ritrattato in Italia; addirittura si rimanda al 2050 la soluzione definitiva del problema del loro confinamento permanente. In altre parole: sarà affare dei nipoti dei nostri figli fare pulizia dell’immondezzaio radioattivo che lasceremo loro in eredità.

Scheda 2 Carbone sì, ma con misure antinquinamento
In attesa dell’attuazione di un più vasto piano elettronucleare il carbone è la fonte a cui ricorre il. PEN per ridurre il consumo di petrolio nelle centrali termoelettriche. Dai 18 milioni di tonnellate del 1980 il consumo del carbone salirà a 26 milioni nel 1985 (pari al 10,7 per cento del totale dei fabbisogni) e a 50 milioni nel 1990 (pari al 18,4 per cento del totale). Saranno costruite centrali a carbone per circa 16.000 MWe, una parte delle quali (per 6.000 MWe) saranno localizzate entro quest’anno. A parte pochi milioni di tonnellate all’anno, di qualità scadente, recuperabili dalle miniere del Sulcis in Sardegna, si farà ricorso alle importazioni. Il problema principale sarà però un altro: per il movimento di questa montagna di carbone, serviranno decine di nuove navi carboniere, nuovi porti infrastrutture ferroviarie e fluviali, impianti di stoccaggio e di distribuzione. Dalla lettura del piano non è chiaro chi eseguirà e pagherà questo fantastico sistema di trasporto e di nuove infrastrutture. Una cosa soprattutto è tutt’altro che definita: quali misure saranno adottate per prevenire il massiccio inquinamento che può derivare dall’impiego del carbone su così larga scala. La combustione del carbone infatti produce rilevanti emissioni di ossidi di azoto, di anidride solforosa e di ceneri volanti contenenti tracce di elementi pericolosissimi per la salute. Tuttavia esistono le tecnologie in grado di eliminare quasi per intero la dispersione nell’atmosfera di queste sostanze inquinanti. L’ENEL però non ha intenzione di applicarle per il loro costo elevato e si atterrà al sistema tradizionale della dispersione mediante alti camini. E’ una soluzione inaccettabile per impianti di grandi dimensioni quali sono le centrali termoelettriche previste. In ogni caso le centrali dovrebbero essere localizzate lontano dai centri abitati o da aree già particolarmente inquinate. Siamo per dire sì al carbone (per poter dire no al nucleare). Ma non è un sì sempre, comunque e dovunque. Nel merito di ogni singola scelta deve esercitarsi il controllo delle popolazioni e dei lavoratori interessati.

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