Io credo che nel 2012 si sia creato un momento di rottura, nella CGIL e nella storia delle dinamiche di classe in questo paese. Un momento che credo sia utile recuperare oggi, esserne consapevoli proprio al piede di partenza di una nuova area programmatica. Nel 2012 Marchionne propose a Grugliasco, in uno stabilimento FIAT in cui la FIOM era storicamente egemone, il modello Pomigliano: quello imposto per la prima volta appunto nella realtà napoletana e che passò poi a Mirafiori per un soffio (54%), con il voto decisivo degli impiegati; quello che prevedeva i 21 turni, la pausa mensa a fine turno, una gestione unilaterale dei processi di produzione diretto a trasformare le organizzazioni sindacali in soggetti ad essa sussidiari. La FIOM per due anni aveva fatto del contrasto a quell’accordo una prova di forza nazionale e generale, assumendo nonostante i dubbi di diversi settori CGIL una posizione nettamente contraria nei referendum e facendone elemento di mobilitazione negli stabilimenti FIAT e nel paese. In quegli anni, così, assunse definitivamente il profilo conflittuale che oggi ancora la caratterizza nell’immaginario di massa, racchiusa nell’iconografia delle felpe FIOM, a conclusione di un decennio segnato dai precontratti, dalla partecipazione a Genova 2001 e dai 21 giorni di Melfi. Una prova di forza nazionale e generale perché la FIOM aveva colto, in quell’accordo, un nuovo modello autoritario di relazioni industriali ed una strategia di accumulazione, sospinta dalla Grande Crisi e dalla competizione, focalizzata sull’intensificazione dello sfruttamento (come indicava da una parte la generalizzazione dell’ERGO-UAS,  dall’altra le confessioni di un drogato di capitale). La FIOM però in quel 2012 non seppe, non riuscì, non scelse di mantenere quell’elemento di conflitto anche a Grugliasco [lo stabilimento era da molto tempo in cassaintegrazione e si era infatti valutato difficile reggere lo scontro]: firmò l’accordo e molto rapidamente, nel giro di poche settimane, quel modello sindacale fu esteso a tutta l’azienda e a tutto il gruppo.

Questo fu un momento di rottura. A mia memoria è stato l’ultimo grande conflitto nei rapporti di produzione che è stato assunto dalla CGIL, magari anche per costrizione, ma che in ogni caso è diventato momento generale di scontro, raggruppamento e identificazione per la classe lavoratrice di questo paese. Non che dal 2012 ad oggi non ci siano stati altri momenti significativi e importanti nella lotta di classe o anche solo nell’iniziativa della CGIL: tra i tanti, io che vengo dalla FLC non posso che pensare subito allo sciopero generale contro la Buonascuola del 2015, il più esteso nella storia repubblicana. Scioperi e conflitti che non sono solo del passato più o meno recente, ma anche di oggi: guardando solo a queste settimane, pensiamo alla giornata di sciopero di Trenitalia (con un’alta adesione) o a quello del Legno il 21 aprile su una questione fondamentale come il salario. O ancora, pensiamo all’ottava giornata di mobilitazione del coordinamento macchinisti Cargo. Gli scioperi cioè ci sono stati e ci sono ancora. Però, tendenzialmente, negli ultimi dieci anni non ci sono stati più conflitti nel lavoro e del lavoro che sono state occasione di una divisione sociale del paese: capaci di innescare un’identificazione e un coinvolgimento di larga parte della classe lavoratrice, sostenuti e in grado di sospingere l’iniziativa della CGIL. Persino gli scioperi per la sicurezza del marzo 2020, che pure videro un grande consenso sociale, furono ristretti ad alcuni soprattutto settori di fabbrica e della logistica, vedendo tra l’altro una risposta preoccupata e frenante da parte del gruppo dirigente della CGIL [evitiamo che la paura si trasformi in rabbia, disse il segretario generale].

C’è stata cioè nel 2012 una sconfitta: la vittoria di Marchionne e del suo modello FCA, con l’affermazione di un CCSL autonomo. Di fronte a quella sconfitta, la FIOM e la CGIL hanno scelto di sviluppare le proprie iniziative al di fuori dai rapporti di produzione. In primo luogo, cioè, la FIOM ha evitato di sostenere gli scioperi e le azioni di contrasto dentro gli stabilimenti: ben ricordiamo quando l’iniziativa di delegati/e a Melfi, a Termoli e in altri stabilimenti fu contrastata e repressa dallo stesso Landini. La FIOM ha quindi trasposto il conflitto nelle aule di tribunale e sul piano politico, con il tentativo poi fallito della coalizione sociale. La CGIL e la Camusso, dopo aver a lungo rimandato lo sciopero generale sul jobsact (tenutosi con la sola UIL solo a dicembre, a norma approvato, e tenuto di fatto isolato da ogni sviluppo della mobilitazione, in particolare nelle categorie e nei territori), scelse di spostare l’iniziativa sulla raccolta firme sulla Carta dei diritti e i relativi referendum (voucher, appalti e art. 18). Opponendosi, però, ai referendum contro la BuonaScuola promossi dalla FLC (in particolare quello contro l’alternanza), che infatti sfiorano ma non raggiunsero le firme necessarie. E, in ogni caso, anche i referendum promossi dalla CGIL non videro mai la luce (nonostante si raccolsero oltre un milione di firme ciascuno), in quanto furono elaborati male, sterilizzati dalle scelte della Consulta e dall’iniziativa di governo.

Camusso e Landini dopo quei fallimenti svilupparono una reciproca convergenza, che ioggi sottende e salda l’attuale maggioranza CGIL. Non è stato solo, o tanto, l’intesa burocratica che ha portato prima Landini in segreteria confederale e poi ha determinato la sua candidatura a segretario generale nel 2018. E’ stata la scelta politico-sindacale di rinunciare al conflitto su salario, orario e ritmi di lavoro nei rapporti di produzione, deflettendo dallo scontro sociale. Una linea segnata dalla firma del contratto nazionale dei metalmeccanici nel 2016 (il peggiore di sempre, quello che ha bloccato gli adeguamenti all’inflazione sull’IPCA depurata, ex-post, e generalizzato il welfare aziendale), poi nei suo assi trasposto nel patto di fabbrica del 2018 (quello che ha istituito il Trattamento Economico Monetario ed il Trattamento Economico Complessivo). Io credo che la dinamica politica di questo decennio, lo sviluppo imponente dell’astensione e lo sfondamento della destra nelle classi subalterne, abbia trovato linfa proprio in questo scollamento tra quello che succede nelle realtà di lavoro, nei rapporti di produzione, e il dibattito pubblico: anche la sinistra, quasi tutte le soggettività politiche, nell’ultimo decennio hanno semplicemente smesso di guardare e di parlare quello che avviene concretamente nelle fabbriche, nelle aziende e negli uffici. Si è così smarrito spesso il senso della propria collocazione sociale, contribuendo a quel processo più complessivo di arretramento della coscienza politica e dell’indetità collettiva della classe lavoratrice nel suo complesso. Si è preferito evitare di guardare l’abisso, guardare in faccia queste sconfitte e le sue conseguenze.

Quella sconfitta, per la CGIL, non è stato un momento di riflessione, di discussione e di rilancio. Un’altra sconfitta alla FIAT, quella del 1955 alle elezioni della Commissione interna di Mirafiori, fu invece elemento di profondo dibattito e anche di ridefinizione dell’iniziativa e dell’organizzazione della CGIL. Non solo nella FIAT. Determinò la scelta di istituire le sezioni sindacali (prima conferenza di organizzazione della CGIL), superare la centralizzazione contrattuale e la moderazione salariale del dopoguerra, dare voce alle categorie e alle vertenze nei territori: in quell’occasione, cioè, si ribaricentrò il sindacato su quello che avveniva nei rapporti di produzione, sui suoi conflitti e quindi sullo sviluppo dello scontro di classe. Fu la svolta che portò allo sciopero degli elettromeccanici a Milano e alla piena partecipazione del sindacato alle dinamiche conflittuali degli anni sessanta.

Questa maggioranza della CGIL ha scelto la strada opposta. Come nell’occasione dei 35 giorni della FIAT, ha negato la sconfitta. E poi, soprattutto, ha scelto di rinunciare al radicamento e al conflitto nei rapporti di produzione. Guardate, ha scelto la strada opposta non solo per l’insufficienza della sua iniziativa in questi anni. Certo, gli scioperi sono arrivati sempre tardi, fuori tempo massimo: basta pensare agli ultimi due a dicembre, a legge di bilancio praticamente approvata, l’ultimo con la UIL poi disarticolato per date e territori (con un’adesione drammatica, di pochi punti percentuali, e piazze sostanzialmente vuote). Certo, si è voluto perseguire a tutti i costi l’unità con CISL e UIL, anche quando ha frenato e frena l’iniziativa, anche quando ha impedito e impedisce ogni serio dispiegarsi della mobilitazione (come in questo maggio, con le tre piazze fisicamente ed evidentemente separate). Ha scelto una strada opposta soprattutto perché ha pienamente assunto, ed anzi radicalizzato in senso moderato, quell’impostazione responsabile che la CGIL ha spesso avuto nei momenti di crisi: subito dopo la seconda guerra mondiale (appunto, con quella centralizzazione contrattuale e moderazione salariale che segna persino il Piano del Lavoro), all’EUR e la sua svolta nel 1978 (la politica dei sacrifici ed i licenziamenti), con la fine della scala mobile e l’accordo del 1993 (la concertazione, che determinò il blocco dei salari e lo spostamento di dieci punti di PIL a favore del capitale in un ventennio). Se infatti guardiamo il documento approvato al XIX congresso, Il lavoro crea il futuro, vediamo che la CGIL oggi propone apertamente la codeterminazione, cioè la partecipazione del sindacato alla definizione delle strategie industriali (e persino alla loro gestione); delinea un’indipendenza sindacale che diventa aperto superamento delle tradizioni politiche del movimento operaio (come rivendicato in tutti gli ultimi discorsi congressuali del segretario generale); infine, definisce la concezione dell’impresa come luogo in cui hanno spazio tutti i fattori della produzione e quindi indica il compito del sindacato nel trovare il giusto punto di equilibrio fra questi interessi diversi, con la concertazione e con il conflitto (assumendo cioè pienamente ed esplicitamente il modello sindacale proposto dalla CISL negli anni cinquanta).

Allora, noi siamo alternativi. Alternativi a questo impianto programmatico, oltre che a queste scelte e prassi. Non c’è una semplice dialettica tra maggioranza e minoranza: c’è una differenza programmatica evidente. Allora, qui stanno le ragioni della nostra area programmatica congressuale. Mi scuserà Franco [Grisolia, Ndr], ma non sono d’accordo con lui: non penso che noi oggi dobbiamo discutere il nostro impianto e le nostre proposte programmatiche. Perché queste le abbiamo già elaborate, discusse, votate e anche sottoposte a lavoratori e lavoratrici. Sono infatti queste le ragioni, i contenuti e le proposte espresse nel documento Le radici del sindacato. Certo, in quella discussione c’era chi proponeva altre ipotesi: chi non voleva assumere una posizione contraria all’invio delle armi in Ucraina, chi proponeva di articolare in modo specifico una serie di rivendicazioni. Posizioni legittime, ma che io ho ritenuto sbagliate. In ogni caso, quella discussione l’abbiamo fatta. Abbiamo definito un documento alternativo al XIX congresso della CGIL. Su quel programma e su quell’impianto alternativo oggi fondiamo un’area programmatica. Io credo con nettezza. Anche quell’elemento ricordato da Franco, la necessità prevista dalla prima delibera statutaria di indicare la propria collocazione nell’organizzazione (in maggioranza o all’opposizione), è in realtà un elemento già risolto. Sul piano politico-sindacale e su quello statutario: noi abbiamo presentato un documento alternativo, abbiamo votato contro la risoluzione conclusiva del congresso, abbiamo votato contro al Segretario generale e alla sua Dichiarazione programmatica. Abbiamo cioè assunto sia un profilo programmatico chiaro, sia una collocazione esplicita in CGIL.

Il problema è un altro. Lo ha ricordato la relazione di Eliana [Como, Ndr], ma anche alcuni interventi precedenti. Questa alternativa non vive solo e semplicemente nelle dichiarazioni ai congressi o nelle prese di posizione nei gruppi dirigenti. Con il 2,4% nella confederazione, o con il qualcosa in più che abbiamo in alcune categorie e territori, in questa o quella struttura, non vive nemmeno nella prospettiva di spostare la linea o la prassi sindacale dell’organizzazione. Sarebbe illusorio. Vive se noi siamo in grado di far vivere questo punto di vista classista e questa pratica conflittuale, la nostra alternatività, nella nostra azione sindacale concreta e quotidiana.

Oggi noi viviamo una divisione del lavoro e della sua iniziativa. La Grande Crisi, la pandemia, il rimbalzo economico, l’inflazione, la guerra, l’attuale dispiegarsi di una nuova contrapposizione tra blocchi e l’incertezza economica, tutto questa ha rilanciato divergenze nella struttura produttiva e nelle strategie di accumulazione del capitale italiano. Una frammentazione tra settori, territori, condizioni del lavoro che si riverbera nelle diverse articolazioni di classe con diverse condizioni di lavoro, diversi poteri contrattuali, diverse rivendicazioni di partenza, diversi cicli di lotta, persino diverse identità sociali. Una frammentazione che produce cioè disorganizzazione e arretramento. Così, abbiamo visto un rinnovo dei contratti pubblici con aumenti estremamente differenziati, non solo tra i diversi comparti, ma persino nel quadro dello stesso CCNL (quello istruzione e università vede oggi una prossima conclusione con aumenti complessivi nella scuola intorno al 5%, nell’università al 7%, nella ricerca oltre il 10%). Così, anche i settori che hanno segnato una forte conflittualità negli ultimi anni, come la logistica padana (cioè i tanti magazzini concentrati sull’asse tra Milano e Bologna), vedono oggi ristrutturazioni che rendono più complesso mantenere e sviluppare quell’importante ciclo di lotte di cui è stato soprattutto protagonista il SI.Cobas (è cioè sempre più difficile non solo l’affasciamento di altre realtà intorno a quelle lotte, ma anche solo la loro estensione all’insieme dei lavoratori e lavoratrici della logistica in tutto il paese, che sono ben oltre un milione). Così, la classe operaia centrale delle grandi fabbriche, quella storicamente più sindacalizzata e organizzata, è sempre più perimetrata in vertenze, dinamiche e iniziative di stabilimento (dall’ILVA a Stellantis, dalle acciaierie all’industria chimica). Non a caso la dinamica di #insorgiamo si è smorzata nella difficoltà di coordinare le aziende in lotta (ognuna con proprie dinamiche e direzioni), nell’incapacità di sviluppare collettivi territoriali, nel riproporsi di convergenze parallele che si incontravano solo in piazze occasionali.

Allora, noi costruiamo un’area alternativa nel momento in cui presentiamo il nostro documento congressuale e nel momento in cui votiamo contro la dichiarazione programmatica di Landini, ma soprattutto se da oggi siamo in grado di sviluppare un’azione nei territori e nelle categorie, nelle realtà di lavoro nelle quali siamo presenti e con le quali interloquiamo, che assume il problema di ricomporre il lavoro. Se cioè sappiamo praticare quello che chiediamo di fare alla CGIL e, in fondo, alla sinistra: in primo luogo, rimettere al centro del proprio sguardo e della propria attenzione quello che succede nei rapporti di produzione, nei rapporti tra le classi sociali nei processi di lavoro; saper dare voce, organizzare e collegare le diverse vertenze e i diversi conflitti che affrontano lavoratori e lavoratrici; saper sostenere lo sviluppo degli scioperi e l’autorganizzazione dei soggetti; saper connettere nel conflitto sociale le prospettive generali di opposizione a questo governo di destra con lo scontro quotidiano su salari, orari, ritmi di lavoro. Saremo alternativa, cioè, se sapremo riprendere e tessere il filo che proprio #insorgiamo e il Collettivo di fabbrica GKN ci ha indicato in questi ultimi due anni: tornare alle radici del sindacato, la rappresentanza generale di lavoratori e lavoratrici contro quella del capitale, a partire dalle proprie condizioni immediate ma con lo sguardo sempre rivolto alla ricomposizione della moltitudine del lavoro.

Luca Scacchi

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