di Tiziano Bagarolo

[pubblicato “Bandiera Rossa” n. 10, 29 marzo 1981].

Adesso siamo al piano Pandolfi. Il primo a parlare di Piano energetico nazionale (PEN) era stato nel 1975 Donat Cattin, dopo lo shock delta crisi petrolifera del 1973-74. Donat Cattin sognava di riempire l’Italia di centrali nucleari, almeno 20 entro il 1990. Ma il suo piano, anche se ridimensionato dalla mozione votata dal parlamento nel 1977 che contemplava soltanto 12 centrali nucleari, è finito sepolto nei cassetti ministeriali per i rapidi avvicendamenti nella poltrona di ministro dell’Industria, conseguenza dell’instabilità politica di questi anni, e per l’opposizione che, come a Montalto di Castro, si è sviluppata ogni volta che i progetti cartacei hanno lasciato il posto alle ruspe.

Inoltre c’è stata la recessione che ha di molto ridimensionato le previsioni dei fabbisogni; c’è stato due anni fa l’incidente di Harrisburg con il crearsi di un’opinione pubblica sensibile al problema della sicurezza del nucleare e agli argomenti degli antinucleari.

L’anno scorso è stato Bisaglia a provarsi ad affrontare queste questioni, approfittando di un’altra “crisi” petrolifera (rivelatasi subito per quello che era, una colossale speculazione, come denunciammo su “Bandiera Rossa” n. 26 – 1979). Bisaglia varava un nuovo PEN (“Bandiera Rossa” n. 5 – 1980) che riformulava le previsioni di consumo in modo più realistico e indicava nella combinazione carbone-nucleare la strategia energetica per gli anni Ottanta. Al tempo stesso con la conferenza di Venezia sulla sicurezza nucleare cercava – con scarso successo – di tranquillizzare le inquietudini dell’opinione pubblica dopo Harrisburg.

Ma, come è noto, anche la strada di Bisaglia non è stata sgombra di ostacoli e su uno di questi, una storia di spie e petrolio, con un giornalista ammazzato di mezzo, anche Bisaglia ha dovuto passare la mano.

Pandolfi fino a poco tempo fa non non ha fatto che ripetere che non intende presentare un nuovo piano ma solo aggiornare quello di Bisaglia. Comunque la sostanza cambia poco.

Per quel che riguarda i dati previsionali, al nuovo PEN di Pandolfi si potrebbero muovere le stesse critiche di metodo e di sostanza che già avevamo fatto a quello di Bisaglia. Le previsioni sono chiaramente gonfiate; non solo perché sopravvalutano i bisogni futuri, ma anche perché il piano non prevede nessuna concreta politica contro gli sprechi, per riorientare in modo più razionale il formarsi della domanda, perché accetta supinamente il perpetuarsi delle tendenze dell’attuale modello di sviluppo capitalistico. E non potrebbe essere altrimenti, dal punto di vista di un governo padronale.

L’intervento è quindi dal lato dell’offerta di energia, il che significa due cose: politica degli approvvigionamenti e politica della produzione elettrica.

Primo obiettivo, in entrambi i casi, la riduzione della dipendenza dal petrolio. Dovrebbe essere realizzato con un incremento che ha del fantastico dell’uso del carbone: tre anni fa si puntava ad arrivare a 9 milioni di tonnellate annue; adesso si parla di 37-40 milioni di tonnellate nel 1990, senza che sia chiaro come saranno risolti gli enormi problemi di approvvigionamento, di infrastrutture, di impatto ambientale che questo implica.

In aggiunta dovrebbero essere realizzati altri 6 mila megawatt di nucleare (6 centrali). Sembrerebbe il nucleare “limitato” e “controllato” che ha sempre chiesto il PCI, se non fosse per il grosso impegno di ricerca nel settore dei reattori autofertilizzanti, sancito dai mille miliardi destinati al PEC, il reattore veloce sperimentale che sta sorgendo a Brasimone, sull’Appennino, e se non fosse per l’impegno nel progetto Superphénix con la Francia. In altre parole il nucleare resta una scelta a lungo termine che punta direttamente, dopo l’avvio con le tecnologie “provate” di licenza americana, allo sviluppo della tecnologia al plutonio di realizzazione europea (con Francia e Germania).

Per il resto c’e un certo peso riservato al gas naturale (che acquisteremo da Algeria e Unione sovietica), un incremento trascurabile, al di sotto delle potenzialità, per l’energia idro e geotermoelettrica. Marginale il contributo delle altre fonti rinnovabili (solare, biomasse, eolica, ecc.), anche a livello di ricerca (neppure 300 miliardi su 2.500 stanziati per il CNEN).

Ma nell’immediato il vero problema non è il piano scritto sulla carta. E’ il tentativo di creare le condizioni per farlo passare senza opposizioni. Una questione che si chiama prima di tutto reperimento dei siti di insediamento delle nuove centrali nucleari e a carbone.

Pandolfi, a questo proposito, si è impegnato in un giro d’Italia che lo ha già portato a Montalto di Castro, a Porto Tolle, in Val Brembana, per ammorbidire gli amministratori locali con promesse di aiuti, incentivi e programmi di sviluppo in cambio dell’accettazione sul loro territorio di una centrale nucleare o a carbone.

Le prime regioni stanno dando il loro assenso alla scelta dei siti fatta dal CNEN: e questo era un ostacolo dei più importanti da superare. Il sì della Puglia e del Piemonte è ufficiale proprio in questi giorni. Altrettanto dovrebbero fare Lombardia e Toscana. I siti previsti dalla carta del CNEN sono in Puglia presso Manfredonia, sotto la penisola del Gargano, nei pressi di Otranto; in Toscana nell’isola di Pianosa (evidentemente ci si aspetta di incontrare meno opposizioni dato che l’isola è pressoché disabitata); in Lombardia lungo il corso del Po; in Piemonte nella zona tra Ivrea e Vercelli. Altri siti sono stati individuati nel basso Friuli, in Veneto nella zona di Portogruaro, nella Maremma toscana, sulla costa ionica.

Organizzare la controinformazione su queste scelte e la mobilitazione popolare per contrastarle è il primo terreno di iniziativa per il movimento antinucleare, che sarà tanto più efficace quanto più coinvolgerà il movimento operaio organizzato, i consigli di fabbrica, gli studenti, sfruttando le contraddizioni che ciò aprirebbe nel PCI e nel sindacato.

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