Una riflessione sulla pandemia e noi, di Luca Scacchi (direttivo CGIL)

 [Pubblicato sul sito dell’area #RiconquistiamoTutto, sindacatoaltracosa.org]
a cura di Luca Scacchi [Cd Cgil; Università della Valle d’Aosta]

Scaricare il testo in pdf

 Da alcuni mesi la sinistra si è divisa su vaccinazioni e green pass. Una divisione che è anche della classe. Lo si è visto nel dibattito politico di queste settimane, nelle differenze nei cortei del 11 ottobre, nelle diverse collocazioni rispetto alle piazze novax e alla protesta no green pass di Trieste. Lo si è visto nelle tante disdette al sindacato (con un segno e anche con quello opposto), nei toni accesi e spesso categorici di una parte e dell’altra, nelle assemblee e nelle discussioni informali in ogni posto di lavoro [basti considerare che, secondo uno studio, otre il 50% delle persone ha avuto occasione di litigare sul tema, oltre il 30% ha conseguentemente cambiato le proprie relazioni personali]. Questa divisione, cioè, ha scavato solchi non solo nel largo corpo di attivisti della sinistra politica e sociale (anche dentro le diverse organizzazioni), ma tra gli stessi lavoratori e lavoratrici, anche trasversalmente alla loro coscienza politica.

Queste divisioni, al fondo, sono la conseguenza di due diversi processi di lungo periodo. Da una parte incide la disorganizzazione della classe, il profondo arretramento nella sua coscienza diffusa e la parallela disarticolazione di quei centri che ne tessono la soggettività. Dall’altra impatta il protagonismo di alcuni ceti medi, quelli colpiti dalla Grande Crisi e dalle sue recessioni (pandemiche e pre-pandemiche), che proprio in questo decennio si sono attivati esprimendo soggettività collettive, sviluppando un’autonoma capacità di mobilitazione e talvolta facendo diventare il loro punto di vista un riferimento in grado di agglutinare altri interessi e settori sociali. In questo quadro, proprio a partire dalla diffusa sensazione di instabilità e insicurezza data dal crollo di fiducia nel precedente ordine costituito, mancando una coscienza e una prospettiva rivoluzionaria, si è diffuso un senso comune reazionario, caratterizzato (come già in altre Grandi Crisi) da profili anti-sistemici e complottisti, nostalgie di un tempo mai vissuto e revanscismi antitecnologici. Si è così sviluppata una cultura popolare, intessuta di romanzi e serie tv, che ha plasmato gli immaginari su cui poi sono cresciuti movimenti fideistici, fondamentalisti e cospirazionisti (anche oltre il limite del ridicolo, come oggi QAnon, più di un secolo fa il movimento antisemita intorno ai Protocolli dei savi di Sion).

Così, un limitatissimo nucleo attivo novax ha trovato un suo raggio di ascolto, linguaggi e culture con cui risuonare, una sua proiezione di massa. Le persone convintamente novax sono infatti relativamente scarse: un rapporto del centro di ricerca sul cambiamento sociale dell’Università di Milano, infatti, indentificava i contrari al vaccino covid19 intorno al 5%, ma nemmeno loro possono essere definiti con certezza “no vax” perché non sono omogenei tra di loro. Solo il 3% infatti degli scettici e dei contrari al vaccino sono contrari al vaccino per principio. mentre la maggior parte è preoccupata degli effetti collaterali. Nell’ultimo mese poi, da quando l’estensione del Green pass (con relative sanzioni) ha interessato l’insieme di lavoratori e lavoratrici, il generico senso comune reazionario penetrato negli scorsi anni nelle classi subalterne ha trovato inoltre modo di risuonare con la questione vaccini, intrecciandosi più saldamente con sentimenti e dinamiche del lavoro. Un’indagine recentemente pubblicata ha sottolineato come il green pass per lavoratori e lavoratrici veda contrario oltre il 25% degli intervistati (e incerto il 10%), in larga parte perché ritengono non sia giusto imporre le vaccinazioni ai lavoratori o si ritiene lo strumento discriminatorio. La maggior parte dei contrari ha comunque fatto il vaccino, è preoccupato dalla pandemia, ma vive emozioni particolarmente negative (incertezza, rabbia, tristezza e rassegnazione), anche perché si sente più a rischio per le sue conseguenze sociali. Un settore ampio (oltre un quarto della popolazione), in cui è appunto penetrato un immaginario sociale (la centralità della libertà e la considerazione delle leggi dello stato come loro limite) e quindi un’identificazione politica in larga parte reazionaria.

Certo, come sottolineato prima, il nucleo più solido e attivo di quest’area è probabilmente raccolto in quei settori dei ceti medi in crisi (professionali e commerciali, vecchi e nuovi), che sono stati al centro della deriva reazionaria dell’ultimo decennio. Però, proprio l’estensione della certificazione covid all’insieme del lavoro ha dato loro, per la prima volta, non solo spazi di consenso ma anche una prima proiezione verso l’organizzazione e la mobilitazione del lavoro. Diversamente da altre esperienze storiche (vedi il peronismo argentino), la destra italiana ha infatti raramente avuto una capacità di organizzazione e mobilitazione della classe o di settori popolari (al di là di episodi particolari e limitati, spesso in particolare sul sottoproletariato, come nei moti a Reggio Calabria del 1970/71). In fondo, anche il consenso fascista nella classe operaia e tra i contadini fu relativo, sia nel corso dell’ascesa sia durante gli anni d’oro del regime, frutto della violenza e della repressione più che di una reale adesione di massa (esemplificativo il gelo operaio al discorso di Mussolini a Mirafiori, nel maggio 1939). L’espansione del consenso reazionario nella classe in questi ultimi decenni, comunque, non ha sinora mostrato sviluppi organizzativi indipendenti: la capacità di costruire mobilitazioni, iniziative o scioperi di chiara matrice reazionaria (indicativa la parabola del SINPA, il Sindacato Padano, come quella dell’UGL, compreso i suoi recenti scandali). Proprio su questa questione delle vaccinazioni e del green pass, però, si iniziano a cogliere segnali preoccupanti. Segnali e dinamiche che, più che ai processi di sviluppo del fascismo italiano, al diciannovismo e a certe ibridazioni che in quel brodo politico culturale si svilupparono, guardano piuttosto alle destre statunitensi negli ultimi trent’anni, il loro svilupparsi su ceti medi e movimenti religiosi, la loro capacità di penetrare nella working class bianca della rust belt e non solo. Più che ai Fasci di combattimento e all’assalto di Palazzo D’Accursio, bisogna allora guardare al Make America Great Again e all’assalto a Capitol Hill dello scorso gennaio.

Certo, non siamo di fronte ad un cambio di fase. Si moltiplicano però piccoli segni e incrinature che devono esser occasione di riflessione: le migliaia in piazza con Fiore e Forza Nuova, le evidente presenze no green pass in alcuni cortei del 11 ottobre (a Genova e Trieste in particolare, ma non solo), la vicenda dei portuali di Trieste (la cui vertenza lavorativa rientra in pochi giorni, lasciando spazio soprattutto al movimento novax, portando comunque a casa i tamponi gratuiti per tutti i lavoratori e le lavoratrici del porto), le adesioni allo sciopero FISI in alcune realtà (un sindacato praticamente inesistente, legato ad alcuni settori della Lega meridionale, con esponenti di Casapound nella sua segreteria nazionale, che se nazionalmente rimane con una presa marginale,  ad esempio in Valle d’Aosta ha registrato oltre il 7% di adesione nelle scuole quasi il 5% nella struttura della Regione). In tutto questo, c’è ovviamente anche da valutare la reazione di massa contro l’assalto alla sede CGIL, la grande manifestazione sindacale del 16 ottobre 2021, una piazza San Giovanni di nuovo piena. Bisogna però saper vedere anche alle caratteristiche ed ai limiti di quella piazza, di quella reazione. La presenza non solo di apparati e delegati/e, ma anche di tanti attivisti, iscritti e simpatizzanti della CGIL; i tanti studenti e le molte associazioni e soggettività della sinistra politica e sociale; la capacità di una mobilitazione rapida e imponente. Però anche la scarsa presenza di delegazioni e striscioni di fabbrica o di azienda, la scarsa reattività nei posti di lavoro, le titubanze (le astensioni e qualche voto contrario) che in più qualche assemblea è emersa su ordini del giorno contro l’assalto fascista.

In ogni caso, proprio questa azione novax (e la sua penetrazione in diversi ambienti) ha radicalizzato il dibattito pubblico, innescando una reazione talvolta dominata da toni e argomenti scientisti. Con questo termine ci si riferisce ad un’impostazione ideologica che non solo postula l’assoluta superiorità della scienza e della tecnica rispetto ad altre dimensioni, ma anche una sua assoluta neutralità: un’impostazione, specchio dei rapporti di potere nell’attuale modello di produzione, che cioè implica l’affidamento acritico alle valutazioni dei tecnici per affrontare le scelte politiche relative alla pandemia. Pensiamo, nel dibattito di questi mesi, a quante volte si è sottolineato e deriso il fatto che una qualunque casalinga, di Voghera o meno, potesse mettere in discussione le affermazioni di un medico, un professore o uno scienziato: se da una parte è sicuramente senza senso contrappore credenze popolari a dati sperimentali e di ricerca, dall’altro le dichiarazioni scientifiche si caratterizzano appunto per la possibilità di esser verificate (almeno potenzialmente da chiunque, essendo basate su procedure pubbliche), non per la fonte da cui provengono, sia essa più o meno autorevole. In questo confronto segnato da opposti ideologismi è stato così facile perdere l’orientamento, a partire dall’importanza di tenere un punto di vista di classe sulla questione.

In tutta questa dinamica ha pesato anche una sottovalutazione politica della gestione pandemica. La sinistra politica e sindacale, sbandata dal pesante arretramento maturato nell’ultimo decennio, in questo passaggio storico non si è cioè fatta carico da un punto di vista generale della costruzione di una cultura scientifica di massa (come invocava alcuni decenni fa un libro famoso, L’ape e l’architetto, su cui ritorneremo) e da un punto di vista particolare di una valutazione di classe delle politiche sanitarie, le strategie di contenimento dalla pandemia, le specifiche scelte di CTS e governi in questi due anni. La stessa occasione degli scioperi di marzo (focalizzati proprio sulla questione della salute e della sicurezza) non è stata colta, anche per il loro ripiegamento sull’autotutela e l’incapacità complessiva di generalizzarsi su rivendicazioni complessive. Una dinamica di cui porta particolare responsabilità la CGIL (unica organizzazione che avrebbe potuto farsi carico di questo sviluppo e che al contrario ha preferito evitare di trasformare in rabbia la paura di lavoratori e lavoratrici). Occasione che è stata mancata anche sul terreno dei Protocolli di sicurezza, rimasti ad un livello generico e subordinato alle indicazioni dello stesso CTS [dominante in quel periodo, nella CGIL e nelle sue categorie, l’atteggiamento di non discuterle, proprio in quanto proposte scientifiche, dal metro di distanza fra rime buccali all’individuazione delle mascherine chirurgiche al posto di FFP2 o FFP3]. Anche il modello di protocollo avanzato da alcuni sindacati di base era sostanzialmente generico, presentando talvolta persino alcune cadute di stile, come il ricorso a strutture sanitarie private per servizi e tamponi. Le sinistre CGIL, l’insieme del sindacalismo conflittuale e la sinistra politica hanno quindi mancato questa occasione, al di là di qualche occasionale seminario o contributo, senza nessuna particolare capacità di elaborare indicazioni sanitarie, senza nessuna impostazione vertenziale di rilievo. Nessun soggetto della sinistra politica e sindacale ha cioè proposto con continuità e convinzione un punto di vista e una pratica conflittuale nella gestione della pandemia (se non occasionalmente, in particolare la scorsa primavera, con i primi cortei ed iniziative sulla sicurezza, o come in Electrolux su distanze e mascherine), anche quando ce ne sarebbe ragione e occasione (tamponi, ricambio aria, DPI, distanziamento). Al contrario, si è spesso preferito lasciare spazio ai tecnici, alla neutralità della scienza, cercando al meglio di individuare in qualche modo esperti di riferimento, le cui affermazioni sembravano più sensate o adeguate (vedi i più influenti, come Galli, Crisanti, Burioni o Bassetti).

Nella sinistra sociale e politica, cioè, si è spesso ritenuto che altro dovesse essere il centro della propria attenzione. In questi due anni si è cioè sempre atteso la prossima conclusione dello stato d’emergenza, o almeno un calo strutturale della curva pandemica, avrebbe finalmente posto all’attenzione sociale e nel dibattito politico la questione della crisi, dello sblocco dei licenziamenti e dell’occupazione, con la possibilità quindi di una ripresa del conflitto e dello sviluppo di un’opposizione al nuovo governo Draghi. Come, in fondo, si è annunciato con la manifestazione #insorgiamo a Firenze, convocata dal Collettivo di fabbrica GKN, e con il ritorno dopo molti anni di uno sciopero generale unitario del sindacalismo di base che sembrava poter intercettare una dimensione di massa. In qualche modo, cioè, si è ritenuto che il versante dell’opposizione al governo per le sue politiche economiche fosse quello reale, quello che si occupa dei problemi della classe, mentre la riflessione e l’azione sul piano della pandemia era sostanzialmente relegata a questione transeunte, al fondo interclassista e quindi inessenziale [pensiamo allo stupore ed il fastidio, in rete e nel quotidiano, sul fatto che ci si incazza sul green pass, ma non sull’aumento delle bollette]. Cioè, non sapendo proporre un’analisi ed una riflessione di classe sulla gestione sanitaria, si è spesso ritenuto che queste questioni non interessassero la classe lavoratrice e, al fondo, fossero solo problemi di natura piccolo borghese [dal momento che dominanti, nella comunicazione e nella riflessione pubblica, vi erano temi e parole d’ordine di matrice reazionaria, centrate sull’autonomia individuale e la libertà di scelta].

Eppure, fin dalla scorsa primavera (terza ondata) era evidente che la pandemia covid19 non ci avrebbe abbandonato in tempi brevi (a fronte, per di più, della diffusione di varianti molto più contagiose ma non più miti del ceppo originariamente diffusosi da Wuhan). Eppure, sin da agosto, era evidente che la scelta di introdurre il Green pass a scuola e in università avrebbe portato a usare questo strumento su tutto il mondo del lavoro. L’insieme della sinistra politica e sindacale, tutti noi, non abbiamo colto da una parte che la scelta sui vaccini coinvolgeva profondamente singoli e comunità (interessando materialmente la propria salute, il rapporto con il proprio corpo e la propria vita), dall’altra che in ogni caso il green pass non agisce solo nella regolazione degli spazi pubblici, ma anche sui rapporti di classe, non solo quelli generali ma anche quelli concreti nelle imprese e negli uffici del paese. Questa sottovalutazione, dobbiamo ammetterlo, è stata diffusa, è stata anche nostra, ed è stata un errore.

Così, in primo luogo, non si è colta l’importanza di schierarsi con chiarezza, con forza, con continuità, con iniziativa, a favore delle politiche vaccinali. Una mancanza in primo luogo della CGIL, in considerazione della sua dimensione di massa e del suo radicamento in larga parte dei luoghi di lavoro del paese. Una mancanza, in ogni caso, che è stata comune a molte altre organizzazioni sindacali e della sinistra. La gestione, la responsabilità, la necessità di convincere è stata lasciata interamente al governo, al CTS, addirittura al generale Figliuolo (al limite con qualche perplessità sul ruolo di quest’ultimo, qualche fastidio per la divisa, qualche irritazione per questo protagonismo militare). Si è spesso, giustamente, sottolineato i limiti del totale affidamento alle multinazionali private (ricordate l’allucinante vicenda AstraZeneca, lo scandalo dei contratti segretati, le risorse pubbliche e le garanzie economiche assicurate a queste società?), come il problema dell’eliminazione o almeno della sospensione sui brevetti (per il diritto alla salute di tutte le popolazioni), ma non ci si è fatto carico di una gestione politica e sociale della campagna vaccinale. Sindacati e sinistra politica hanno cioè evitato di esporsi, senza porsi così il problema di quali fosse il punto di vista e gli interessi delle classe che rappresentano. Così, non si è elaborato un punto di vista collettivo, non si sono pubblicamente approfondite e messe in discussione le diverse strategie preventive, soprattutto non ci si è posto il problema di sviluppare una nostra campagna di massa sulle vaccinazioni (volantini, manifesti, seminari, dibattiti, assemblee, discussioni orientate nei posti di lavoro e nei quartieri). Come poco si è intervenuto sulla gestione confusa di una campagna vaccinale molto differenziata nelle modalità e nelle priorità tra le regioni (assecondando l’attuale federalismo sanitario). Al limite, sommessamente, si è qua e là sottolineato la priorità di alcune categorie oltre quelle sociosanitarie (gli operatori della scuola, quelli dei negozi e dei servizi, gli essenziali che hanno continuato a lavorare durante il lockdown), senza in realtà costruire nessuna reale vertenza (tant’è che a partire da marzo si è imposta l’unica priorità dell’età e la campagna di vaccinazione sui posti di lavoro non è praticamente mai partita). La stessa CGIL ci è arrivata per reazione: solo dopo l’introduzione del green pass a scuola e università, solo dopo la sua richiesta di tamponi gratuiti e la campagna mediatica in cui la si accusava di posizioni novax, a quel punto ha sviluppato una sua posizione pubblica. Una posizione articolata più negli annunci che nella realtà, senza nessuna pratica di massa (qualcuno ricorda un’iniziativa o un’assemblea? Anzi, qualcuno ricorda di aver visto i manifesti da qualche parte?). Per di più, per togliersi dall’attacco mediatico, la CGIL è rapidamente transitata (insieme a CISL e UIL) a sviluppare la rivendicazione dell’obbligo vaccinale. Anche questa una rivendicazione annunciata più che agita (al di là dell’assunzione della posizione e della lettera al governo, non ricordo particolari azioni di appoggio o pressione per questa rivendicazione), in ogni caso spostando nuovamente sul governo la responsabilità, quando invece il punto principale era in primo luogo quello di discutere, convincere, motivare la propria parte sociale, costruendo un piano di rivendicazioni e di azioni sulle vaccinazioni, da un punto di vista di classe e popolare.  

In reazione alle propensioni reazionarie novax, si è cioè subito la più generale deriva scientista. Come abbiamo ricordato, lo sviluppo di movimenti novax in questi mesi ha spesso stimolato un contraltare scientista. Sebbene una parte del pensiero liberale e liberista, anche molto autorevole (Popper o Von Hayek), ha storicamente assunto posizioni antiscientiste, proprio negli ultimi decenni si è sviluppato un pensiero tecnocratico volto a legittimare l’attuale l’ordine sociale attraverso l’affermazione del dominio della conoscenza scientifica [solo chi sa parli: non si può metter in discussione scelte politiche e sociali prese sulla base di una consapevolezza scientifica]. Questa impostazione, cioè, assume la necessità di un parere vincolante degli esperti, in quanto solo la valutazione razionale di ciò che è vero (in mano a coloro che hanno gli strumenti per capirlo), garantirebbe scelte efficaci ed efficienti. Questo ragionamento, che legittima in campo economico l’autonomia liberale delle banche centrali o in campo infrastrutturale l’imposizione di alcune grandi opere, è stato spesso applicato nel corso della gestione pandemica anche al CTS o a DPCM preparati dai tecnici sulla base delle loro conoscenze scientifiche. Lungi da una presunta ed inesistente dittatura sanitaria (propagandisticamente inventata da ambienti novax), il discorso scientifico è stato comunque usato in questi mesi per legittimare le attuali gerarchie sociali. Nelle riflessioni politiche e sindacali di larga parte della sinistra politica e sindacale questa dimensione scientista e tecnocratica della gestione pandemica non è quasi mai stata sottolineata e, per certi versi, neanche colta.

Si è perso di vista, cioè, il rapporto tra scienza, potere e classe. Nel 1976 quattro fisici (Ciccotti, De Maria, Jona-Lasinio, coordinati da Cini) pubblicarono il libro L’ape e l’architetto. Paradigmi scientifici e materialismo storico (Feltrinelli). Quel testo segnò per certi versi uno spartiacque nel dibattito sul rapporto tra scienza e rapporti di classe. Già nel primo numero dei Quaderni Rossi (1961), nell’articolo Sull’uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo, Raniero Panzieri aveva criticato l’esaltazione delle macchine e della tecnologia, concepite dalla tradizione marxista come strumenti neutrali, sottolineandone invece l’uso capitalistico rivolto allo sfruttamento. Cini e colleghi quindici anni dopo sottolinearono come la scienza stessa non sia neutra, ma sussume i presupposti dominanti del modo di pensare e concepire il mondo. A passare sotto la lente della critica non è semplicemente l’uso che se ne fa, ma il fatto che la scienza partecipi allo sviluppo delle strutture di potere, all’implementazione dei meccanismi di sfruttamento ed in generale alla determinazione dei paradigmi di produzione. Come ha sottolineato il fisico Antonio Sparzani (Su l’ape e l’architetto, il quotidiano dei lavoratori, 7.5.1976, facilmente trovabile in rete su alfabeta2.it), la scienza si propone di rispondere a certe domande ma la scelta delle domande da farsi, che di per sé riguardano problemi oggettivamente presenti nel rapporto dell’uomo con la natura, è fortemente condizionata dal contesto sociale. Come ha sottolineato lo stesso Cini (Pristem 27/28, C’era una volta L’ape e l’architetto), il loro contributo era un’esortazione a non considerare la scienza come rispecchiamento passivo di una realtà data ma a vederla come intervento attivo dell’uomo sulla natura secondo un progetto. Il punto non era quello di affermare che esiste una scienza borghese ed una scienza proletaria, come nelle aberrazioni del lyssenkismo, nelle derive ideologiche zdanoviane o in quelle di una certa rivoluzione culturale cinese. Riprendendo Bucharin (1931, intervento al Convegno di storia della scienza e della tecnologia tenutosi a Londra nel 1931), piuttosto, si voleva sottolineare che il soggettivismo di classe delle forme di conoscenza non esclude in nessun modo il significato «oggettivo» della conoscenza: in una certa misura la conoscenza del mondo esterno e delle leggi sociali è posseduta da ogni classe, ma gli specifici metodi di concettualizzazione, nel loro processo storico, condizionano in vario modo il processo di sviluppo della adeguatezza della conoscenza. Come ha sottolineato sempre Cini, in un convegno del dicembre del ’68 all’Istituto Gramsci su ricerca e società, questa caratteristica si accentua naturalmente man mano che la scienza diventa sempre più “forza produttiva” immediata, non solo perché essa viene “strumentalizzata” ai fini produttivi, ma anche perché lo sviluppo della produzione in certe direzioni piuttosto che altre mette a disposizione della ricerca certi strumenti piuttosto che altri, e soprattutto perché la pressione sociale che si esercita sia nella determinazione delle scelte dei settori da sviluppare e degli investimenti da effettuare, sia nella formazione di una scala di valori di importanza e di prestigio fra le diverse branche della scienza, è conseguenza diretta della struttura di una data società, della sua sovrastruttura e dell’ideologia dominante.

Queste considerazioni di alcuni fisici valgono anche per la salute e la sicurezza. A sottolinearlo, negli stessi anni della riflessione di Cini e colleghi, sono gli studi ma anche l’azione di Giulio Maccacaro, il quale nel 1973 in un dibattito su scienza e potere aveva sottolineato lapidariamente che Scienza è potere. Maccacaro da anni aveva concentrato la sua attività epidemiologica sul rapporto tra esposizioni ambientali e tumori, contro l’impostazione classica che li legava a cause ereditarie, schierandosi per la difesa di operai e operaie alla Montecatini di Castellanza, all’Icmesa, a Seveso, ai petrolchimici di Siracusa o di Porto Marghera [i tragici nomi che segnarono l’ecatombe dell’inquinamento chimico in Italia]. In quella pratica di studio e di intervento sociale, Maccacaro ha sempre sottolineato con forza come il rapporto tra prevenzione e salute sarebbe stato destinato a diventare primario, quello tra ambiente e salute strategico, e il ruolo della politica sanitaria fondamentale per lo sviluppo di una società più giusta. Un’attenzione che, proprio nell’esperienza di Maccacaro, si faceva carico di un punto di vista di classe non solo teoricamente, ma anche nella prassi concreta della costruzione di un conflitto su salute e sicurezza. Da alcuni anni, infatti, presso la Camera del Lavoro di Torino si era formata una Commissione Medica che riuniva assieme (e per la prima volta) sindacalisti, lavoratori, studenti, assistenti sociali, medici: sul piano scientifico, viene così affermandosi il concetto che l’operaio non è soltanto un oggetto della ricerca, ma ne è soggetto, protagonista. Il suo parere, la sua opinione […] costituisce non già un’opinabile valutazione da inserire nell’anamnesi, ma un dato scientifico col quale confrontare gli altri dati rilevabili con diverse metodologie. In un’avanguardia di medici, sindacalisti e delegati di fabbrica, si è cioè formata in quegli anni l’idea che la valutazione dei rischi su salute e sicurezza non è solo e non è tanto una questione tecnica, medica o scientifica, ma ha bisogno del sapere e della soggettività di lavoratori e lavoratrici. Sono le parole d’ordine della “Validazione consensuale” e della “non-delega”. Un’adeguata difesa della salute implicava cioè la capacità da parte dei lavoratori di controllare le condizioni in cui il lavoro veniva svolto, e soprattutto di modificarle. Una riflessione a cui Maccacaro partecipò attivamente e che ha portato, dopo l’esplosione dell’autunno caldo, a puntare esplicitamente sul momento preventivo (Cgil-Cisl-Uil, Fabbrica e salute. Atti della conferenza nazionale, Rimini 27-30 marzo 1972, Edizioni Seusi). In particolare, un momento di svolta è rappresentato da una dispensa FIOM in cui era illustrato il cosiddetto modello sindacale di lotta per la salute, che suddivideva i fattori di nocività in quattro gruppi [nocività ambientale generica, specifica, fatica muscolare e fatica industriale quali ritmi eccessivi, monotonia, ripetitività, responsabilità, posizioni disagevoli]. Da questa attenzione teorica e da queste prassi nacque un ciclo di lotte significative su salute e sicurezza, che in qualche modo è esitato anche a livello normativo, prima con la legge 626 del 1994 e poi con il Testo Unico sulla Sicurezza sul Lavoro [TUSL, dlgs 81/2008], nei quali i Rappresentanti dei Lavoratori sulla Sicurezza mantengono un ruolo attivo di controllo e monitoraggio. Strategie di prevenzione, mappatura dei rischi, valutazione dei bisogni e degli interventi (comprese la gestione delle vaccinazioni, i dispositivi collettivi e individuali di protezione, le misure di sicurezza) in tutto questo filone di elaborazione e lotta di classe non sono lasciati semplicemente alla scienza. Anche perché rifiutando e denunciando ogni atteggiamento scientista, si aveva consapevolezza del peso dell’influenza di classe su questa scienza e ricerca, in particolare proprio quella medica. Di questa riflessione, però, oggi non sembra essercene traccia.

Così, il Green pass è stato considerato sostanzialmente neutro. Il green pass è stato visto come un semplice strumento di incentivazione vaccinale, una soluzione di mediazione rispetto a politiche più coercitive (come l’obbligo vaccinale generalizzato), una forma graduale e progressiva di estensione della vaccinazione. In qualche modo gentile. Questo elemento della spinta gentile è stato sottolineato da molte parti. Non è così. La spinta gentile (o nudge, pungolo) è un modello dell’economia comportamentale, elaborato in particolare da Richard Thaler (premio Nobel per l’economia nel 2017) per influenzare il comportamento delle persone, senza proibire la scelta di altre opzioni e senza cambiare in maniera significativa i loro incentivi economici. Per contare come un mero pungolo, l’intervento dovrebbe essere facile e poco costoso da evitare. I pungoli non sono ordini. Mettere frutta al livello degli occhi conta come un nudge. Proibire il cibo spazzatura [o alzargli il prezzo] no. Il Green pass è una normativa, sul piano generale, che vieta l’accesso ad un luogo se non si ha una vaccinazione (gratuita) o il risultato di un tampone (a pagamento): usa cioè da una parte un divieto, dall’altra un incentivo economico, per spingere la vaccinazione. Non è una spinta gentile.

Ci si può chiedere, comunque, se questa spinta non gentile funziona. Nonostante le apparenze, non è scientificamente una risposta semplice. La ricerca sanitaria, infatti, mostra che i fattori che ostacolano le campagne vaccinali sono diversi e si intrecciano tra loro in modo complesso: da un punto di vista concreto, non sempre obblighi e divieti sono i metodi più efficaci (a meno che non si voglia raggiungere l’obbiettivo di lungo periodo di eradicazione della malattia attraverso l’immunità di gregge, cosa oggi impossibile per il covid19, o uno immediato di difesa funzionale di alcune categorie di lavoratori e lavoratrici essenziali). Nello specifico, come sottolinea in un rapporto l’European Centre for Disease Prevention and Control, ripreso in un articolo su youtrend, è fondamentale agire sulla fiducia, le difficoltà nell’accedere ai vaccini, la percezione del rischio, la ricerca di informazioni e analisi costi-benefici, la disponibilità a vaccinarsi per proteggere gli altri. Cioè, più che sulle costrizione, è più utile ed efficace intervenire sulle paure e le motivazioni a vaccinarsi. Come riporta l’ECDC, infatti, diversi studi mostrano che il certificato per accedere ad alcuni servizi può rendere più incline alla vaccinazione chi era già propenso a farla, ma può avere effetti opposti su chi invece aveva dei dubbi in merito. Uno studio condotto su Regno Unito e Israele ha concluso che i passaporti vaccinali possono avere un effetto dannoso sull’autonomia, la motivazione e la volontà delle persone di vaccinarsi, e inoltre al controllo bisognerebbe preferire un messaggio basato sull’autonomia. Anche l’obbligo vaccinale, pur se molto efficace [soprattutto in alcuni specifici gruppi, come gli operatori sanitari] non è per forza la migliore strategia. Le ricerche, spiega l’ECDC, mostrano che altre strategie possono essere sufficienti o preferibili [soprattutto in una popolazione che non sostiene largamente i vaccini].

Per rendersene conto basta vedere la situazione mondiale. I paesi che prevedono vaccinazioni obbligatorie generalizzate sono pochissimi (Città del Vaticano, Indonesia, Kazakistan, Turkmenistan; Arabia Saudita solo per lavoratori e lavoratrici), mentre altri prevedono obblighi solo settoriali (operatori sociosanitari in Australia, Gran Bretagna, Francia, Grecia, Ungheria, Turchia; Stati Uniti e Canada per impiegati federali). In Europa, Spagna e Belgio non hanno mai previsto il Green pass; Svezia e Danimarca lo prevedevano per i luoghi pubblici ma ora non più; Germania, Francia, Irlanda, Austria, Olanda, Portogallo, Romania e Croazia, lo prevedono in genere per accedere a locali ed eventi, ma non per scuole, università e nemmeno per andare a lavorare; la Grecia prevede obbligo per luoghi pubblici e per il lavoro (con una normativa simile se non più stringente che in Italia). Bene, quali sono i tassi di vaccinazione sulla popolazione di questi paesi? Al 17 ottobre 2021 sono questi (tra parentesi la % sui vaccinabili, quando è diversa): Emirati Arabi Uniti 86%; Portogallo 85%; Cayman 84%; Singapore 82%; Malta 80%; Spagna 78%; Qatar 77%; Giappone 76%, al 75% in Islanda, Danimarca, Cile (85%), Uruguay, Irlanda, Cambogia (82%) e Cina (79%); Belgio 72%; Canada 72% (79%); Italia 71% (77%),; al 67%GB (74%) e Francia (76%); Germania e Svezia al 66%; Grecia 63%; Austria e Svizzera 62%; Cuba 59% (85%); Sud Corea 62% (78%); Turkmenistan 54% (74%); Brasile 50% (74%), Croazia 45%. Come si può facilmente vedere, ci sono altri fattori che incidono, essendoci paesi con alti tassi di vaccinazione ma senza obblighi o divieti, paesi con tassi più bassi di vaccinazione che hanno invece green pass o obblighi vaccinali.

Guardiamo allora più da vicino il green pass. La scelta di introdurlo per accedere ad un’ampia casistica di locali pubblici, al di là di eventi specifici o della mobilità tra diverse regioni (DL 52 del 26 aprile 2021), è prevista nel DL 105 del 23 luglio 2021 (poi convertito in legge con la n. 126 del 16 settembre 2021). Nello specifico, si limita così (per chi l’accesso ai servizi di ristorazione al chiuso per il consumo al tavolo; spettacoli (concerti, teatri, cinema, ecc, anche all’aperto); eventi e competizioni sportive, musei e altri istituti di cultura (biblioteche, archivi, ecc); piscine, palestre, ecc; sagre e fiere, convegni e congressi; centri termali, parchi tematici e di divertimento; centri culturali, centri sociali e ricreativi e circoli associativi; sale gioco, sale scommesse, sale bingo e casinò; concorsi pubblici. Lo scopo di questo Green pass, come abbiamo detto, è l’incentivazione della vaccinazione (in modo non gentile), non la diretta protezione delle persone. Basti considerare l’estensione amministrativa della durata della certificazione (prima a 9 mesi e poi a 12 mesi), anche se è dimostrato un evidente calo della copertura vaccinale già a partire dai 3/4 mesi, in modo significativo dai 6. Al di là di Pfizer, infatti, che ha svolto uno studio (pubblicato su Lancet) su circa 3,5 milioni vaccinati in California, verificando che l’efficacia verso l’infezione, sintomatica e asintomatica, passa dall’88% al 47% dopo cinque mesi dalla seconda dose (anche se quella verso il ricovero rimane stabile intorno all’88%), il quarto rapporto sull’efficacia dei vaccini dell’Istituto superiore di sanità (Iss), di ottobre, che ha coinvolto 29 milioni di vaccinati, indica che con la Delta l’efficacia nell’evitare l’infezione passa dall’84% al 67% (anche se la protezione dalla malattia grave rimane in entrambi i casi intorno al 90%). Cioè, i due studi evidenziano come dopo sei mesi dalla vaccinazione si rimane personalmente protetti dal rischio di ricoveri ospedalieri, ma non si è così sicuri di contenere l’infezione: d’altra parte, come sottolinea Stefania Salmaso (direttrice sino al 2015 del Centro nazionale di epidemiologia, sorveglianza e promozione della salute dell’Iss), l’obbiettivo delle campagne di vaccinazione era quello di diminuire la pressione sugli ospedali, non era azzerare la trasmissione del virus.

Un green pass liberista. Lungi da esser uno strumento che da solo limita o controlla il contagio (come una tracciatura di massa, con tamponi continui e veloci), la sua funzione è stata sospingere le vaccinazioni scaricando costi e responsabilità della campagna vaccinale sui singoli individui. Coerentemente con un’impostazione liberista da tempo dominante nelle politiche sanitarie, infatti, in questo modo il Servizio Sanitario Nazionale e le strutture pubbliche si liberano della funzione di promuovere, motivare e convincere alla vaccinazione: di più, questo strumento occulta e di fatto cancella nelle strategie vaccinali l’intervento sui fattori e le determinanti strutturali che influiscono sul processo vaccinale (quelli ad esempio indicati dal rapporto IEDC che abbiamo prima richiamato, come le difficoltà nell’accedere ai vaccini e la disponibilità di informazioni, ma anche le differenze sociali e culturali), liberando quindi il SSN dalla necessità di implementare una reale struttura sanitaria territoriale (inevitabile, se si volesse incentivare nei territori le vaccinazioni). Una struttura territoriale pubblica necessaria da oltre un anno per un reale tracciamento di massa (mai iniziato), distrutta dalle politiche sanitarie degli ultimi vent’anni ed ora evitata anche attraverso l’uso di una campagna di incentivazione della vaccinazione di matrice individualista. Il green pass, allora, lungi da essere uno strumento neutro, è frutto di un’impostazione liberale che da una parte permette di non investire sul rilancio di una sanità pubblica (come evidente nel PNRR e nel Nadef), dall’altra parte è in sé divisivo, proprio perché (come le politiche sanitarie sugli stili di vita) scarica completamente sul singolo la responsabilità sulle sue scelte sanitarie (libertà di scelta), mettendolo davanti a divieti ed incentivi economici.

Basta guardare i costi del Green pass. Il Dl 105/21, poi rivisto su questo nel DL 127/21, ha calmierato il costo dei tamponi: nella sua versione finale, 15 euro per quelli rapidi (durata 48 ore), nessun limite per quelli molecolari, che si pagano in strutture pubbliche e private tra i 50 ed i 150 euro (durata 72 ore). Ora, il loro costo di produzione è calcolabile per i primi tra i 4 ed i 6 euro (2 euro di materiale, gli altri di personale e macchine), tra i 28 ed i 30 euro quelli molecolari (tra i 12/18 euro i materiali, il resto costo personale e macchine). L’obbiettivo non è chiaramente stato quello di rendere i tamponi il più possibile fruibili a livello di massa (anche perché si sarebbe dovuta costruire una rete di laboratori e quindi aumentare significativamente la capacità di realizzare questi tamponi). Così, si può vedere anche che, nonostante i calmieramenti, c’è chi sta facendo profitti (in questi giorni i tamponi giornalieri sono aumentati di oltre 300mila unità e secondo molti sono insufficienti). Il DL 105/21, inoltre, non interveniva su lavoratori e lavoratrici dei settori per cui era previsto, con un evidente contraddizione sanitaria (chi serviva le persone che dovevano avere il GP non vi era tenuto): una contraddizione che chiaramente richiamava la naturale estensione di quel provvedimento ad altri settori (come poi abbiamo visto). Gli unici lavoratori e lavoratrici tenuti alla vaccinazione, sino a questa estate, erano [giustamente!] gli operatori sociosanitari a contatto con pazienti (pubblici e privati, dipendenti e autonomi, circa 2 milioni in Italia, solo 600mila del SSN), come da DL 44 del 1 aprile 2021. Questo provvedimento, però, prevedeva per i dipendenti il rispetto della ratio delle procedure previste dal CCNL e dal TUSL, con una verifica della commissione medica, la contestazione formale dell’inadempienza, la possibilità di ricorsi, garanzie stipendiali oltre che il mantenimento del posto di lavoro (anche se, introduceva una sanzione sui generis, con la possibilità di un demansionamento anche stipendiale, diversamente dall’articolo 42 del TUSL che ricorda come di fronte ad un’inidoneità alla mansione specifica si adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza). Procedure e garanzie che comunque non hanno intaccato l’efficacia del provvedimento, stante che gli operatori a cui sono arrivate contestazioni sono solo 45mila, meno del 1% del personale soggetto ad obbligo.

La ratio del Green pass è emersa comunque sin dalla sua estensione alle mense. L’ho sottolineato, con altre riflessioni sindacali, in un contributo scritto a quattro mani con Delia. Le mense aziendali, infatti, erano evidentemente escluse dal testo del DL 105/2021: a chiarirlo anche formalmente, come noto, una circolare della regione Piemonte, che ai primi di agosto ricordava come l’art. 3 comma 1 interviene sull’articolo 9-bis del DL 52 del 22 aprile 2021, che riportava a suo volta all’art 4 dello stesso DL, dal quale risultano escluse le mense aziendali e i servizi di catering su base contrattuale, la cui attività era già consentita ai sensi dall’art. 27, comma 4, del DPCM del 2 marzo 2021. La mensa così avrebbe dovuto esser equiparata a un’attività di servizio. Il governo invece, tramite FAQ (una pagina internet di chiarimento, senza alcun valore istituzionale) ne ha interpretato liberisticamente l’estensione. Questa generalizzazione, improvvisata e senza base normativa, era indicativa della volontà di usare il Green Pass come strumento di spinta della vaccinazione entrando pesantemente nella regolazione dei rapporti di lavoro.

Il Green pass assume la sua forma piena con l’estensione all’insieme del lavoro. Questa estensione, come sappiamo, avviene in due passaggi: il DL 111 del 6 agosto 2021, che ha avuto bisogno di una correzione con il 122/21 perché incompleto o ambiguo in alcuni passaggi, ha istituito il GP per lavoratori/lavoratrici di scuola e università (oltre che per gli studenti universitari); il DL 127 del 21 settembre 2021 lo ha portato in tutti i luoghi di lavoro. Come si sa, questi DL prevedono la necessità di esibire una certificazione valida per l’ingresso: se la certificazione manca o non è validata, il lavoratore o la lavoratrice sono dichiarati assenti ingiustificati e il loro stipendio è sospeso (nella scuola e nell’università, dopo cinque giorni è sospeso anche il rapporto di lavoro, con tutte le relative conseguenze; in tutti gli altri luoghi di lavoro, invece, si prevede solo la sospensione della retribuzione, ma comprensiva di ogni altro emolumento, quindi anche previdenza, ferie, anzianità e ogni altro istituto contrattuale). Qui non vogliamo perderci nel sottolineare i numerosi problemi e contraddizioni presenti nell’uso approssimativo di una figura come l’assenza ingiustificata (motivo di licenziamento dopo tre giorni per tutti i pubblici dipendenti). Come non approfondiamo contraddizioni e problemi sulle procedure di controllo (gestione dei dati sanitari, individuazione delle figure che controllano, loro carichi di lavoro e riconoscimento; complicazione nelle procedure e responsabilità nella valutazione delle esenzioni; assenza di procedure nel caso di errori e contestazioni sulla correttezza delle scelte, ecc). Non interveniamo nemmeno sulla diversità dei settori ed i relativi problemi specifici (pure pesanti), pensiamo ai lavori che non hanno particolari luoghi in cui si svolge la prestazione lavorativa (cantieri, ecc) o che hanno quote importanti di lavoratori e lavoratrici già vaccinati, ma con vaccini non riconosciuti dall’EMA (logistica e non solo). Questi problemi sono appunto conseguenza di una gestione affrettata e approssimativa del governo, ma non interessano la natura dei provvedimenti.

Limitiamoci a sottolineare tre conseguenze dei provvedimenti nei rapporti di lavoro.
In primo luogo, salta agli occhi come questo green pass divida il lavoro, perché vengono previste norme e procedure diverse in settori diversi. Non è una divisione tra pubblici e privati (pure sarebbe grave), ma una differenziazione casuale: così, oggi, ad esempio nei palazzi di un policlinico universitario, si potrebbero incrociare lavoratori o lavoratrici soggetti al DL 44/21 (operatori sanitari con vaccinazione obbligatoria, ma con procedure di garanzia), al DL 111/21 (amministrativi università, green pass e sospensione dal lavoro) al DL 127/21 (amministrativi SSN; green pass e sospensione stipendio).
In secondo luogo, l’estensione del green pass per l’accesso al lavoro (ed ai servizi universali) contraddice direttamente il TUSL (il Dlgs 81/2008). Non è solo sbagliato dover pagare per lavorare. L’attuale normativa sulla sicurezza nei posti di lavoro prevede, all’art. 15, comma 2, che le misure relative alla sicurezza, all’igiene ed alla salute durante il lavoro non devono in nessun caso comportare oneri finanziari per i lavoratori. In nessun caso. Se la certificazione è necessaria per rendere il lavoratore o la lavoratrice idoneo all’attività lavorativa, e se il tampone permette di ottenere questa certificazione, non si capisce come questo tampone debba esser a carico del singolo e non delle aziende. Principio che non vale solo per lavoratori e lavoratrici, me per ogni altra persona che accede a servizi universali (scuola, trasporti, università, ecc).
In terzo luogo, la normativa sul green pass prevede una sanzione sui generis, cioè la perdita del salario diretto e indiretto del lavoratore o della lavoratrice, per via amministrativa e al di fuori di ogni regolazione delle misure disciplinari (a partire da verifica e contradditorio, come invece esiste nel DL 44/2021 per gli operatori sanitari). Uno strumento come il green pass nei posti di lavoro, che implica nella sua stessa configurazione normativa la perdita dello stipendio, è uno strumento che colpisce direttamente il diritto al lavoro e al salario, oltre che esser più in generale una strategia liberista e individualista di incentivazione vaccinale.

Il limite principale della sinistra sindacale e politica in questi mesi, allora, è non aver sostenuto un punto di vista di classe sulla salute e la sicurezza. In generale, in relazione ad una critica della presunta neutralità della scienza, anche durante la pandemia. Nello specifico, nella mancanza di una riflessione sulle strategie di prevenzione ed il green pass. Questo vuoto, di fronte all’inevitabile disagio sociale conseguente a queste politiche, è stato riempito da chi poteva contare su un senso comune reazionario e anche sulla capacità di mobilitazione di suoi referenti sociali. I ritardi, le insufficienze, gli errori, si pagano: oggi il contrasto contro questo green pass è colorato e dominato da parole d’ordine, significati e pulsioni reazionarie (la libertà di scelta, il rifiuto di una regolazione pubblica, il rifiuto delle vaccinazioni). La classe ed il lavoro sono divise da queste discussioni e da opposte tentazioni, perché negli scorsi mesi non ci si è impegnati a decrittare, far crescere e sviluppare un punto di vista alternativo sulla questione.

Pensare oggi di convergere in quelle piazze contro il green pass, senza aver costruito questo punto di vista, soprattutto senza averlo fatto vivere in prassi e rivendicazioni di classe (come solo occasionalmente e parzialmente si è fatto), rischia di esser una soluzione peggiore dell’errore, perché da una parte apre ancora più divisioni nel lavoro, dall’altra gonfia una dinamica che porta il segno della reazione. Come si è visto a Trieste, come si vede a Milano, oggi queste mobilitazioni indipendentemente da composizioni molteplici e frammentate, si inseriscono nel movimento novax e sospingono quel senso comune.  

Sarebbe però, credo, un errore altrettanto grande appoggiare questo green pass e questa gestione vaccinale. Questa impostazione, da una parte, potrebbe infatti regalare oggi le menti e il cuore di diversi settori del lavoro a quelle piazze e quel senso comune, rischiando anche di aprire uno spazio (forse un piccolo spazio, ma comunque uno spazio) di radicamento ed organizzazione della destra reazionaria in alcuni settori del lavoro. Questa impostazione, dall’altra parte, potrebbe rafforzare non solo il consenso nell’attuale governo, ma più in generale in una concezione tecnocratica della gestione politica, su cui proprio Draghi oggi cerca di far leva per una svolta semi-bonapartista nel paese. Lo so, questa posizione è oggi complessa, soprattutto da articolare in un intervento di massa, appunto perché sconta le impreparazione e i ritardi dei mesi (e degli anni) passati.

Un’altra critica, un altro movimento, un’altra piazza. Nel 2018/2019, in Francia, si è sviluppato un grande movimento di massa, con dimensioni realmente di massa (milioni di persone in piazza), quello dei gilet jaunes. Quel movimento, innescato da politiche fiscali ecologiste che scaricavano i costi della decarbonizzazione sulle classi medie e popolari, pur avendo evidenti propensioni antisistema era un movimento reazionario. Diverse componenti e soggetti della sinistra politica e sindacale francese furono tentati di convergere in quelle piazze e di cambiarne il segno. Non era possibile. Altre componenti tentarono invece di sviluppare i gilet rouges, cioè delle piazze del lavoro che difendessero gli interessi del lavoro. Nell’inverno del 2019, le piazze francesi furono riempite dai grandi scioperi contro la riforma delle pensioni, che spezzarono quella dinamica reazionaria e impostarono un diverso quadro politico e sociale (anche se le ragioni che gonfiarono il movimento reazionario di massa sono in Francia tanto di lungo periodo quanto in Italia, emergono nel consenso diffuso della destra, sono state rilanciate dalla pandemia e rialzano oggi la testa nel consenso di massa per Eric Zemmour). Per rompere il protagonismo reazionario novax, cioè, bisogna costruire un movimento di massa di segno diverso.

In primo luogo, costruendo un discorso e delle rivendicazione di classe su green pass e vaccinazioni. Contro le piazze novax, cioè, è fondamentale rivendicare apertamente ed esplicitamente la vaccinazione di massa, ma anche un intervento diretto e organizzato del sindacato e della sinistra per promuovere nei posti di lavoro la campagna vaccinale. Contro le politiche individualiste e liberiste di gestione delle campagne vaccinali, è importante rivendicare tamponi gratuiti in tutti i posti di lavoro, a carico del datore di lavoro. Perché la salute e la sicurezza sono a carico dei padroni. Perché la campagna di vaccinazione deve esser condotta nel territorio, con un’estesa attivata di tracciamento e ricostruendo quelle strutture sociosanitarie che sono in grado di intervenire nei quartieri, nelle aziende, nelle scuole di ogni territorio (ricordate il medico scolastico, i consultori pubblici di quartiere, gli ambulatori e i laboratori nei distretti?). Per questo, oggi, la rivendicazione di una campagna vaccinale da un punto di vista di classe è legata non solo ai brevetti e la vaccinazioni nel mondo (nessuno si salva da solo in una pandemia), ma dal riavvio immediato degli investimenti sul sistema sociosanitario pubblico: risorse, certo, ma anche la re-integrazione delle strutture sociali e sanitarie, il superamento della logica aziendalistica di budget nel SSN, il ritorno ad un sistema nazionale contro l’attuale configurazione regionalistica. Un contrasto al green pass per un’altra politica sociosanitaria, non per la libertà di scelta.

In secondo luogo, in questo autunno oramai avanzato, il governo sta dispiegando le sue politiche economiche. Il Nadef, la legge di bilancio, la messa a terra del PNRR, parlano un’unica lingua: quella della centralità dell’impresa, dello sviluppo della produttività totale dei fattori, della ricostruzione dei margini di profitto nella competizione capitalista. Lo si vede proprio a partire dalla Legge di Bilancio che si profila davanti a noi: ritorno progressivo ma veloce alla legge Fornero sul lato delle pensioni, riforma fiscale centrata sul taglio al cuneo fiscale (cioè per abbassare il costo del lavoro), ammortizzatori sociali che non saranno né realmente universali né dignitosi, derubricazione di ogni reale investimento su istruzione e sanità. Era il terreno che la sinistra politica e sociale pensava fosse da privilegiare ed oggi, di fatto, è indebolito dalle divisioni della classe e dal protagonismo delle piazze reazionarie. Su queste questioni, però, proprio a fronte delle insicurezze e della paure rilanciate dalla pandemia, c’è grande attenzione e sensibilità sociale. Su queste questioni, se oggi non si costruisce un chiaro intervento e una chiara mobilitazione (e qui, in primo luogo, si parla alla CGIL), schiacciandosi magari sulle opportunità e le relazioni con il governo Draghi, o sulle resistenze della CISL che vuole oggi proporsi come il sindacato affidabile a questa compagine, il rischio è che proprio quel senso comune reazionario, quelle piazze e quei movimenti reazionari, trovino nuova linfa e nove prospettive. Aver scontato ritardi ed errori, trovarsi oggi in difficoltà per quei ritardi e quegli errori, non è certo una scusa per perseverare con nuovi ritardi e nuovi errori. Il 30 ottobre, la chiamata della GKN a costruire uno spezzone #insorgiamo nel quadro di un corteo contro il G20 e le sue politiche capitalistiche di gestione della crisi, è una piccola tappa di questo cammino. Non bisogna fermarsi al primo passo. Proveremo a non fermarci.

Luca Scacchi

 

 

Lascia un commento