Spira un vento di arretramento o l’arretramento politico e culturale che si vive in questi anni lascia spazio a dichiarazioni che un tempo si sarebbero taciute? Dichiarazioni che, evocando il più trito paternalismo, alludono ad un’idea del lavoro come moderno schiavismo, tutto piegato a soddisfare le esigenze del capitale e della sua riproduzione.

Mentre nel mondo assistiamo a sempre più fatti che ci dicono che la battaglia per i diritti delle donne possono avere fatto passi in avanti, ne hanno anche fatti indietro, si scatena oggi una giusta polemica contro “l’imprenditore” (autodefinitasi così) Elisabetta Franchi che conferma quella che è ed è sempre stata l’attitudine della borghesia riguardo il lavoro delle donne. Nel suo sproloquio sulla utilità alla produzione delle donne, che in età di possibili maternità sono poco desiderate, abbiamo una conferma, non uno scandalo.

La dichiarazione dice una cosa centrale: si deve essere utili al capitale.

Di rimbalzo le vengono contrapposte imprenditrici (certo, il vocabolo al femminile esiste nel dizionario italiano) che invece salvaguardano o hanno salvaguardato l’accesso al lavoro delle donne giovani e persino in maternità dichiarata.

Come la più citata Luisa Spagnoli, inventrice dei Baci Perugina, che all’inizio del secolo scorso introdusse asili e scuole nido negli stabilimenti. Questo le permetteva di continuare ad avere le donne in produzione. E sinceramente in quell’epoca era molto difficile pensare che le donne non avessero delle maternità, mentre la necessità di avere le operaie che le servivano in stabilimento non era un elemento secondario. Per la produzione, per l’appunto.

Chi gli anta li ha passati e ha dovuto cercare di non naufragare nell’epopea delle donne in carriera degli anni novanta o mandare giù amari bocconi nel periodo del politically correct, che con il velo di ipocrisia del non detto cercava di coprire un sessismo storico, ora cerca di non soccombere alla reazione.

Non vogliamo dimenticarci quanto siano state forti e stringenti le battaglie delle donne a partire dalla fine dell’ottocento per entrare nel mondo sociale, fuori dalla collocazione asfittica dei focolari familiari, e quanto il capitale (sempre) abbia tutto sommato ben sfruttato nei periodi storici di necessità di forza lavoro anche le forze delle donne.

Il nodo non sta infatti nelle dichiarazioni, sta nella realtà storica dell’oppressione femminile e nella realtà storica dello sfruttamento del lavoro, il cui intreccio spesso per le donne è una tenaglia. Sia che si tratti di far partecipare le donne alla produzione (come nei periodi delle guerre mondiali, quando sostituirono gli uomini arruolati), sia che si tratti di sfruttare il lavoro di cura, che continua ancora oggi ad essere un sommerso di servizi sociali non concessi dagli stati e non calcolato nella costruzione della continuità dell’umanità, il dato essenziale è che una percentuale molto alta di questa umanità (purtroppo altre donne incluse) continua a parlare (e quindi a pensare) alle donne come a un pezzo di carne. Un corpo, uno strumento.

E sempre per restare in cronaca, la realtà ci consegna una ulteriore conferma, con i fatti di Rimini. Alpini buoni, alpini cattivi. Ha poco senso, la realtà è che un corpo militare maschile ha insito nel suo essere un marchio sessista. Militari di conquista, militari di pace (un ossimoro, certo) da sempre la presenza di un alto numero di uomini inquadrati militarmente in qualsiasi contesto (persino in festa) si porta dietro uno strascico di atti sessisti, dalla violenza verbale alla violenza fisica. C’è poco da interrogarsi.

Non scandalizziamoci, invece indigniamoci. Con forza. Dire ancora e sempre che quanto cercheranno di portarci indietro, noi continueremo ad andare in avanti.

Che i diritti non si toccano, che il lavoro non deve essere schiavitù, che ogni giorno cercheremo di inventarci un nuovo modo per darvi fastidio: a tutti voi nel mondo che non avete ancora capito che siamo DONNE, a tutti quelli che nel mondo non hanno ancora capito che assieme agli uomini vogliamo liberarci di questa società reazionaria, sfruttatrice e diseguale.

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