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L’Otto Marzo ha nuovamente dal 2017 un carattere di mobilitazione reale. La spinta propulsiva internazionale di Ni Una Menos Argentina ha ridato fiato alle lotte.

Sull’onda delle grandi manifestazioni e della grande lotta delle donne argentine – che ha avuto una grande vittoria con la legalizzazione dell’aborto nel dicembre del 2020 – si è espansa una nuova ondata femminista, che ha influito su un gran numero di paesi latinoamericani, europei e negli Stati Uniti.
Una battaglia che nasce dal grido contro la violenza di genere, ma non solo. Uno dei primi slogan è «educazione sessuale per poter decidere, anticoncezionali per non abortire e aborto legale, sicuro e gratuito per non morire», e ha un carattere internazionale e intersezionale, che si rivolge a tutte le donne del mondo e a tutte le specificità oppresse, contro ogni forma di sessismo, contro la razzializzazione, il colonialismo, l’oppressione di classe.
La forza di questo nuovo Otto Marzo, sta quindi nella volontà di voler comprendere tutte le vertenze che riguardano la vita delle donne e delle soggettività oppresse sotto ogni forma. Sta anche nella rottura con il femminismo borghese, bianco, che ha espresso negli anni addietro le rivendicazioni di un settore in realtà molto limitante di donne, chiudendosi anche in alcuni casi su posizioni che andavano contro la libertà di quelle donne che non possono avere il problema del “tetto di cristallo”, perché vivono molto più vicine alle cantine – metaforiche o reali che siano-.

Per le marxiste rivoluzionarie non è per nulla difficile accogliere questa caratterizzazione internazionale e neppure la logica di intersezionalità, per noi la lotta di classe e la lotta contro l’oppressione delle donne, così come anche tutte le lotte per i diritti civili, sono connesse, perché il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente, deve necessariamente prevedere la distruzione di tutti i meccanismi di oppressione. La storia dei dibattiti nel movimento operaio così come le decisioni dei/lle rivoluzionari/e russi/e all’indomani dell’Ottobre a favore dei diritti delle donne, delle nazionalità oppresse, a favore di una scienza libera, del diritto alla libera sessualità, dimostrano che sin dalle origini nulla deve restare indietro.

La caratterizzazione più conosciuta del movimento Ni Una Menos e degli altri movimenti femministi che l’hanno fatta propria è quella dello sciopero transfemminista. Noi non valiamo? Vediamo cosa accade se non “produciamo”.

Una parola d’ordine molto forte e unificante, che recupera tutta la riflessione sul ruolo del lavoro di cura, che vorrebbe essere il ponte per unificare nella battaglia tutte le donne, da quelle inserite nella produzione e nei lavori di servizio, a quelle che svolgono lavoro di cura e riproduzione solo nell’ambito famigliare, in controtendenza con la segmentazione e la frammentazione dei ruoli nel mondo.

Ma proprio in questa particolare forma di lotta si aprono le contraddizioni e si rivelano gli elementi di debolezza di questo nuovo movimento, ai quali a tutt’oggi non riesce a dare risposta concreta. Le manifestazioni femministe realmente di massa avvengono infatti principalmente in quei paesi dove le mobilitazioni sociali, provenendo anche da spinte politiche variegate, vedono un’ampia partecipazione alle battaglie contro la borghesia o alle sue classi politiche dirigenti, mentre hanno meno capacità di coinvolgimento in quei paesi dove sovranismo e concezioni reazionarie vedono una grande ascesa. Solo la Polonia, pur a fronte di una sempre più grave involuzione antidemocratica senza particolari opposizioni sociali, conosce una sollevazione di massa delle donne contro la terrificante campagna repressiva attorno all’aborto e contro la comunità LGBTQIA+, condotta in primo luogo dal partito di maggioranza di governo, il PIS, in un delirio religioso e reazionario.

E proprio sulla possibilità di attuare lo sciopero fuori dal campo del lavoro, si incaglia ad esempio fin dall’inizio il movimento in Italia.
Se sin da principio la parola d’ordine è fortemente caratterizzata come sciopero dal lavoro di cura, comunque da subito, anche per una partecipazione importante di delegate sindacali alle assemblee, risulta indispensabile la chiamata allo sciopero da parte delle organizzazioni dei lavoratori e delle lavoratrici. Lunghe trattative, incontri, accuse di boicottaggio o di sessismo, hanno caratterizzato le richieste di Non una di meno per ottenerne la proclamazione per la giornata dell’Otto Marzo. Ma contestualmente le posizioni che chiedevano una riflessione proprio sulla necessità del lavoro per le donne si scontravano con la parola d’ordine del reddito di autodeterminazione (che via via sta diventando di libertà, che ci risulta strana come concezione, trattandosi di un sussidio statale). Spesso queste posizioni vengono criticate e rifiutate alle assemblee generali del movimento, persino ai tavoli sul lavoro, e bollate come “lavoriste”.
La difficoltà a comporre le divergenze comporta un prezzo da pagare. Il documento riassuntivo dell’assemblea di questo gennaio riconosce che solo la presenza delle delegate sindacali apre la porta al rapporto con le organizzazioni e quindi alla possibilità della convocazione dello sciopero, ma proprio l’antagonismo al ruolo  centrale  del lavoro nello sviluppo dell’ autodeterminazione e autonomia delle donne (per toglierle dallo stato di necessità) ha reso difficile questa partecipazione e gli effetti della grande crisi impongono inoltre un aggravio di impegno a tutte le donne che in quel campo si battono. Ma in una fase che vede il peggioramento generale delle condizioni delle donne, delle classi subalterne, dei/lle salariati/e sarebbe necessario unire e saldare le lotte femministe con quelle del lavoro.
Le difficoltà con cui le donne vivono la pratica politica è il primo e più radicale ostacolo alla loro partecipazione allo sciopero e riduce la pratica dell’intersezionalità. Lavoratrici immigrate nei settori marginali e nei rapporti di lavoro informali, donne senza lavoro che talvolta hanno abbandonato per un crescente aggravio del lavoro di cura causato dalla distruzione dello stato sociale e dei servizi pubblici, giovani disoccupate alla ricerca frenetica di lavoro o di sostituti di esso, lavoratrici precarie con contratti capestro, tutti soggetti ricattabili e indeboliti dalla distanza proprio dalle organizzazioni sindacali.

Quindi tornando all’incipit del ragionamento, da marxiste rivoluzionarie, internazionalismo e intersezionalismo non ci colgono impreparate. Per noi la necessità di un movimento internazionale è il sale della terra, la difesa dei diritti di tutti e tutte i/le deboli è un dato incontrovertibile: deboli perché sfruttati/e, perché sottoposti/e al governo borghese della crescita del profitto e del capitale, che proprio nel mondo globalizzato dove regna solo lo scambio delle merci, quali che esse siano (corpi inclusi) ha il suo capitolo più basso. Ma solo una maggior consapevolezza di una necessaria battaglia comune e non ideologizzata può vedere la riproposizione di un movimento di massa.

E di questo la necessità è evidente, tutte le ragioni tornano infatti alla ribalta, contro ogni propaganda.
Solo in Italia, nel 2021 assistiamo a un attacco concentrico in particolare ai diritti sulla riproduzione consapevole, dall’attacco alla RU486 sia in Abruzzo, sia in Basilicata, mentre in Umbria si favorisce l’obiezione di coscienza dei medici sulla 194 che mira ad ostacolare le interruzioni di gravidanza (si pensi poi alla preponderanza di medici obiettori alla 194 in tutte le regioni italiane, alcune delle quali addirittura non hanno medici non obiettori negli ospedali).
Si moltiplicano inoltre le notizie sui cimiteri dei feti, normati per legge, dove spesso le sepolture avvengono senza informativa ai parenti e in alcuni casi sotto croci che riportano il nome della donna che ha abortito, accomunando in modo strumentale ogni interruzione di gravidanza, spontanea o volontaria.
La pandemia ha inoltre scoperchiato il vaso di Pandora, quando le rilevazioni hanno dato notizia delle cifre, il numero di donne che hanno perso il lavoro nel 2020 era di 312.000 su un totale di posti persi di 440.000.
Così come quello che una volta era un traguardo della composizione dei tempi di vita e di lavoro anche nelle rivendicazioni sindacali, lo “smart working”, paradossalmente, ma in linea con lo sfruttamento capitalista, ha imposto alle donne ritmi segmentati e accelerati, privandole anche di una realtà di socializzazione, chiuse nelle case, divise tra lavoro salariato e lavoro di cura, così come i e le giovani nella DAD.
La violenza (per lo più perpetrata all’interno di rapporti familiari e relazionali) ha ucciso più di cento donne nel 2020 e nel 2021, un dato costante, quando non in aumento, a fronte di una diminuzione degli omicidi in generale.
La politica della destra è sempre più chiaramente sessista, omolesbotransfobica e vede iniziative di legge liberticide e repressive e una dura opposizione a quelle che propongono maggiori diritti o maggior tutela (vedi vicenda del DDL Zan).
Gli interventi dello stato, sempre in linea con il generale spostamento di risorse verso il padronato, le spese militari e il controllo del territorio, effettuano interventi familisti a riconferma della natura dei governi che si sono succeduti e non investono un euro nei Centri anti violenza o nelle case per le donne maltrattate, così come prosegue incessantemente una politica vessatoria contro l’immigrazione che è terreno di coltura della tratta dei corpi.

Ci appare evidente la necessità di una presenza forte, con un seguito di massa e obiettivi chiari, per riprendere un percorso di liberazione che negli ultimi vent’anni ha visto grandi arretramenti. Per questo pensiamo che siano necessarie parole d’ordine al passo con la realtà odierna:

  • Diritto al lavoro, parità salariale ed un salario minimo garantito;
  • Lavorare meno, lavorare tutti a parità di salario e di ore lavorate;
  • Nessuna penalizzazione economica e di mansione dovuta a maternità ed utilizzo della 104; e la liberazione dallo stato di necessità
  • Parità di accesso e di condizioni per il congedo parentale per entrambi i genitori;
  • Riduzione degli orari di lavoro a parità di stipendio per aumentare l’occupazione
  • Eliminazione degli orari spezzati introdotti in molte aziende per aumentare la produttività senza aumentare il personale (es. 8/10 e rientro 17/21) che limitano la possibilità di conciliare vita lavorativa e famigliare e le relative scelte
  • Comitati di controllo di lavoratrici nei luoghi di lavoro, per sostenere e difendere i diritti delle donne da ricatti e vessazioni
  • Piena attuazione del diritto allo studio con la rimozione degli ostacoli economici che limitano l’accesso;
  • Consultori, asili nido, servizi per le donne e la famiglia pubblici e gratuiti;
  • Eliminazione di welfare e sanità aziendale istituito con gli ultimi contratti che tolgono risorse a lavoratrici e lavoratori e rivendicazione di sanità e welfare pubblici;
  • Diritto all’aborto e lotta contro il dilagare degli obiettori, garantendo in ogni struttura una percentuale di medici ed infermieri adeguati a soddisfare le richieste;
  • Contrasto ai riferimenti di genere in qualunque settore si manifestino;
  • Potenziamento dei centri di ascolto, di supporto e antiviolenza gestiti dal pubblico.

Le compagne dell’Associazione Controvento

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