di Tiziano Bagarolo

[Pubblicato su “Bandiera Rossa” n. 5 del 10 febbraio 1980]

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Con il metodo che ormai lo caratterizza – quello dei colpi di mano e dei decreti legge – il governo Cossiga sta passando dalle parole ai fatti anche per quel che riguarda la politica dell’energia, a dispetto delle accuse di non averne una e di muoversi con incoerenza e improvvisazione, accuse rivoltegli dal PCI e dalle organizzazioni sindacali.

In realtà il governo attuale le sue scelte le ha fatte e, a lasciarlo fare, le porterà fino in fondo. Sono scelte, tanto nel campo degli approvvigionamenti del petrolio quanto in quello della produzione di energia elettrica, in linea con gli interessi del grande capitale italiano e multinazionale. Come si conviene a un governo borghese che si rispetti quando è in ballo uno dei settori centrali dell’accumulazione capitalistica.

Per quel che riguarda l’approvvigionamento petrolifero, il decreto di fine dicembre [1979, ndtb] ha di fatto sancito la liberalizzazione dei prezzi e la fine di ogni controllo: è stato adottato un sistema di adeguamento automatico del prezzo riconosciuto ai petrolieri sul mercato italiano a quello in vigore sul mercato internazionale. In base a questo meccanismo oggi i petrolieri che vendono i loro prodotti in Italia spuntano 29,5 dollari a barile contro il prezzo medio praticato dall’OPEC di 26,6 dollari e realizzano un ampio margine di sovrapprofitto. Non a caso il deficit previsto a dicembre in misura del 25/30 per cento dei fabbisogni è sceso ormai all’8 per cento.

Quello che questa politica significa è chiaro: si tratta, per così dire, di una “resa a discrezione” alle compagnie petrolifere private, estere e nazionali. I rischi di restare a secco restano tutti, perché il rubinetto petrolifero rimane nelle mani delle compagnie, che possono aprirlo o chiuderlo, a seconda che ritengano remunerativi i prezzi praticati in Italia, quando vogliono. In compenso la politica di alti prezzi vuol dire più inflazione “da profitti” dei petrolieri – altro che “tassa dello sceicco”! – cioè attacco al potere d’acquisto dei salari.

Le scelte che riguardano la produzione elettrica sono contenute nel programma decennale dell’ENEL approvato 1’11 gennaio [1980, ndtb] dal CIPE. Si possono riassumere nella previsione di un largo ricorso al carbone e al nucleare. Trascurabile invece l’impegno per sfruttare e sviluppare le fonti rinnovabili e per promuovere la razionalizzazione dei consumi elettrici ed eliminare gli sprechi.

E’ un piano colossale: prevede una spesa di 20.600 miliardi [di lire, ndtb] (a prezzi ’79) fino al 1984, e attorno ai 50.000 miliardi per il 1990. Viene giustificato con la necessità di fronteggiare un deficit di potenza elettrica ormai alle porte e che rischia costantemente di precipitarci nei black-out, e di farlo cercando di diminuire la dipendenza dalle importazioni petrolifere.

A non procedere subito sulla strada indicata dal governo rischiamo di far precipitare la situazione economica e di avere altre centinaia di migliaia, forse un milione di disoccupati in più, ha ammonito il ministro del Bilancio, Andreatta, il vero padrino di questo nuovo piano nucleare.

Dopo le minacce di restare al buio, dopo la pesante stangata sulla bolletta e sui prodotti petroliferi giustificata con una presunta “tassa dello sceicco”, i responsabili governativi ricorrono al ricatto dell’occupazione e del posto di lavoro per imporre delle scelte che preoccupano l’opinione pubblica e che presentano un prezzo salatissimo.

Un’analisi del piano, per quanto ancora sommaria, dimostra bene che esso, così com’è concepito, non è assolutamente essenziale per lo sviluppo economico e sociale del Paese e non tiene nel minimo conto le preoccupazioni diffuse per l’ambiente e la sicurezza delle persone. Esso è piuttosto rispondente agli interessi di un settore capitalistico dal peso crescente in Italia e già molto potente nei maggiori Paesi capitalistici, cioè quello elettromeccanico-nucleare. Un settore che in Italia ha per protagonisti la FIAT (detentrice della licenza per il reattore PWR-Westinghouse), l’Ansaldo, la Finmeccanica, la Ercole Marelli, in stretto collegamento con le multinazionali estere del ramo: Westinghouse, General Electric, Brown Boveri, ecc. Lo ha ben presente Andreatta quando dice che il piano serve “a portare l’industria energetica italiana alla pari con i concorrenti di altri Paesi”, o Corbellini, presidente dell’ENEL, quando afferma che esso contribuirà “alla ripresa degli investimenti produttivi e delle attività delle industrie nazionali del settore”.

Vediamo un po’ meglio. Il piano è costruito sull’ipotesi che la domanda di elettricità crescerà nel prossimo decennio a un tasso medio annuo del 6,8 per cento, in presenza di una crescita del reddito tra il 4 e il 4,5 per cento all’anno. Si passerà da un consumo nel 1979, di circa 175 miliardi di chilowattora per una potenza installata di circa 36.000 megawatt, a un consumo previsto di circa 300 miliardi di chilowattora per una potenza installata di circa 75.000 megawatt nel 1990.

Tanto le stime globali quanto il tasso di crescita dei fabbisogni, benché ridimensionati rispetto alle passate previsioni dell’ENEL, appaiono sopravvalutati. Appare ottimistica la previsione di crescita dei reddito, vista la fase di depressione in cui siamo entrati. Inoltre, negli ultimi anni il tasso di aumento “spontaneo” dei consumi elettrici si è progressivamente avvicinato al tasso di aumento dei reddito nazionale, secondo una tendenza riscontrata anche in altri Paesi sviluppati. Si può ridurlo ulteriormente attraverso una politica di razionalizzazione dei consumi che elimini gli usi impropri dell’elettricità (per riscaldare l’acqua o l’aria, ad esempio) nei quali essa può essere sostituita da una fonte meno pregiata. Ma di avviare seriamente una politica di questo tipo nei programmi dell’ENEL e del governo non c’è traccia di un’intenzione.

Inoltre, è possibile, a parità di consumi complessivi, ridurre la potenza da installare riducendo il margine di riserva che in Italia è più elevato che in altri Paesi.

Non siamo in condizioni di quantificare il discorso condotto fin qui, ma si tratta senza dubbio di varie migliaia di megawatt di potenza delle quali si può fare a meno, forse una decina (pari alla potenza elettronucleare prevista).

Ma torniamo ai piani dell’ENEL. I futuri fabbisogni elettrici l’ENEL conta di soddisfarli costruendo altre centrali termoelettriche per 14.000 megawatt, quasi interamente a carbone, 5 centrali nucleari per complessivi 10.000 megawatt di potenza (a cui si aggiungono 2.000 megawatt della centrale in costruzione a Montalto di Castro), impianti idroelettrici per 1.800 megawatt, geotermici per 110 megawatt e impianti turbogas per 1.130 megawatt da destinarsi per coprire la domanda di punta.

Le cifre sono eloquenti: si tratta di una scelta “carbone-uranio” che lascia allo sviluppo delle fonti rinnovabili idroelettrica e geotermica solo gli spiccioli. Alle altre, solare, eolica, ecc., neppure quelli.

Assolutamente ingiustificato appare soprattutto l’impegno limitatissimo nella direzione delle fonti idroelettrica e geotermica che, secondo studi attendibili (rapporto WAES-Italia, studi dell’ENI e dell’ENEL stesse), possono dare in tempi rapidi un notevole contributo (tra 3.000 e i 6.000 megawatt a costi competitivi la prima; nettamente di meno la seconda, ma senz’altro in relazione agli investimenti che le verranno dedicati. Fonti, oltretutto, pulite, nazionali e che non pongono particolari problemi tecnologici.

Il carbone appare una scelta inevitabile nell’immediato, soprattutto se si vuole evitare di ricorrere al nucleare. Ma si tratta sempre di una tecnologia “dura”, gravemente inquinante, come del resto l’olio combustibile o il turbogas, se non vengono applicati i dispositivi antinquinamento (che esistono). Bisognerà esercitare il più stretto controllo in questa senso; un compito che deve vedere in prima fila le organizzazioni sindacali.

Con la messa in cantiere delle cinque centrali nucleari da 2.000 megawatt l’una (andranno collocate in Piemonte, Lombardia, Friuli, Molise e Puglia), il governo cerca il lancio definitivo dell’energia nucleare, costretta finora a non decollare mai dall’opposizione antinucleare e dall’instabilità politica di questi anni.

Che non si tratti di un impegno “limitato” e tanto meno “reversibile” lo dimostra l’attenzione con cui se ne è curato in questo ultimo periodo il lancio pubblicitario: l’apice di tutta l’operazione è stata la conferenza di Venezia sul tema della sicurezza che ha cercato di rassicurare l’opinione pubblica producendo un rapporto in materia a cui non crede nessuno. Lo dimostra ancor meglio il quarto piano quinquennale del CNEN: esso stanzia per lo sviluppo del nucleare ben 2.500 miliardi su 2.890, lasciandone in tutto 390 per la ricerca delle energie rinnovabili e la razionalizzazione dei consumi!

E’ sempre più chiaro che c’è la precisa volontà politica di costruire un settore elettronucleare italiano capace di inserirsi nel mercato internazionale; e sullo sfondo si profila ormai la nuova generazione di reattori al plutonio.

Le forze del movimento operaio non hanno ancora assunto una posizione definita nei confronti del nuovo piano ENEL. Benché tutte, PCI, PSI e confederazioni sindacali, considerino inevitabile un certo impegno nucleare, affermano di concepirlo solo come fonte “residuale”. Il PCI, ad esempio, parla oggi di non più di due centrali nucleari.

E’ probabile che queste posizioni sfumate dipendano soltanto da preoccupazioni tattiche. Vorrebbe dire allora che la collaborazione di classe ha spinto anche questa volta i burocrati riformisti ad abbracciare gli interessi dell’avversario invece che quelli dei lavoratori. In ogni caso la battaglia ancora non è chiusa: è ancora possibile, oltreché necessario, che il movimento operaio fermi i disegni dei padroni e ad essi contrapponga un proprio piano energetico che rinunci al nucleare in favore di una politica di sviluppo delle fonti rinnovabili e di conservazione dell’energia.

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