di Tiziano Bagarolo

Gli articoli che seguono comparvero in “Bandiera rossa” nelle settimane e nei mesi successivi all’incidente.

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MORATORIA SUBITO E REFERENDUM POPOLARE PER DECIDERE

[Pubblicato in “Bandiera rossa” n. 7, 18 maggio 1986]

L’articolo che segue comparve in. Apriva a mo’ di editoriale politico la sezione del giornale dedicata alla catastrofe di Chernobyl e i suoi contenuti erano stati discussi nella segreteria nazionale della Lega comunista rivoluzionaria. In questo senso, anche se firmato da chi scrive, rappresentava il punto di vista della principale organizzazione trotskista operante allora in Italia. (t.b., 19-01-2010)

L’incidente catastrofico ‒ che i fautori del cosiddetto nucleate “civile” avevano sempre escluso che potesse accadere ‒ è purtroppo diventato realtà con conseguenze gravissime. Le vittime immediate si contano a centinaia (molte delle quali condannate a morire nel giro di poche settimane); altre migliaia, forse decine di migliaia, subiranno nei prossimi decenni gli effetti ritardati della contaminazione radioattiva dispersa dai venti su mezza Europa. I guasti ambientali sono senza possibilità di paragone. Un’estesa area dell’Ucraina, il “granaio” dell’URSS, è ridotta a un deserto impraticabile, forse per decenni. Centomila persone sono state sradicate dalle loro case, dalle loro attività, dalla loro vita. Un intero continente ‒ i suoi campi, i suoi fiumi, le sue città ‒ porterà a lungo le tracce velenose del fall-out. Incalcolabili anche i danni economici ‒ colpite duramente soprattutto le attività agricole ‒ i cui disagi sono stati moltiplicati dall’assoluta impreparazione delle autorità ad affrontare l’emergenza e la speculazione.

Una tecnologia inaffidabile. Sono solo i dati più lampanti di un quadro che oggi sta sotto gli occhi di tutti; ma insistiamo nel ricordarli perché il tentativo di minimizzare, di cancellare il peggio, di ricreare la parvenza della normalità è in pieno dispiegamento. La realtà è tale, invece, che ci pare più che sufficiente per affermare che con il nucleare non si può convivere. Chernobyl ha sepolto in modo definitivo il mito della sicurezza del nucleare “di pace”. Ha dimostrato che esso può essere ‒ e di fatto è ‒ tanto devastante quanto l’atomo di guerra. Centinaia di milioni di persone in tutta Europa si sono sentite sfiorare in queste settimane dal suo soffio mortifero. Non si può permettere che tutto questo abbia a ripetersi, non si può permettere che il diritto alla vita sia posto in balia dei venti, non si può permettere che l’ambiente in cui viviamo sia gravato da una minaccia tanto insidiosa quanto irrimediabile quale è la contaminazione radioattiva. Non è questione di “arretratezza tecnologica” dell’Est rispetto all’Occidente capitalistico (come oggi vorrebbe far credere la propaganda filonucleare di casa nostra); come non è solo questione di “priorità del profitto sulla sicurezza” (come da parte sovietica si sosteneva ieri dopo Three Mile Island). L’insicurezza e la pericolosità del nucleare sono dati intrinseci a una tecnologia che pretende di padroneggiare fenomeni fisici che si rivelano non ancora controllabili e non ancora sufficientemente conosciuti. A queste considerazioni generali occorre tuttavia aggiungere alcune valutazioni nel merito della vicenda di questi giorni.

Il nucleare è incompatibile con il socialismo… In primo luogo non si può che giudicare irresponsabile al limite del criminale il silenzio inizialmente mantenuto dalle autorità sovietiche sull’incidente e le reticenze che continuano a tutt’oggi. E’ stato in tal modo impedito un allarme tempestivo alle popolazioni dentro e fuori dell’Unione sovietica e sono state ritardate essenziali misure per difenderne l’incolumità. Con ciò il potere burocratico ha riconfermato ‒ anche nell’era di Gorbaciov ‒ la sua vecchia natura, il disprezzo dei più elementari diritti della gente, il riflesso di autoconservazione che prevale in ogni occasione e che lo porta a cercare innanzitutto di tenere il regime al riparo delle conseguenze della sua stessa politica criminale. E’ chiaro che tutto ciò non ha per noi nulla a che vedere con un socialismo degno di questo nome, il quale non può fondarsi che sull’autogestione democratica della società, i diritti civili e politici, scelte rispettose dell’equilibrio tra uomo e natura.

…e con la democrazia Non è stata meno inquietante, tuttavia ‒ in questo come in molti altri casi del genere in passato ‒ la reazione in Occidente dei governi, delle classi dominanti, dei loro mass media. L’iniziale speculazione antisovietica ha presto ceduto il campo a una sostanziale minimizzazione delle conseguenze della sciagura, almeno fino a quando non è stato più possibile nasconderne la portata. Le menzogne sui rischi del nucleare, il blackout sugli incidenti, la censura dei dati sulla contaminazione radioattiva, tutto questo è prassi abituale, puntualmente verificatasi anche in questa occasione su una scala senza precedenti, che sta a dimostrare che i profitti dell’industria elettronucleare (e i programmi strategici) hanno per i capitalisti e per i governi occidentali assoluta precedenza sul diritto alla vita e sulla libertà di informazione. Tutto ciò evidenzia inoltre l’esigenza di segretezza, di centralizzazione, di un sistema di gestione pressoché militare degli impianti nucleari, cose che costituiscono tante buone ragioni per rifiutare una tecnologia che rivela un grado elevato di incompatibilità con i diritti civili fondamentali.

Il nucleare è pericoloso e inutile. Per ciò che riguarda più direttamente il nostro paese, poi, l’emergenza di questi giorni ha portato alla luce il caos e la disorganizzazione dei centri istituzionali, l’assenza di strutture appropriate, di norme certe e di piani di emergenza affidabili. Si aggiunga il fatto che le centrali esistenti e quelle in costruzione si trovano a pochi chilometri dalle metropoli (Caorso dista 60 chilometri da Milano, Trino Vercellese 50 da Torino, Latina 60 e Montalto 80 da Roma, Avetrana 40 da Taranto, Viadana 75 da Bologna), il territorio densamente popolato, il diffuso rischio sismico: in queste condizioni il nucleare diventa in Italia un’avventura ancor più che altrove. Oltre tutto si tratta di un gioco che non vale la candela. Oggi la fonte nucleare non copre che il 3% della produzione di elettricità e poco più dell’1% del fabbisogno globale di energia del paese. Una volta completati i programmi, tra un decennio, queste percentuali non andrebbero oltre il 9 e il 3,5% rispettivamente. E con un costo di varie decine di migliaia di miliardi. Risorse che se fossero subito investite in programmi di sviluppo delle fonti rinnovabili (idroelettricità, geotermia, biomasse, solare ecc.) e nel risparmio (più appropriato sfruttamento delle risorse disponibili, adeguamento delle tecnologie, razionalizzazione dei consumi) consentirebbero di fare a meno del nucleare senza comprimere i livello di vita, preservando al tempo stesso le condizioni per un più equilibrato modello di sviluppo, rispettoso delle compatibilità ambientali, dei cicli naturali, non devastante per ii territorio, capace di maggiori ricadute occupazionali (il nucleare è viceversa un settore ad altissima intensità di capitale) e di innovazione tecnologica. Lo sviluppo del nucleare, invece, risponde soprattutto alla volontà del governo e dell’industria italiana di partecipare allo sviluppo della filiera “europea” dei reattori autofertilizzanti al plutonio, che dovrebbero sostituire nel prossimo decennio le attuali tecnologie di licenza americana. Non è un caso che sia la Francia all’avanguardia nel settore: date le reciproche interconnessioni, un intenso programma di nucleare “civile” è condizione indispensabile per il nucleare militare; il che testimonia, tra l’altro, dell’ambiguità della distinzione.

Una battaglia nella e per la sinistra Le scelte del Piano energetico nazionale vanno dunque rifiutate e ridefinite. Tutto ciò non sarà possibile se non archiviando una volta per tutte il nucleare e battendo la logica del profitto che è prevalsa fino ad ora. Grazie alla complicità decisiva della sinistra tradizionale, occorre aggiungere. Non può essere dimenticato che la scelta nucleare dell’Italia è maturata durante l’unità nazionale, con l’esplicito e convinto sostegno del PCI. Che il PSI ‒ pur tollerando al suo interno voci critiche rispettabilissime ‒ si è sempre reso protagonista delle decisioni governative. Che le organizzazioni sindacali hanno dichiarato fin dall’assemblea dell’EUR il loro consenso alle centrali nucleari. Non è un caso che la sinistra riformista abbia fatto questa scelta proprio allora, quando era impegnata a mostrarsi sensibile ai bisogni della cosiddetta “economia nazionale” (leggi delle compatibilità capitalistiche), sacrificando le conquiste materiali e culturali dell’autunno caldo e degli anni seguenti. Tra le quali ‒ merita ricordarlo ‒ c’è la tradizione di lotte contro la nocività e per la salute che introdusse nel movimento operaio italiano una sensibilità nuova per le tematiche ambientali e dalla quale avrebbe tratto ispirazione per i suoi primi passi una “nuova ecologia politica” ancorata a una logica di classe, che è (stata) specifica del nostro paese. I recenti congressi della CGIL e del PCI hanno comunque evidenziato il riaffiorare dell’opposizione al nucleare in settori forse maggioritari delle due organizzazioni (anche se di segno opposto sono le maggioranze uscite ai vertici) e ciò fa sperare che i giochi possano a breve termine riaprirsi. Per un Napolitano che si preoccupa di escludere qualsiasi pausa di riflessione (addirittura!) ci sono sicuramente, dopo Chernobyl, moltissimi militanti di altro avviso. A questi compagni, come LCR chiediamo di impegnarsi innanzitutto nella battaglia per il referendum: è questa la strada maestra per stanare il partito e costringerlo a schierarsi chiaramente.

Basta definitivamente alle centrali Nessuno può oggi negare l’esigenza di una moratoria immediata (blocco delle centrali in esercizio e interruzione dei programmi) per riconsiderare alla luce dell’incidente di Chernobyl tutti gli aspetti della scelta nucleare: sicurezza, impatto ambientale, economicità, ecc. C’è tuttavia una ragione più di fondo per pretendere questa pausa: la gente, i lavoratori, il paese debbono avere la possibilità di conoscere (mediante un’informazione corretta e un franco confronto politico) i problemi, le opportunità e le alternative della questione energetica, per poter scegliere consapevolmente e non subire una scelta imposta. Per questo la LCR fa propria la proposta del referendum popolare e lavorerà per costruire il più ampio fronte unitario. Non abbiamo dubbi. La maggioranza del paese è oggi per dire definitivamente basta al nucleare “civile”. Sarebbe l’occasione per ridare slancio e prospettiva anche alla battaglia contro i Cruise a Comiso e il nucleare militare.

 

LA ROULETTE RUSSA DELLA SICUREZZA

[pubblicato in “Bandiera rossa” n. 7, 18 maggio 1986]

E’ stato proprio con i divieti di bere il latte fresco e di consumare verdure in foglia e con gli inviti ad evitare i prati e a tenere in casa i bambini che milioni di europei hanno scoperto una semplice verità, da sempre nascosta e censurata, e cioè che le centrali nucleari sono rischiose e insicure e che la natura della loro pericolosità è di un ordine incomparabile con la natura dei rischi delle tradizionali attività industriali.

Prima di Chernobyl i fautori del nucleare avevano semplicemente dichiarato “impossibile” un incidente catastrofico, fondando la loro perentorietà sull’argomento della bassissima probabilità che gli studi teorici sulla sicurezza associavano all’ipotesi di meltdown o completa fusione del nocciolo. Il noto “rapporto Rasmussen” pubblicato nella sua seconda versione nel 1975, ad esempio, stimava che una fusione del reattore seguita da una fuga di radioattività nell’ambiente non avesse più di una possibilità di verificarsi su centomila anni/reattore (una su un milione di provocare oltre 100 morti). Questa stima era stata tuttavia criticata e corretta a una possibilità su diecimila anni/reattore dopo l’incidente di Three Mile Island.

A questo punto, continuare a dichiarare “impossibile” un incidente catastrofico era, da parte dei filonucleari, una pura e semplice falsificazione degli stessi rapporti ufficiali, un’interpretazione arbitraria. Perché, dato il parco reattori ormai in funzione, una simile stima di probabilità equivaleva ad ammettere che un grave incidente si sarebbe verificato “con certezza” in un breve giro di anni. «Nel mondo esistono circa 330 reattori in funzione, con una vita media prevedibile di circa venticinque-trent’anni; il che ci porta appunto a diecimila anni di operazione, e dunque alla certezza di un incidente in questo periodo. Un sesto di queste centrali risiede in Europa (occidentale, ndr): la probabilità di un incidente grave nei prossimi trent’anni vicino a casa nostra sarebbe dunque di un sesto, pari a quella della roulette russa» (Tullio Regge, ordinario di fisica teorica al Politecnico di Torino, sulla “Stampa” del 30 aprile scorso). Tuttavia ‒ e lo nota bene Giorgio Nebbia su “Nuova ecologia” ‒ anche questa stima si è già rivelata troppo ottimistica. «L’incidente al reattore americano di Three Mile Island si è verificato nel 1979, dopo 500 anni/reattore; il ben più grave incidente al reattore sovietico di Chernobyl si è verificato dopo appena 3.000 anni/reattore». E si potrebbe qui ricordare almeno un’altra mezza dozzina di incidenti molto gravi (almeno quanto quello di TMI) capitati a reattori civili e militari nel corso della storia trentennale dell’energia atomica, per concludere in modo definitivo che l’insicurezza e la pericolosità non sono, nel nucleare, dipendenti dai soliti fattori più o meno riducibili e controllabili (difetti nei materiali, nella progettazione, nella realizzazione, errore umano, sabotaggio ecc.) ma sono in qualche modo intrinseci a una tecnologia che pretende di domare un mostro probabilmente indomabile. Nella sua dichiarazione al TG1 dopo la notizia dell’incidente in Ucraina, il Nobel per la fisica Carlo Rubbia ricordava opportunamente che «un reattore di grande potenza è intrinsecamente instabile nel senso che, anche se arrestato, il calore prodotto spontaneamente dall’enorme radioattività contenuta al suo interno è sufficiente per fondere il contenitore e quindi per fuoriuscire, a meno che potenti pompe di raffreddamento non ne estraggano continuamente il calore prodotto. Nel caso dell’incidente al reattore americano (quello di TMI, ndr) l’involucro aveva miracolosamente tenuto».

E’ noto che una volta distrutte le barriere di contenimento nulla e nessuno possono più evitare che tonnellate di elementi radioattivi di varia natura (gas, vapori, polveri) si disperdano nell’ambiente con effetti devastanti a lungo termine. La contaminazione radioattiva, infatti, pur riducendosi con il tempo, ha tempi di permanenza geologici: il periodo di dimezzamento della radioattività varia dagli 8 giorni dello iodio 131, ai 5 anni del cobalto 60, ai 28 del cesio 137, ai 30 dello stronzio 90, ai 24.000 anni del plutonio 239. I radionuclidi, una volta immessi nell’atmosfera, ricadono su zone vastissime, entrano nei cicli naturali, nelle acque, nei vegetali, negli animali, nell’uomo; si accumulano nelle catene alimentari. Soprattutto non ci sono mezzi di alcun tipo in grado di neutralizzare la loro azione. Occorre ricordare, poi, che non sono solo gli incidenti che possono inquinare l’ambiente. Anche se in quantità minima le centrali rilasciano radioattività anche nel corso del loro funzionamento normale. Rilasci molto pericolosi ‒ e in quantità niente affatto trascurabili ‒ sono inoltre causati da tutto il ciclo di combustibile nucleare: dalle miniere, da cui il minerale di uranio viene estratto; dagli impianti di trasformazione e arricchimento, da quelli di ritrattamento del combustibile irradiato (dal quale si recupera il plutonio, riciclabile come nuovo combustibile fissile per i reattore autofertilizzanti o come esplosivo per le bombe atomiche). Resta infine il pericolo rappresentato dal problema ancora insoluto del confinamento delle scorie, cioè dei materiali radioattivi che non possono essere riutilizzati. Si tratta di rifiuti la cui vita radioattività è, in alcuni casi, di centinaia di migliaia di anni. Per ora sono immagazzinati. Ma ciò costituisce un rischio permanente e un’ipoteca sulle generazioni a venire.

 

THREE MILE ISLAND 1979, CHERNOBYL 1986: DOVE E QUANDO LA PROSSIMA VOLTA?

[pubblicato in “Bandiera rossa” n. 7, 18 maggio 1986]

Chernobyl ha immediatamente rievocato Three Mile Island che ci appare oggi, alla luce della catastrofe accaduta in Europa, come un avvertimento inascoltato. Ma chi, dopo TMI, aveva tratto fino in fondo le lezioni di quell’avvertimento? Allora dall’Unione sovietica era giunto il commento: «Qui un tale incidente non può accadere; le nostre centrali sono sicure». Chernobyl l’ha eloquentemente dimostrato… Ma oggi la situazione si ripete, con ruoli invertiti e argomenti aggiornati: «Le centrali occidentali sono più sicure» è il nuovo ritornello dei filonucleari, dall’Italia agli USA. «Un tale incidente non avrebbe avuto qui le stesse disastrose conseguenze». Paradossalmente l’incidente di sette anni fa in Pennsylvania viene oggi portato ad esempio dell’affidabilità dei sistemi di sicurezza delle centrali “capitalistiche”.

Con argomenti pretestuosi e inconsistenti. Non è vero intanto che l’esperienza dei sovietici in materia di impianti nucleari sia inferiore a quella degli occidentali. Se è vero poi che le centrali americane ed europee hanno maggiori dispositivi di sicurezza, ciò si deve unicamente alla pressione dei movimenti antinucleari; nulla, tuttavia, garantisce che i sistemi di sicurezza siano affidabili e adeguati in caso di fusione del reattore, come è accaduto a Chernobyl; da questo punto di vista il confronto tra Chernobyl e Three Mile Island è improponibile perché a TMI la fusione completa del nocciolo, con le sue incontrollabili conseguenze, fu evitata.

In ogni caso reattori simili a quello bruciato in Ucraina, ugualmente sprovvisti di un contenitore primario in cemento armato, sono diffusi anche negli Stati Uniti e in Europa (in Italia, la centrale di Latina). E’ stato veramente agghiacciante constatare nei giorni scorsi come tanta gente che ha in mano le scelte che coinvolgono la vita di milioni di persone si affrettasse a tranquillizzarci sulla “sicurezza” del nucleare, prima ancora di sapere quello che era successo in Unione sovietica. L’unica preoccupazione essendo evidentemente, il futuro dei programmi nucleari (e i relativi profitti)… La credibilità scientifica di questa gente ‒ non bastassero i fatti a smentirla ‒ viene messa in dubbio innanzitutto da questa tronfia sicurezza.

Ancora più agghiacciante, poi, è stato constatare l’arroganza e l’irresponsabilità con cui il ministro dell’Industria Altissimo e il presidente dell’ENEL Corbellini hanno annunciato che i piani nucleari dell’Italia andranno avanti e che a Latina la convivenza tra un reattore nucleare e un poligono militare non pone alcun problema. Se le cose restano così è certo che molti cominceranno a chiedersi, incrociando le dita: dove, la prossima volta?

Eppure le cose sono chiare. Lo erano già dopo l’incidente di TMI. In Pennsylvania il disastro era stato evitato per buona sorte. Le conclusioni degli stessi rapporti ufficiali sull’incidente non mancavano di dure critiche e di dubbi su tutto il sistema del nucleare. “Bandiera rossa” ne aveva dato ampiamente conto in un servizio del quale riprendiamo in questa pagina [vedere i collegamenti in calce all’articolo] alcuni passaggi essenziali. Data la tendenza in corso a minimizzare quello che occorse allora, la ripubblicazione ci è sembrata quanto mai opportuna e attuale.

 

LE CENTRALI NUCLEARI IN ITALIA: COSTOSE, RISCHIOSE E INUTILI

[pubblicato in “Bandiera rossa” n. 7, 18 maggio 1986]

Sono attualmente tre le centrali nucleari in funzione in Italia: la centrale di Latina a grafite-gas da 200 Megawatt elettrici, quella di Trino Vercellese ad acqua in pressione (PWR) da 270 MWe, quella più recente di Caorso ad acqua bollente (BWR) da 850 MWe. Una quarta (quella del Garigliano) ha ormai chiuso il suo ciclo produttivo. Una megacentrale con due reattori BWR da 1.000 MWe l’uno è attualmente in costruzione a Montalto di Castro (nell’alto Lazio). La costruzione di altre cinque megacentrali da 2.000 MWe, da avviare entro il 1990, è prevista dal Piano energetico nazionale (PEN) nell’ultima versione aggiornata del febbraio 1985. La prima dovrà sorgere a Trino Vercellese, a fianco di quella esistente; poi sarà la volta della centrale del Salento e di quella nel Mantovano…

Quali argomenti giustificano oggi in Italia la scelta nucleare? Non certo una stima realistica dei fabbisogni di energia de1 paese. Le previsioni formulate nei vari piani energetici nazionali succedutisi dal 1975 ad oggi si sono rivelate tutte regolarmente gonfiate. Il buco elettrico è un argomento oggi improponibile. Non lo sono il prezzo e/o la disponibilità del petrolio. In realtà ‒ come scrivevamo su “Bandiera rossa” del 21 aprile di un anno fa ‒ «una giustificazione plausibile la lobby del nucleare non ce la fornisce, se si eccettua la cocciuta volontà di mantenere in piedi un’industria e i suoi legami internazionali in vista dello sviluppo della filiera europea dei reattori veloci a plutonio (…). Non a caso ben 5.000 miliardi sono stati stanziati dall’ENEA per la ricerca in questo settore nei prossimi cinque anni. «Quindi centrali care, pericolose e inutili oggi per preparare un futuro ancora più inquietante… “Eppure, oggi non regge più, se mai aveva retto, l’argomento della mancanza di alternative. Contropiani alternativi, elaborati da studiosi legati al movimento antinucleare hanno visto la luce nei gli ultimi anni ad opera della Lega per l’ambiente e, recentemente, di Democrazia proletaria.

«Ispirati ad una filosofia che rifiuta la logica distruttiva dell’attuale modello di sviluppo e tuttavia fondati su assunti realistici ed economicamente praticabili, dimostrano come una politica un po’ più attiva di conservazione dell’energia (da intendersi come uso appropriato delle risorse energetiche in rapporto con gli usi finali, non come austerità malthusiana dei consumi) combinata con uno sviluppo credibile delle fonti rinnovabili idroelettricità, geotermia, solare, biomasse, riciclo…), più un ricorso controllato al gas naturale e al carbone (non necessariamente mediante megacentrali) possa garantire la transizione da un modello energetico fondato sul petrolio ad uno progressivamente fondato sulle tecnologie solari senza dover passare per l’adozione del nucleare. «Una possibilità che contiene inoltre maggiori potenzialità di occupazione e di innovazione tecnologica e che, soprattutto, mantiene aperta la prospettiva di un modello di sviluppo diverso, più equilibrato, rispettoso dei cicli naturali e dell’esigenza di democrazia, cioè di reale controllo da parte dei lavoratori e delle larghe masse, nelle scelte di sviluppo economico e sociale. «Non sono piani “socialisti”: sono pero incompatibili con gli sviluppi odierni del capitale quanto la scelta nucleare e incompatibile con qualsiasi prospettiva socialista degna di questo nome.»

 

PROGRESSO, NATURA, SOCIETÀ. COLLOQUIO CON IL FILOSOFO LUDOVICO GEYMONAT

[Pubblicato in “Bandiera rossa” n. 8, 1 giugno 1986, p. 5]

Non pochi commentatori, a proposito della sciagura di Chernobyl, a corto di argomenti fondati sui fatti, hanno fatto ricorso ad immagini mitiche: l’uomo che cerca di conquistare il fuoco (nucleare) quale moderno Prometeo; la fuga radioattiva dalla centrale nucleare quale moderna punizione per i nuovi apprendisti stregoni che, evocato il mostro malefico, non lo sanno più controllare. Al di là della retorica – che non fa certo difetto a buona parte della cultura italiana, cresciuta alla scuola idealistica di Croce e Gentile – c’è un fatto reale: i radionuclidi fuoriusciti dal reattore di Chernobyl hanno provocato, tra le altre cose, un’estesa inquietudine e riproposto molti degli interrogativi di fondo sulla nostra epoca: il senso e la direzione dello sviluppo scientifico e tecnologico, il rapporto tra scienza e potere, la drammatica attualità dei problemi ambientali. Questioni per l’intera società, ma prima di tutto per la sinistra; se la sinistra vuole dare una risposta a questi problemi deve innanzitutto conoscere la risposta. Su questi temi abbiamo voluto aprire una riflessione anche sulle pagine di “Bandiera rossa”. Cominciamo con un colloquio con Ludovico Geymonat, filosofo, marxista, da moltissimi anni studioso del pensiero scientifico e dei suoi fondamenti. Un primo contatto con le questioni per “fissare i punti di riferimento” è quanto gli abbiamo chiesto, non avendo la presunzione di poter dare risposte esaustive e conclusive nel breve spazio di una pagina.

TB. Una sorta di ottimistica fiducia nell’onnipotenza della tecnologia (e della scienza) è forse uno degli elementi di fondo, se non il principale, dell’ideologia corrente del capitalismo contemporaneo, sotto tutte le latitudini. Tutti i problemi possono essere risolti dalla tecnologia contro la quale, d’altra parte, e vano schierarsi perché significherebbe soltanto opporsi al “progresso” o allo “sviluppo economico”, cercare di fermare l’inarrestabile cammino della storia. Pensiamo ad esempio al modo in cui il mito delle nuove tecnologie è stato usato: per giustificare l’offensiva capitalistica contro la classe operaia, per legittimare le ristrutturazioni e i licenziamenti. Salvo poi quando si verificano catastrofi come Bhopal, come Chernobyl, ricordare che siamo nell’era nucleare, ricordare il tremendo impatto ambientale di molte di queste tecnologie onnipotenti, ricordare come queste siano pronte in ogni momento a trasformarsi da forze produttive in forze distruttive; distruttive al punto da minacciare la stessa vita sulla terra. Non mancano allora i giudizi sommari che liquidano, ad un tempo, l’attuale organizzazione sociale, lo sviluppo industriale, il progresso tecnico-scientifico. Il marxismo ha un punto di vista capace di superare questa contraddizione?

La dimensione planetaria dei problemi attuali

LG: Certamente. Il marxismo non condivide le posizioni luddiste; le ha combattute. Ma non accetta neppure questa ideologia della scienza e della tecnica secondo cui esse possono risolvere tutti i problemi. I problemi che tu indicavi sono in primo luogo problemi di ordine sociale, riguardano l’organizzazione della società, la lotta tra le classi. Non va attribuita alla scienza e alla tecnologia alcuna potenza magica; vanno trattate come tutti gli altri fattori della società, cioè con un esame delle forze che le determinano e che se ne servono, degli interessi economici che vi sono intrecciati ecc. Né alla scienza né alla tecnologia, in quanto tali, in quanto attività sociali umane, noi possiamo attribuire le responsabilità delle catastrofi, ma ai rapporti sociali concreti entro i quali, in un determinato momento, vengono a svilupparsi e ad esplicare i loro effetti. Esistono certo molti malintesi a questo proposito favoriti anche dai mass media e dal grande capitale. Ad Agnelli, per fare un esempio, fa certo comodo che la gente pensi che lo sfruttamento del lavoro non è colpa sua ma della scienza. Ma questa è veramente una grande mistificazione. Tornando all’incidente di questi giorni. Esso ha dimostrato un’altra cosa importante: il carattere internazionale, mondiale di questi problemi e della lotta che ci troviamo a fare. Si è visto, ad esempio, che la nube nucleare non rispetta i confini tra un paese e l’altro, tra “l’impero d’Occidente” e “l’impero d’Oriente”; se ne va per conto suo e ci obbliga a fare una riflessione sul carattere internazionale della civiltà umana, dei problemi che la riguardano. E’ sempre più superata la divisione tra regione e regione, fra Stato e Stato; i problemi si pongono su scala planetaria.

TB. La dimensione planetaria, la punto di vista capace di superare qualità nuova del problema ambientale – oggi non è più solo questione di fenomeni localizzati di “inquinamento”; siamo spesso di fronte a fenomeni globali, tendenzialmente irreversibili di impatto ambientale dello sviluppo umano: crescita demografica, esaurimento di alcune risorse, minacce di morte di interi ecosistemi (le foreste distrutte dalle piogge acide, l’eutrofizzazione dei mari, per esempio) – possono essere esaminati con le categorie dei classici del marxismo, di Marx, di Engels, di Lenin? Molti, anche a sinistra, ormai lo negano apertamente: alcuni si spingono ad accusare il marxismo di aver condiviso il cieco ottimismo industrialistico del positivismo filo-capitalistico…

LG: Possiamo certamente partire dal marxismo per esaminare queste questioni, ma tenendo conto che la situazione di oggi non è quella di allora Non si può accusare Marx di non essere stato un profeta. I profeti lasciamoli alle religioni. Marx ha esaminato scientificamente, con molto rigore, la situazione dell’industria e dell’economia della sua epoca. Noi possiamo – e dobbiamo, secondo me – usare gli stessi strumenti per fare altrettanto con l’economia, l’industria, le tecnologie di oggi. Non possiamo invece chiedere al testi di Marx la formula valida allora come oggi. Non possiamo più cancellare la meccanica di Newton; essa è stata un passo fondamentale nello sviluppo della scienza. Ma da quel momento si è andati avanti, si è arrivati ad Einstein ad Heisenberg e oltre, alla fisica moderna. Questo è normale. Possibile che solo nei riguardi del marxismo si faccia colpa a Newton-Marx di non avere risolto i problemi di oggi? Secondo me c’è in questo un errore di impostazione.

Una cultura indifferente al pensiero scientifico-tecnico

TB. Indubbiamente non si può rimproverare a Marx di non essere stato un profeta. Dobbiamo invece riconoscere che fin dai suoi inizi il marxismo ha avuto una considerazione peculiare della natura e del rapporto tra uomo e natura. Nei testi di Marx ed Engels, ricorre una formula molto pregnante, emblematica della concezione che hanno gli autori del rapporto tra l’uomo e la natura. Marx ed Engels parlano di un “ricambio organico” tra l’uomo e la natura che avviene nel contesto di determinate forme sociali. Da un lato, cioè, c’è il riconoscimento dell’uomo come ente naturale che dipende dalla natura; dall’altro, però, questa dipendenza assume forme che non sono “naturali” ma determinate dal modo “sociale” in cui l’uomo organizza il “ricambio organico”. Tutt’altro quindi che l’unilateralismo del positivismo. E in più punti dalle opere di Marx e di Engels si rivengono riferimenti alle devastazioni ambientali provocate dall’approccio di rapina del capitalismo, mosso dalla logica del profitto, alle risorse naturali.

LG: Lo stesso Lenin aveva compreso la portata del problema e aveva cercato – malgrado l’arretratezza russa – di impostare anche dal lato teorico il problema dei rapporti tra progresso scientifico e progresso civile, con opere esemplari. Ma in Italia opere come Materialismo ed empiriocriticismosono del tutto ignorate, quando non si giunge a dire che si tratta di opere minori, di scarso valore, come ha scritto Luciano Gruppi.

TB. Dalla teoria alla prassi del movimento operaio italialo. Non si può negare che c’è molto da fare per dare alla sinistra una coscienza della questione ambientale. Le scelte tecniche, scientifiche, economiche fatte dal capitale sono troppo spesso accolte come inevitabili, se non proprio come le migliori. Quale può essere la ragione di fondo?

LG: Ci sono due ragioni, a mio modo di vedere. La prima è che nella nostra società resta dominante la borghesia, il capitale, e quindi ciò condiziona il formarsi dell’ideologia degli scienziati e 1’uso della scienza; di riflesso anche il movimento operaio assorbe questi punti di vista su queste questioni. La seconda è l’ignoranza. Anche nelle file della sinistra italiana troppo spesso per cultura si intende solo quella letteraria-umanistica, con un’attenzione marginale a quella scientifica. Lo stesso Gramsci non aveva capito l’importanza della cultura scientifica e anche il PCI ha continuato a privilegiare, anche nel secondo dopoguerra, un tipo di cultura del tutto indifferente a quella scientifico-tecnica.

TB. In questa ignoranza c’entrano anche le scelte politiche e strategiche? Voglio dire: è forse casuale che il PCI che sceglie con convinzione le centrali (rivendendo tutte le mistificazioni di parte capitalistica sulla necessità di questa scelta per il progresso industriale e tecnologico del paese) abbandoni nel contempo perfino sulla carta l’idea del “superamento” del capitalismo?

LG: No certo. Ormai il PCI si guarda bene dal voler “superare” il capitalismo. Si accontenta di migliorarlo un po’. Si adatta a viverci dentro. In una situazione del genere è chiaro che il capitalismo ha ragione di dire “sono io il progresso”. Che cosa gli può contrapporre, infatti, il PCI?

TB. Eppure tra il ’68 e la metà degli anni settanta ci sono state alcune esperienze significative sul terreno della lotta per la salute, contro la nocività dell’ambiente di lavoro, per la tutela del territorio (Marghera, Castellanza…). Ma oggi è rimasto ben poco; le grandi organizzazioni burocratiche sono rimaste impermeabili… Un qualche sforzo di elaborazione su questi temi, a partire da un punto di vista marxista, o tenendo conto del punto di vista marxista, è stato fatto da alcuni studiosi, talvolta tecnici animati da spirito militante, che hanno prodotto una “ecologia politica” peculiare del nostro paese. Anche Democrazia proletaria ha fatto dei tentativi in questa direzione, con convegni come “Coscienza di classe e coscienza di specie” ad esempio…

E’ necessario ritornare a Marx

LG: Il tentativo non è molto riuscito; non ancora almeno. E’ certo maturata una maggiore sensibilità… C’è stata una qualche influenza deformante dei francofortesi. Un autore come Cini (L’ape e l’architetto), per fare un esempio, imposta la questione nei termini estremisti, infantili di “lotta contro la scienza” (e Cini è peraltro un bravo fisico…). Alcuni di costoro, naturalmente, si dichiarano contrari a Engels, se non a Marx. Credo invece che sia necessario un ritorno a Marx, ai testi di Marx. Naturalmente come si ritornerebbe a Newton. Ma questa resta una tappa fondamentale senza la quale non si può capire lo sviluppo successivo e non si può fare la rivoluzione oggi.

 

LE CONSEGUENZE DELLA NUBE DI CHERNOBYL IN ITALIA

[Pubblicato in “Bandiera rossa” n. 9, 15 giugno 1986]

Per l’ENEA (Ente nazionale per le energie alternative) l’emergenza radioattiva è conclusa; l’allarme appena cessato è stato eccessivo; i danni reali in Italia dell’incidente di Chernobyl sono stati minimi. Questo il messaggio che i dirigenti dell’ente hanno cercato di trasmettere al paese nella conferenza stampa di martedì 10 giugno. Un tentativo di rifarsi una faccia, dopo la magra figura dei primi di maggio, quando la gente chiedeva informazioni e dati certi ricevendo in cambio mezze ammissioni e mezze bugie, reticenze sui fatti e contraddittorie assicurazioni sui «livelli di radioattività al di sotto delle soglie di pericolo». La conferenza stampa, tuttavia, ha dato qualche informazione utile su cui val la pena di riflettere. Ciascun italiano ha assorbito o assorbirà, per effetto del fallout di Chernobyl, circa 160 rnillirem di radioattività mediante contatto diretto dall’atmosfera e indiretto attraverso i cibi, l’acqua ecc. Una dose equivalente alla dose annua del fondo naturale e «cento volte inferiore a quella che provoca danni diretti certi» hanno specificato quelli dell’ENEA. Peccato che si tratti di una media calcolata per cinquanta milioni di italiani, non dei picchi massimi. Gli abitanti del Friuli e della Brianza (dove secondo gli stessi dati dell’ENEA la radioattività a terra ha raggiunto in alcuni giorni livelli 100 volte superiori alle medie nazionali) c’è sicuramente motivo di inquietarsi.

I tecnici dell’ENEA hanno poi parlato di analisi sui radionuclidi piovuti sul nostro paese: iodio 131, cesio 134 e iodio 137 ‒ e fin qui si sapeva ‒ stronzio 90 e plutonio 239 ‒ e questo invece preoccupa, perché fino ad oggi era stata esclusa la loro presenza; il plutonio ha tempo di dimezzamento di 24.000 anni, il che significa che, per quanto poco sia, ce lo terremo per un bel pezzo. Lo stronzio ha una mezza vita di 30 anni ma una maggior tendenza a penetrare e fissarsi nell’organismo, in quanto sostituisce gli atomi di calcio nelle catene molecolari. Naschi, direttore del DISP (dipartimento sicurezza e protezione dell’ENEA) ha inoltre criticato come «eccessive» alcune misure precauzionali adottate dalle autorità nelle scorse settimane, pur ammettendo che esse «hanno ridotto di tre volte la dose potenziale collettiva di radioattività assorbita e di 10 volte quella ai lattanti e ai bambini». E’ stato dato per scontato che le conseguenze sanitarie non andranno oltre qualche decina di casi di tumore alla tiroide (e comunque non sarebbe poco); la residua radioattività presente nel ambiente dovrebbe inoltre disperdersi e diluirsi per effetto delle piogge e del normale ricambio.

C’è tuttavia chi è molto meno ottimista: il professor Eugenio Tabet, del laboratorio di fisica dell’Istituto superiore di Sanità afferma: «Molti esperti confidano nel tempo di dimezzamento ambientale (cioè fondamentalmente nella diluizione dovuta a lavaggio della pioggia), che dovrebbe essere di alcune settimane. Ma su queste valutazioni non mi sentirei proprio di giurare, è poggiata su basi sperimentali non ancora consolidate». E conclude che occorre «continuare a tenere sotto controllo gli alimenti» (il “manifesto”, 11 giugno 1986).

 

DOSI LETALI ASSORBITE DA OTTANTA PERSONE. TESTIMONIANZA DI UN MEDICO FRANCESE

[Pubblicato in “Bandiera rossa” n. 9, 15 giugno 1986]

“Alcune zone dovranno forse essere abbandonate per sempre”. Il dottor Jammet, presidente del Centro Internazionale di Radiopatologia di Parigi (Istituto Curie), di ritorno da un viaggio a Mosca e negli Stati dell’Est ha delineato quelle che, secondo lui, saranno le conseguenze sanitarie della catastrofe di Chernobyl (su “Le Monde de la medecine”, “Le Monde” del 4 giugno 1986). E’ utile ricordare che l’Istituto Cune ha curato nel corso degli anni centinaia di colpiti dalle radiazioni ‒ alcuni dei quali avevano assorbito dosi letali ‒ con l’applicazione di cure specializzate per le quali il Centro è il migliore nel suo campo. Secondo i dottor Jammet, in seguito all’incidente di Chernobyl più di 80 persone sono state colpite da radiazioni mortali, oscillanti tra 500 e gli 800 rem, per salvare quali sarebbero utili, sempre secondo il medico francese, anziché i trapianti del midollo osseo ‒ tecnica che rappresenta l’ultima risorsa in casi disperati ‒ le trasfusioni di elementi concentrati del sangue (globuli rossi, globuli bianchi e piastrine). Altri 250 irradiati, membri del personale della centrale, avranno bisogno per molti anni di un’attenta sorveglianza medica al fine di individuare prontamente eventuali casi di cancro o di leucemia. Infine anche gli abitanti dei paesi vicini a Chernobyl dovranno essere seguiti sotto il profilo medico al fine di poter prevenire e intervenire in tempo contro possibili conseguenze delle radiazioni assorbite. Jammet esprime anche una diagnosi sulla decontaminazione dei prodotti radioattivi che si trovano sul terreno: i vegetali, 1’acqua dei fiumi e dei laghi, le vie, le case… per tutto sarebbe necessario un lavaggio accurato. Certe zone dovranno forse essere abbandonate per sempre. E a proposito del “panico in giustificato” che si è diffuso nella maggior parte dei paesi europei, Jammet lamenta una carenza di informazioni fornita tanto alle popolazioni quanto ai personale medico e s’inquieta sulla mancanza di formazione dei medici francesi in caso di incidenti nucleari. E la Francia ha una lunga esperienza in questo campo. Pensiamo quale può essere la situazione in Italia…

 

IL NUCLEARE IN UNIONE SOVIETICA

[Pubblicato in “Bandiera rossa” n. 9, 15 giugno 1986, p. 5]

Minimizzazione dei rischi, trascuratezza delle misure di sicurezza, scarsa considerazione dei moniti degli scienziati, accelerazione spinta dei piani: così l’irresponsabilità del potere burocratico ha preparato la tragedia di Chernobyl

Per numero di centrali nucleari in funzione e in costruzione il programma nucleare sovietico si può paragonare a quelli della Francia e del Giappone, piuttosto che a quello degli Stati Uniti (vedere la tabella qui sotto). Ma a differenza di quello che è avvenuto nei paesi capitalistici avanzati negli ultimi anni ‒ nei quali la caduta dei tassi di crescita della domanda di energia, l’aumento dei costi degli impianti (soprattutto a motivo dei requisiti di sicurezza) e la diffusa opposizione antinucleare hanno costretto i governi e le aziende elettriche a rallentare o a interrompere la costruzione delle centrali nucleari ‒ l’Unione sovietica ha invece conosciuto un’accelerazione dei programmi nucleari. Questa tendenza è stata solennemente confermata dal XXVII congresso del PCUS (25 febbraio-6 marzo 1986): il ministro dell’Energia Anatoly Mayorets ha affermato nel suo intervento che nel prossimo quinquennio l’URSS intende accrescere di due volte e mezzo il potenziale elettronucleare installato. Non è facile prevedere quale sarà la sorte di questi programmi faraonici dopo l’incidente di Chernobyl. Nelle dichiarazioni rilasciate in queste settimane da moltissimi personaggi di primo piano dell’Unione sovietica si sono colti anche accenti autocritici probabilmente sinceri (e ciò può indurre a pensare che una qualche revisione dei programmi ci sarà); ma nella sostanza tutti hanno chiaramente ribadito (e con la massima autorevolezza lo ha fatto Gorbaciov nel suo discorso televisivo) che lo sfruttamento “pacifico” dell’energia nucleare andrà avanti. L’argomento giustificativo avanzato a più riprese è quello scontato: non ci sarebbero, nel breve-medio periodo, alternative disponibili all’atomo. Eppure il nucleare non copre oggi che l’11% della produzione di energia elettrica in URSS e l’URSS stessa è un paese esportatore di petrolio e di gas naturale…

Una sciagura annunciata

Evidentemente l’irresponsabilità del potere burocratico non ha limiti. La decisione di proseguire nei piani intrapresi non farebbe che preparare altre Chernobyl. Chernobyl stessa non è stata una sciagura prodotta dalla fatalità ma un risultato necessario della scelta nucleare e della leggerezza con cui è stata gestita in URSS. In proposito un’impressionante testimonianza è quella di Zores Medvedev, biochimico sovietico che vive in esilio a Londra dal 1973, fratello dello storico dissidente Roy Medvedev che vive tuttora a Mosca. I due sono, tra l’altro, autori del libro Catastrofe nucleare in URSS in cui hanno parlato dell’incidente accaduto nel 1957-58 in un deposito di scorie nucleari negli Urali. Su “Newsweek” del 12 maggio scorso Zores Medvedev ricorda che il padre dei nucleare “pacifico” sovietico, il professor Nikholaj Dollerzhal, progettista della prima centrale nucleare sovietica costruita nel 1954, si è battuto contro la decisione delle autorità politiche di costruire le centrali nei pressi delle grandi città della zona europea dell’URSS. «Nel 1977 lo stesso Dollerzhal cominciò una campagna contro questa decisione. Egli sapeva bene che incidenti, grandi e piccoli, accadono nei reattori sovietici, civili o militari che siano, e che essi possono essere letali. Pubblicò numerosi articoli in cui cercava di spiegare che la sicurezza non è assoluta. Sollevò la questione della sicurezza nel trasporto e nello stoccaggio del combustibile, specie quello irradiato. Suggerì che i reattori avrebbero dovuto essere costruiti in Siberia, lontano dai centri abitati. «Ma gli studiosi sovietici dovevano formulare questi ammonimenti in termini molto vaghi, altrimenti i loro articoli non sarebbero stati pubblicati. Gli avvertimenti erano impliciti. Il parere del professor Dollerzhal fu ignorato e la burocrazia onnipotente vi passò sopra, per ragioni eminentemente politiche ed economiche».

La testimonianza di Medvedev chiarisce bene un punto chiave per comprendere lo sviluppo del nucleare in URSS: il tema della sicurezza (e dell’impatto ambientale) è stato l’ultima delle preoccupazioni del potere burocratico; d’altra parte la carenza di diritti civili fondamentali e le restrizioni alla libera circolazione delle informazioni (anche nell’ambiente scientifico) hanno impedito che si esprimesse un’opinione contraria (o anche solo prudente) in materia di sviluppo del nucleare. Mancando quindi una dialettica reale, a guidare le scelte del potere burocratico sono rimasti meri calcoli di opportunità politica e di (miope) convenienza economica, perseguiti con tutta l’ottusa efficacia consentita dal sistema della pianificazione burocratica. La spinta iniziale fu probabilmente la stessa che spinse i principali paesi occidentali a costruire le centrali nucleari come sottoprodotto e al tempo stesso come anello complementare dei piani di riarmo nucleare. Con l’aggiunta, per l’Unione sovietica, di quella “sindrome della rincorsa” per cui da sempre l’apparato tecnico-scientifico-industriale sovietico è impegnato a copiare acriticamente, a inseguire, e possibilmente a superare, le realizzazioni tecnologiche o produttive capitalistiche, quale che sia la loro natura. Una cinica minimizzazione dei rischi e il prevalere di criteri di mera economicità hanno in seguito informato la progressione dei piani nucleari. Esemplare il caso delle misure di sicurezza. Il modello di reattore uranio-grafite-acqua leggera privilegiato dai sovietici non è ‒ per taglie ridotte ‒ più insicuro di altri modelli (anzi, è intrinsecamente più sicuro dei modelli ad acqua in pressione sviluppati negli Stati Uniti, per i quali, non a caso, è stato introdotto il secondo contenitore di confinamento in cemento precompresso). Questo tipo di reattori hanno una struttura modulare che è stata sfruttata dai sovietici per moltiplicare le dimensioni dei reattori: se il primo era di 5 MWe, quello di Chernobyl era di 1.200 MWe, ed è in progetto un reattore dello stesso tipo da 2.400 MWe.

Una scommessa il cui risultato non poteva che essere, prima o poi, una sciagura. L’URSS ha sviluppato anche un modello di reattore ad acqua in pressione simile ai PWR occidentali. Due reattori di questo tipo sono stati venduti alla Finlandia (sono entrati in servizio nel 1977 e nel 1981), la quale ha perfezionato i sistemi di sicurezza ricorrendo all’americana Babcock & Wilcox e ha racchiuso i reattori in contenitori di cemento armato. Solo a questo punto i sovietici hanno deciso di introdurre analoghi perfezionamenti al loro modello di reattore!

Pericolosa accelerazione dei piani nucleari

L’accelerazione impressa ai programmi nucleari negli ultimi anni ha sicuramente aumentato i problemi per la sicurezza. Impreparazione dei tecnici, trascuratezza delle norme, cattiva qualità dei materiali e dei componenti (tipici di tutta l’industria sovietica ad eccezione del settore militare) non possono che aggravarsi quando gli apparati produttivo, di gestione e di controllo vengono sottoposti a uno sforzo moltiplicato, come è accaduto negli ultimi anni. Sulla “Literaturnaia Gazeta” del 27 marzo scorso un giornalista aveva scritto proprio a proposito del cantiere di Chernobyl (dove era in corso l’istallazione di un quinto reattore): «L’incapacità e anche la cattiva volontà della direzione tecnico-amministrativa nell’organizzazione del lavoro delle brigate ha finito per comportare una riduzione delle norme di realizzazione. Si è cominciato a registrare la fatica e l’usura dei materiali, delle attrezzature, delle macchine, la mancanza di strumenti di misura ecc. In una parola tutti i difetti del processo di costruzione, che sono purtroppo tipici, sono apparsi evidenti in forme estreme» (citato da “Liberation” del 9 maggio 1986). Viene da affermare che se, nel gioco infernale delle probabilità d’incidente, è toccato all’URSS pagare il prezzo più elevato, una qualche logica c’è: è proprio là che si è imboccata la strada del nucleare a ritmi più elevati, con minori attenzioni alla sicurezza, sottoponendo uomini e mezzi a una pressione oltre il sopportabile…

I nuclearisti occidentali: “Molto interessante…”

Individuare e denunciare le responsabilità specifiche della burocrazia sovietica nel preparare la tragedia di Chernobyl non significa affatto, naturalmente, accettare per buone le rassicurazioni della lobby filonucleare occidentale né ritenere “sufficienti” le maggiori misure di sicurezza adottate dai capitalisti sotto la pressione dei movimenti antinucleari. Innanzitutto perché non mancano neppure in Occidente “difetti tipici” del sistema di gestione e di controllo del nucleare, tali da inficiare alla base qualsiasi rassicurazione, come è stato autorevolmente denunciato anche dai rapporti ufficiali dopo Three Mile Island. Inoltre perché non ci sono sistemi di sicurezza “sufficienti” in caso di incidente catastrofico. Ma c’è una ragione in più per non dare credibilità ai filonucleari occidentali: prima di Chernobyl essi non avevano mancato di dichiarare “sicuro” il reattore sovietico del tipo uranio-grafite-acqua leggera (condividendo l’opinione sulla non necessità del contenitore primario: infatti reattori uranio-grafite senza contenimento primario sono in funzione in USA, in Francia, in Gran Bretagna, in Germania federale, in Italia…).

Per ciò che riguarda il reattore PWR, invece, vale la pena di riportare senza commenti l’opinione di “Nuclear News” del febbraio 1984: «L’elemento più criticato dagli osservatori occidentali del reattore sovietico PWR da 440 MW è l’assenza di un edificio di contenimento resistente alla pressione. Gli ingegneri sovietici rispondono facendo notare che i reattori e i loro circuiti primari di raffreddamento sono sistemati in volte di cemento a tenuta stagna che, in caso di incidente per perdita di liquido refrigerante, costituirebbero tante camere di decompressione e non offrirebbero alla fuga dei prodotti di fissione che un percorso molto tortuoso. Un tale approccio alternativo potrebbe essere molto interessante da studiare da parte degli ingegneri occidentali che propongono giustamente confinamenti con aperture di sfogo o che studiano meccanismi di ritenuta selettiva dei prodotti di fissione (in caso di fuga accidentale, ndr)». L’interesse di “Nuclear News” si appunta, evidentemente, sulla possibilità di … risparmiare i costi del contenitore in cemento armato…

 

PRESENTATO IL RAPPORTO UFFICIALE SULL’INCIDENTE. LEZIONI DALL’UCRAINA

[Pubblicato in “Bandiera rossa” n. 12, 21 settembre 1986, p. 11]

Il rapporto sull’incidente alla centrale di Chernobyl, presentato dalle autorità sovietiche alla conferenza dell’Agenzia internazionale per l’energia lo scorso agosto a Vienna, merita alcune riflessioni.

La prima che ci sentiamo di fare è questa: Chernobyl ‒ come Three Mile Island sette anni fa ‒ conferma che il vero “anello debole” della sicurezza nucleare è il fattore umano; un anello che purtroppo non si può eliminare ne adeguatamente prevedere (e prevenire). A Three Mile Island furono una serie di errori degli operatori che trasformarono una banale avaria tecnica in una catastrofe evitata d’un soffio all’ultimo momento. Allora, a dispetto di un centinaio di spie e di segnali d’allarme attivatisi contemporaneamente (o forse proprio per questo), gli addetti alla sala di controllo impiegarono più di due ore a capire che le pompe di emergenza non erano in funzione perché le valvole erano bloccate… A Chernobyl è successo qualcosa di ancora più incredibile. Un gruppo di ingegneri ‒ impegnato in un esperimento ad alto rischio sul reattore numero 4, paradossalmente un esperimento volto a determinare migliori condizioni di sicurezza per un reattore in fase di spegnimento di emergenza ‒ compirono sei “incredibili” errori (o, per dir meglio: violazioni delle norme di sicurezza), disinnescarono i sistemi di sicurezza automatici e finirono col provocare l’esplosione che all’una e 23 minuti della mattina del 26 aprile 1986 diede inizio alla più terribile catastrofe della storia del nucleare civile. Per quanto possa sembrare assurdo che un’intera equipe di specialisti si metta a giocare con un nostro qual è un reattore da 3.000 megawatt termici, infischiandosene delle norme di sicurezza, questo è proprio quello che è successo a Chernobyl. Ciò dovrebbe suggerire come minimo una giustificata diffidenza sull’attendibilità di tante interessate rassicurazioni che quotidianamente ci propinano gli “esperti” nostrani del nucleare. Non bastano (e forse neppure servono) i più sofisticati sistemi di sicurezza se poi «la negligenza, 1’irresponsabilità, la presunzione, l’incompetenza» (sono i termini impiegati dalle autorità sovietiche) mandano ugualmente tutto all’aria con conseguenze così gravi.

La seconda riflessione è per ribadire la “qualità diversa” delle catastrofi nucleari che le rende non paragonabili con calamità naturali o incidenti industriali di altro tipo. Nel caso del nucleare si possono forse contare poche vittime immediate (“poche” in confronto ai casi come Bophal, il Vajont, il terremoto in Irpinia ecc.) ma le conseguenze future e il tipo di minaccia (che non si esaurisce entro ristretti confini spaziali e temporali) non consente confronti. Secondo il rapporto delle autorità, a Chernobyl ci sono stati fino ad oggi 31 morti, 299 ospedalizzati (di cui 203 colpiti in modo più o meno grave dalle radiazioni), 135.000 evacuati (e molti non torneranno che tra molti anni). Tuttavia l’ampiezza assolutamente inimmaginabile della ricaduta radioattiva e le conseguenze sanitarie e ambientali immediate e a lungo termine rendono i danni dell’incidente (anche nella loro dimensione puramente economica) assolutamente senza precedenti, incalcolabili, inaccettabili. L’incendio del reattore di Chernobyl ha proiettato nell’atmosfera polveri ed altri elementi radioattivi per circa 50 milioni di curie; una quantità enorme (per fare un paragone si tenga presente che le norme di sicurezza francesi ‒ tra le più permissive ‒ consentono ad una centrale un rilascio radioattivo annuo non superiore ai 3 curie). Per domare il fuoco nucleare sono state versate sul reattore 5.000 tonnellate di sabbia, piombo, boro. Ma ancora a fine agosto si registrava una fuga radioattiva giornaliera pari a circa 10 curie. Per bloccarla del tutto si sta costruendo un enorme “sarcofago” di cemento per rinchiudere il reattore. Circa la metà della radioattività sfuggita dal reattore è ricaduta al suolo sul sito o in un raggio di venti chilometri; il resto si è propagato con i venti sopra mezza Europa. I danni all’agricoltura e le precauzioni adottate un po’ ovunque in quei giorni sono cose ben risapute. A Vienna sono state presentate anche le prime stime ufficiali del probabile costo umano di questa sciagura. Le fonti sovietiche hanno calcolato 6.000 morti aggiuntive per cancro nei prossimi settant’anni tra i colpiti dalle radiazioni. Secondo studi preliminari (di cui ha dato notizia il “Washington Post”) altri 30.000/50.000 casi mortali dovrebbero essere aggiunti ai precedenti come conseguenza dell’ingestione di cibi contaminati. I dati forniti si limitano, va aggiunto, alle conseguenze prevedibili per le popolazioni dell’Ucraina e della Bielorussia. Inoltre, nonostante i lavori di decontaminazione scattati subito (nelle aree prossime alla centrale è stato asportato il manto superiore del terreno), non sono affatto cessate le preoccupazioni per ulteriori contaminazioni radioattive. I radionuclidi depositati sul suolo, infatti, entrano nelle catene alimentari e attraverso le piante e gli animali tornano a minacciare l’uomo. Il cesio 137, ad esempio, la cui semivita radioattiva è trentennale, penetrato nel terreno con le piogge, viene assorbito dalle radici delle piante e di là si trasferisce alle foglie, da cui ricomincia il suo ciclo. Gli esperti sovietici pensano che non si potrà fare una stima della sua pericolosità prima dell’esaurimento del ciclo stagionale, dopo un anno. L’attesa è ancora più lunga nel caso delle foreste di conifere le cui aghifoglie si sono caricate di radioattività per effetto delle piogge contaminate. Gli alberi resteranno inquinati per 3, 4 anni, fino alla mutazione completa degli aghi. Ma a quel punto il pericolo si sarà solo spostato, essendosi depositato al suolo con gli aghi. Problemi anche maggiori, poi, esistono per le falde freatiche, i corsi d’acqua, i fiumi delle regioni colpite e per gli esseri viventi che li abitano. Questa è la “qualità” dei problemi ereditati da Chernobyl…

Una terza riflessione scaturisce da quelle precedenti. Il 25 aprile scorso l’intervento maldestro del fattore umano ‒ per altro animato dalle migliori intenzioni (ma si sa, anche le strade dell’inferno ne sono lastricate…) ‒ ha provocato una catastrofe. Ma il mondo, oggi, è pieno di Chernobyl potenziali e sono molte le regioni candidate a fare la fine dell’Ucraina. Senza ricorrere all’ipotesi agghiacciante della guerra atomica (e quindi dell’olocausto e del successivo inverno nucleare che ne deriverebbero) si può invece immaginare che l’attenzione di un gruppo terrorista o di un governo criminale si rivolga ad uno dei tanti impianti nucleari civili; o che nel corso di un’azione bellica, come quelle a cui abbiamo assistito nel Mediterraneo nei mesi scorsi, venga colpita una portaerei a propulsione nucleare: si può cioè immaginare un intervento umano volto deliberatamente al peggio, anche se non all’irreparabile. Molti scoprirebbero con sorpresa di avere convissuto, e di convivere, con ordigni nucleari incustoditi nel giardino di casa o nel porto di fronte a casa. Sarebbe un brutto risveglio. Meglio pensarci prima.

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