COMPETIZIONI TRA UN POLO IMPERIALISTA DOMINANTE E UNO EMERGENTE.

[articolo pubblicato sul numero 17 di Marxismo Rivoluzionario, aprile 2021]
di Luca Scacchi

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Glenn Cowen, una mattina di aprile del 1971, si svegliò tardi. Giocatore di ping pong, si trovava a Nagoya per il 31° mondiale: vestendosi in fretta e furia si precipitò fuori dal suo albergo, ma perse il pulmino. Decise quindi di salire sul successivo, accorgendosi solo a bordo che stava portando la squadra della Repubblica Popolare Cinese. Glenn fu accolto da gelo e indifferenza (come si usava all’epoca). Però Zhuang Zedong, un giocatore cinese, gli strinse la mano, gli regalò una foto delle sue montagne e aprì un timido contatto. Usando questo fortuito evento, il governo cinese invitò l’intera squadra americana a Pechino il 10 aprile 1971, la prima visita di esponenti USA dal 1949.

Qualche mese più tardi, la sera dell’otto luglio 1971, Henry Kissinger vomitò l’anima, come riportano le notizie dell’epoca (anche se con più…understatement). Kissinger era ad una cena nel palazzo presidenziale di Islamabad al termine di un lungo tour asiatico (il caldo, la stanchezza, il cibo piccante): si rifugiò quindi per qualche giorno in una villa sulle fresche montagne del Pakistan. Kissinger, ebreo bavarese che non perse mai il suo accento tedesco, aveva spiccato il volo di una lunga carriera diplomatica dalla sua cattedra di Affari Internazionali ad Harvard, sotto le ali di Nelson Rockefeller (a lungo governatore repubblicano dello Stato di New York e fratello di David, fondatore della famigerata Commissione Trilaterale). Collaboratore di secondo piano nelle amministrazioni democratiche Kennedy e Johnson [la politica estera USA ha sempre avuto tratti bipartisan], esperto di politica internazionale del candidato perdente alle primarie repubblicane (Nelson Rockefeller), divenne con Nixon prima Consigliere per la sicurezza nazionale e poi segretario di Stato, segnando la fine del lungo conflitto vietnamita e ridisegnando la politica estera statunitense.

LA SVOLTA CINESE.

Kissinger in realtà la sera dell’otto luglio non era stato male. Era solo un escamotage per uscire dai radar: mascherato con cappello, foulard e occhiali da sole, alle 4 del mattino salì su un aereo con quattro diplomatici cinesi. Nei due giorni successivi, a Pechino, si incontrò con Zhou Enlai per preparare il successivo viaggio di Nixon. La settimana che cambiò il mondo, dal 21 al 28 febbraio 1972, vide Nixon visitare Pechino, Hangzhou e Shanghai, incontrando con Kissinger Mao Zedong e Zhou Enlai. Il loro dialogo culminò nel Comunicato di Shanghai, tuttora pietra fondante dei rapporti tra Usa e Cina (Pizzati, 2021). Quel comunicato alterò gli equilibri mondiali. Da diversi anni stavano crescendo evidenti tensioni tra il PCUS (l’URSS) e il PCC (la Cina). I due stati socialisti, con un’economia collettivizzata ma guidati da regimi burocratici, nel corso degli anni sessanta avevano infatti iniziato a seguire traiettorie tra loro sempre più contrastanti. Sino ad arrivare nel 1969 al conflitto armato sul fiume Ussuri, con centinaia di morti e intensi bombardamenti sull’isola di Zhenbao: secondo diverse ricostruzioni fu addirittura presa in considerazione una possibile escalation nucleare (Gerson, 2010).

L’URSS, dopo la vittoria nella seconda guerra mondiale e il lungo dominio staliniano (con evidenti tratti paranoici) aveva assestato con Krusciov (1954) e poi Brežnjev (1964) la sua degenerazione burocratica, sviluppando uno stato operaio deformato in cui i rapporti di produzione non erano più capitalistici, ma le strutture politiche ed economiche erano volte ad espropriare il proletariato in favore di un bonapartismo consolidatosi in regime (Bellis, 1979; OTI, 1998). In questo quadro, negli anni sessanta l’URSS sviluppò la coesistenza pacifica o competitiva (Graziosi 2011): cioè la linea promossa dal XX congresso di una contrapposizione politica, ideologica ed economica tra blocchi, in cui erano possibili conflitti limitati che non sarebbero però mai dovuto esitare in una guerra dispiegata (tenendo in considerazione la reciproca deterrenza nucleare). Questa politica implicava un rigido controllo sul proprio blocco di riferimento, come fu evidenziato in Europa orientale (con relative minacce e invasioni: Ungheria 1956, Cecoslovacchia 1968 e Polonia 1981) e nelle diverse periferie (Cuba e Repubblica popolare dello Yemen negli anni sessanta; Afghanistan, Etiopia, Somalia, Mozambico, Vietnam e Cambogia negli anni settanta).

La Cina comunista, dopo la guerra di Corea ed il tracollo della politica di nuova democrazia (blocco delle quattro classi: operai, contadini, piccola borghesia e settori progressisti del capitale), dopo il disastro del grande balzo in avanti, sviluppò invece un’aperta lotta interburocratica che si dispiegò in tutta la società (Clark, 2008; Bronzo, 2017). Nei primi anni sessanta, infatti, Mao e il suo circuito (Lin Biao, Chen Boda, Kang Sheng) furono esautorati dalla maggioranza del CC, raccolta intorno a Liu Shaoqi (Presidente) e Deng Xiaoping (sindaco di Pechino e poi segretario). L’offensiva contro il quartier generale partì dall’esercito e arrivò a studenti e operai (Bronzo, 2017; Grisolia, 2021). Il coinvolgimento delle masse, con l’organizzazione di contrapposti circuiti di guardie rosse, innescò quindi anche dinamiche di autorganizzazione (Comune di Shanghai, febbraio 1967; Hongsheng, 2010). La conseguente reazione burocratica, con l’intervento dell’esercito, portò ad una contrastata stabilizzazione nel corso degli anni settanta. Il PCC non era solo dilaniato da un’aperta lotta intestina (quasi una guerra civile), ma questa lotta si svolgeva proprio intorno ai processi di stabilizzazione burocratica: il gruppo dirigente maoista temeva quindi possibili interventi sovietici (mentre, al suo confine meridionale era in pieno svolgimento la guerra vietnamita).  

Questa dinamica non era passata inosservata. Subito prima di divenire presidente, su Foreign Affairs (la rivista di politica estera dell’establishment statunitense) lo stesso Nixon scrisse un articolo dal titolo emblematico (Asia after Vietnam, ottobre 1967). Secondo l’esponente repubblicano, gli Stati Uniti dovevano metter al centro delle proprie politiche la crescita economica del Pacifico: il comunismo in Cina non si sarebbe dovuto considerare solo un pericolo (che pure esisteva), ma attraverso il commercio lo si sarebbe dovuto integrare nelle regole civili dei rapporti internazionali, per riportarla poi nel lungo termine nella comunità internazionale come nazione in sviluppo. Come Nixon concluse, bisognava controllare il cambiamento, piuttosto che essere controllati da esso. La nuova amministrazione USA si mosse in quella direzione. Nel 1970 il governo di Pechino venne riconosciuto [anche dall’Italia], mentre l’assemblea dell’ONU non solo la accolse nel suo seno, ma gli assegnò persino un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza (riconoscendo le sue dimensioni e il suo ruolo di potenza nucleare). Infine, nel giugno 1971 (dopo la visita a Pechino della squadra di ping pong e prima del viaggio segreto di Kissinger), gli Usa tolsero l’embargo imposto sin dal 1949. Una politica sostenuta non solo dal Partito repubblicano, ma incoraggiata da tutto l’establishment, come riconobbe esplicitamente qualche anno dopo Zbigniew Brzezinski (1973), l’alter ego democratico di Kissinger.

Il viaggio di Nixon segnò infatti un cambio di alleanze: Stati Uniti e Cina svilupparono una lunga stagione di reciproco allineamento, che terminò solo nel 1989. In primo luogo si consolidò la frattura tra Cina e URSS, aprendo quindi in Asia una stagione di conflitti (anche armati) tra i paesi del cosiddetto campo socialista: le tensioni e gli scontri nel 1975/1977 tra il Vietnam riunificato e il folle regime dei Khmer rossi in Cambogia (sostenuto da cinesi e…statunitensi), la scelta di campo Vietnamita e l’accordo di cooperazione con l’URSS del 3 novembre 1978, la successiva invasione della Cambogia a dicembre, la breve guerra tra Vietnam e Cina nel 1979 e quindi la lunga guerra civile cambogiana (Zhang, 2015).

Il cambio di alleanze consolidò la stabilizzazione burocratica ed aprì la strada allo sviluppo capitalista cinese. Il gruppo dirigente maoista era anziano (Oksenberg, 1971): Mao aveva quasi 80 anni, Zhou Enlai e Kang Sheng 73 anni, Ye Jianying (capo dell’esercito e poi presidente negli anni cruciali tra il 1978 ed il 1983) 72 anni, i “giovani” Chen Boda e Deng Xiaoping (ritornato vicepremier nel 1973) 67 anni (mentre Lin Biao morì proprio nel 1971, in circostanze mai chiarite, in una delle faide del gruppo dirigente del PCC). In un paese diviso, questo gruppo dirigente era uscito dalla rivoluzione culturale sostanzialmente grazie all’esercito e l’Esercito Popolare di Liberazione sostenne con convinzione l’intesa con gli USA (Miller, 2011): sia per timore della minaccia sovietica, sia per lo spazio che le nuove intese davano alla sua modernizzazione e, più in generale, ad un suo ruolo nel successivo sviluppo economico (Ross, 1995; Lampton, 2019). Oksenberg (1971) tra l’altro ha sottolineato come l’esercito, nella sterminata società cinese, avesse ancora deboli capacità egemoniche e vide proprio nella crescita economica un possibile strumento di consolidamento. Infatti, sino ai primi anni ottanta partito e società rimasero segnate da esplicite conflittualità, dalla breve leadership della banda dei quattro al cosiddetto muro della democrazia. Nel Comunicato di Shanghai, in ogni caso, i due paesi concordarono un progressivo sviluppo degli scambi commerciali (Eckstein, 1975), nell’ottica indicata da Nixon qualche anno prima (Di Nolfo, 2015). In pochi anni gli USA diventarono il principale esportatore in Cina e nel 1975 l’export cinese di petrolio raggiunse i 200.000 barili al giorno: da una parte fu portata nel paese valuta per avviare il suo decollo economico, dall’altra si permise alla Cina di attivare crediti e debiti, entrando quindi nel sistema bancario mondiale (Scobell, 2021). Entro la metà degli anni settanta, infatti, la politica di allineamento con gli USA venne supportata (o almeno non ostacolata) anche dalla sinistra banda dei quattro e da Hua Guofeng (che sviluppò un breve quanto fallimentare tentativo di burocratizzazione in stile sovietico; Rozman, 2014). La presa di potere di Deng Xiaoping alla fine degli anni settanta e lo sua svolta economica consolidò intorno a questa politica (ed al partito) anche studenti, docenti universitari e intellettuali (Ross, 1995).

L’EPOCALE SVILUPPO CAPITALISTA CINESE.

Il lungo processo di liberalizzazioni avviato da Deng nei primi ottanta ha progressivamente reintrodotto spazi capitalistici nella società cinese, con lo scioglimento delle Comuni agricole, la creazione delle Zone Economiche Speciali, la privatizzazione delle imprese statali (SOE) e l’introduzione di politiche di mercato (Bronzo, 2017). Uno sviluppo capitalistico cresciuto prepotentemente dopo la crisi di Piazza Tienanmen e il viaggio di Deng del 1992, in risposta e all’inizio in contrasto al gruppo dirigente intorno a Li Peng e Chen Yun (Coase e Wang, 2016). Nel corso degli anni novanta, con Jiang Zemin e Zhu Rongij si è quindi consolidato il processo di capitalizzazione cinese: la produzione di merci ed il lavoro salariato, lo sfruttamento del lavoro, divenne socialmente dominante (Bramall, 2008). Nel 2001 il paese entrò nel WTO, segnando quindi una sua piena integrazione nel mercato mondiale (Samarani, 2006). Questa dinamica ha impresso un’epocale sviluppo economico, senza riscontri nella storia, proseguito anche nell’ultimo ventennio, sebbene con tassi più contenuti dopo l’esplosione della Grande Crisi nel 2008/09 (da oltre il 14% del 2007 al 6% degli ultimi anni, a parte il crollo al 2% del 2020 a causa della pandemia).

Basti pensare che il PIL cinese nel 1980 era intorno ai 300 mld di dollari (settimo al mondo, inferiore ai circa 480 mld dell’Italia, gli 850 della Germania ovest, gli oltre 1100 del Giappone e 2850 degli USA) e da allora si è espanso ininterrottamente (solo una volta sotto il 5% nel ‘89/90; oltre il 10% nei primi anni ’80,’90, e 2000). Oggi la Cina è un paese sviluppato, con un PIL oltre i 14mila mld di dollari (il secondo al mondo, dietro agli USA intorno ai 20mila, staccata dal Giappone sotto i 5mila). È da tempo la prima potenza industriale al mondo (oltre il 30% del valore aggiunto manifatturiero, contro il 19% USA, l’8% giapponese, il 6% tedesco, il 2,5% di SudCorea, India e Italia), con colossi come Stategrid, Sinopec e ChinaPetroleum (tra le prime 5 imprese al mondo, con fatturati intorno i 400 mld di dollari), grandi imprese anche private come China State Construction Engineering (costruzioni, 200 mld), Huawei (125 mld), SAIC motor (122 mld), Chinamobile (110 mld), Pacific Construction Group (costruzioni, 98 mld), Faw (automotive, 90 mld), Amer e Minmetals (metalli, entrambe sugli 88 mld), Donfeng (auto, 84 mld),  Alibaba (e-commerce, 74 mld), Chemchina (chimica, 65 mld), Lenovo (elettronica, 51 mld) e tante altre (124 nelle prime 500 del mondo secondo Forbes 2019, più delle 121 statunitensi, la più piccola la Shanxi Jincheng Anthracite Coal Mining Group con 25 mld di fatturato). Infine, il settore bancario vanta ben 4 dei 10 principali istituti del mondo, tra cui la Industrial and Commercial Bank of China (la prima internazionalmente per capitalizzazione), la China Construction Bank, la Bank of China, la Agricultural Bank of China e la China Development Bank. Tutte queste banche possiedono sedi all’estero (Asia, Europa, Africa e America), ma quella più presente a livello internazionale è la BOC.

La Cina è infatti oggi la fabbrica del mondo, non solo perché produce larga parte delle merci, ma anche perché produce larga parte della macchine per la manifattura (Bramall, 2018). Nel corso degli ultimi vent’anni la sua struttura produttiva, dopo esser cresciuta sulla concorrenza di prezzo (in settori ad alta intensità di manodopera e basso contenuto tecnologico), è entrata prepotentemente anche nelle merci di avanguardia (comunicazioni, elettronica, e-commerce, chimica, automotive) e nella produzione dei mezzi di produzione (n+1, 2017; Bronzo, 2017; Bramall, 2018). Negli ultimi dieci anni ha visto una crescita del 20% delle esportazioni di macchinari e di beni durevoli [locomotive, navi, pannelli fotovoltaici, monitor], i beni di consumo sono calati al di sotto del 40% delle esportazioni, mentre i beni capitale sono passati dal 10 a oltre il 50%. In termini assoluti la Cina detiene oltre il 30% delle esportazioni mondiali di beni a media tecnologia e oltre il 20% di quelle dei mezzi di produzione. Un tessuto industriale profondamente integrato nel mercato mondiale (Chen ed al, 2011; Costa, 2019): il 40% delle esportazioni è prodotto da aziende con partecipazione estera; una sua larga parte sono semilavorati coinvolti in filiere internazionali. In questo quadro, il suo sviluppo si è retto per anni sugli investimenti (sino a raggiungere quasi il 50% del PIL negli anni 2000), dall’immobiliare a un impressionante rete infrastrutturale (oltre 34mila chilometri di TAV, contro i circa 20mila in tutto il resto del mondo). Anche se nell’ultimo quinquennio (CEIC data, 2019) è tornata ad un livello più contenuto, intorno al 40% (per fare un raffronto, la percentuale di investimenti sul PIL in Italia era storicamente intorno al 20/22% prima della recessione del 2009, è crollata da allora al 17/18%).

L’ascesa cinese convive con forti contraddizioni. Larga parte del paese è ancora povero: il PIL pro-capite è oggi intorno ai 10mila dollari (30mila in Italia e 60mila in USA), con forti squilibri (dai 16/18mila sulla costa ai 3mila del sud). La rapidità e la vastità della crescita cinese è segnata però non solo da diseguaglianze (Jain-Chandra et al, 2018; Piketty e al, 2019), ma anche da una struttura squilibrata. Il suo regime di accumulazione (Aglietta, 1979), infatti, è sostanzialmente estensivo (Pauls, 2021), basato sull’espansione quantitativa dei rapporti capitalistici di produzione (ridimensionamento settori pubblici, migrazione interna e aumento della giornata lavorativa media). Il suo modello di sviluppo, cioè, si basa specificamente sul mantenimento di queste diseguaglianze, a partire dalla crescita della cosiddetta popolazione fluttuante (liudong renkou), migranti rurali senza residenza (hukou), triplicatati da circa 69 milioni a 244 milioni tra il 1995 e il 2014 (Song 2014). La disparità di reddito in Cina infatti è cresciuta in questi decenni, nonostante la riduzione della povertà assoluta: il coefficiente di Gini (un suo indice sintetico, che nel mondo varia da 0.26/27 nei paesi del nord Europa ad un massimo di 0,6 del Sudafrica) ha raggiunto il suo picco nel 2008 (0,491), per scendere a 0,462 nel 2015 e risalire a 0,468 nel 2018 (dati CEIC). Gli squilibri sociali, territoriali e produttivi cinesi sono stati parzialmente compensati dall’integrazione della Cina nel mercato mondiale (Bramall, 2018), ma diverse voci da tempo ne segnalano l’insostenibilità (Hung, 2008; Zhu e Kotz 2011). Lo stesso PCC ne è consapevole: Wen Jiabao già nel 2007 sottolineava come l’economia del paese fosse instabile, sbilanciata, scoordinata e insostenibile, con un eccessivo affidamento sugli investimenti e con consumi domestici insufficienti.  

Tutto questo è avvenuto comunque nel quadro di una piena continuità di regime (Bronzo, 2017).Il socialismo con caratteristiche cinesi di Deng (il termine con cui furono definite le liberalizzazioni negli anni ottanta) è progressivamente evoluto nell’economia socialista di mercato (XIV congresso, 1992), poi nella teoria delle tre rappresentanze di Jiang Zemin nel 2000 (secondo cui il PCC doveva rappresentare le esigenze delle forze produttive più avanzate, gli orientamenti culturali del paese e gli interessi dei più ampi strati della popolazione), sino ad arrivare nel 2012 con Xi Jinping al sogno cinese, cioè la prosperità del paese, la ripresa della nazione e la felicità del popolo [un progetto nazionalista di espansione, per trasformare la Cina in una società moderatamente benestante entro il 2021 e una nazione completamente sviluppata entro il 2049]. La reintroduzione di un circuito capitalista e il suo progressivo sviluppo sino a dominare il modo di produzione è avvenuto quindi senza nessuna rottura politica o istituzionale: cioè non solo sotto le insegne del Partito Comunista, ma anche sostanzialmente senza intaccare l’impianto burocratico della Repubblica Popolare Cinese.

RIVOLUZIONE PASSIVA IN CINA?

Questa continuità è sorprendente. La Cina era uno stato operaio deformato, retto da una burocrazia di impianto stalinista, seppur segnata da diverse particolarità storiche (la lunga rivoluzione cinese, la centralità contadina e dell’Esercito Popolare, l’ascesa del maoismo, la rivoluzione culturale). Però, dai primi anni cinquanta il suo modo di produzione era sostanzialmente collettivista e il PCC ne era espressione e, in qualche modo, anche difensore. L’esito capitalista di questo regime, come in URSS, era in qualche modo inscritto nella sua natura e previsto da lungo tempo dal comunismo rivoluzionario. Quello che però risulta sorprendente è stata la capacità della burocrazia cinese non solo di gestire la transizione capitalista, ma anche di mantenere invariato il suo regime nel tumultuoso sviluppo capitalista dei decenni successivi.

La rivoluzione passiva. Kevin Gray (2010) può forse offrirci una chiave di lettura interessante. Gray, infatti, ha sottolineato come l’integrazione della Cina nel mercato mondiale ha integrato anche la sua classe operaia negli antagonismi della produzione capitalista. Una borghesia gracile e poco strutturata si è quindi dovuta confrontare con una nuova classe operaia in espansione. Gray ha quindi recuperato il concetto gramsciano di rivoluzione passiva per leggere quanto avvenuto. Gramsci (1975) lo ha proposto nei suoi quaderni analizzando il risorgimento italiano: in quella fase di transizione alla nuova società borghese, le nuove forze sociali erano ancora troppo deboli ed incapaci di organizzare un nuovo ordine, determinando uno stallo politico che venne risolto dall’alto (l’unificazione nazionale guidata dal Piemonte di Cavour). Come dirà lo stesso Gramsci (parlando della crisi del ’29 e della difficoltà del processo rivoluzionario) quando il vecchio muore e il nuovo non può nascere, in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati. Il concetto di rivoluzione passiva sottolinea allora il ruolo del potere politico, l’uso di uno Stato relativamente autonomizzato dalla sua rappresentanza di classe, per condurre un processo di cambiamento nell’invarianza dei ceti dominanti (reinscritti in un diverso assetto di classe e mantenendo subordinate le classi popolari). Questa particolare rivoluzione si sviluppa quindi con politiche cesariste e bonapartiste (cioè attraverso regimi autoritari, per sganciare appunto lo Stato dalla sua immediata rappresentanza sociale) e con pratiche trasformiste (l’assunzione di nuovi ruoli capitalistici da parte dei precedenti ceti dominanti, la cooptazione al loro interno di esponenti dei gruppi emergenti). Nel contempo la rivoluzione passiva consta di due movimenti fondamentali: da una parte una rivoluzione dall’alto, cioè iniziative economiche e sociali condotte in prima persona dallo Stato (dal potere politico), in una situazione in cui il capitale e la borghesia sono troppo esili e debole per agire in prima persona; dall’altro l’adozione di temi, istanze e rivendicazioni delle classi subalterne, integrandole nel blocco sociale dominante (Morton, 2010).

Allinson e Anievas (2010) sottolineano una connessione tra il concetto di rivoluzione passiva e quello di sviluppo ineguale e combinato. Questa teoria di Trotsky (1930), che riprende alcune ipotesi di Parvus elaborate in diverse articoli tra il 1904 ed il 1906, sottolinea l’integrazione mondiale del modo di produzione capitalista, la gerarchizzazione della divisione internazionale del lavoro e quindi uno sviluppo capitalistico non lineare, che tiene in considerazione da una parte la dimensione globale dei processi, dall’altro il possibile dispiegarsi di forme ibride nelle situazioni particolari. Lo sviluppo ineguale e combinato mette cioè in luce come, in formazioni sociali in via di integrazione nel mercato capitalista, il concetto di rivoluzione passiva possa spiegare vicende politiche apparentemente bizzarre (come il sostegno all’industrializzazione dei propri paesi degli Junker prussiani o della corte imperiale giapponese). In questo quadro, allora, possiamo forse leggere le vicende cinesi degli ultimi decenni. La burocrazia del PCC, a fronte di processi di integrazione in un mercato mondiale segnato dalla seconda globalizzazione, invece che esser travolta da una nuova borghesia cinese o dalla frammentazione del paese, si è fatta carico di condurre una rivoluzione passiva, usando proprio il suo controllo dello Stato e sulla classe lavoratrice per avviare un prorompente sviluppo capitalista. In questo quadro, cioè, alla luce dell’integrazione delle teorie dello sviluppo ineguale e combinato e della rivoluzione passiva, si può forse spiegare come il PCC sia oggi alla guida di un’emergente imperialismo capitalista. In fondo, proprio Trotsky (1935, 1936) hasottolineato come sia il fascismo sia lo stalinismo siano regimi bonapartisti (burocrazie statali politicamente autonomizzate in regimi autoritari). La differenza è che la burocrazia fascista si autonomizza nel modo di produzione capitalista (rimanendo al fondo subordinata al capitale), la burocrazia staliniana in uno stato operaio (rimanendo al fondo subordinata alla classe). Il bonapartismo burocratico cinese, quindi, nel momento in cui i processi di liberalizzazione denghisti, la seconda globalizzazione, il crollo del blocco sovietico hanno indebolito l’economia collettivizzata di cui era espressione, ha assunto senza soluzione di continuità lo stesso ruolo al servizio delle nuove forze sociali capitaliste.

In assenza di una borghesia cinese, il PCC si è assunto cioè il ruolo di riorganizzare le relazioni sociali nel quadro del nuovo modo di produzione. Da una parte ha guidato la nuova proletarizzazione dei lavoratori e delle lavoratrici, attraverso lo smantellamento delle Comuni, lo sviluppo di un sistema imprenditoriale (Zone di scambio speciali) e l’aziendalizzazione delle imprese pubbliche (il loro inserimento, cioè, in una logica di valorizzazione del capitale e produzione di profitti, indipendentemente dal quadro giuridico della loro proprietà). Dall’altro, grazie al controllo del sistema giuridico e finanziario, agli investimenti pubblici, alla regolazione del commercio, all’influenza sul mercato ha guidato la formazione di grandi imprese nazionali, a proprietà pubblica e privata, in grado di competere sul mercato mondiale. In questo quadro sono interessanti le considerazioni di Brink (2019), che analizza la particolare configurazione dell’economia cinese e sottolinea lo sviluppo di un dispositivo capitalista di stato dopo gli anni settanta (pur nel quadro di un diverso impianto, che rintraccia elementi protocapitalisti anche nelle fasi precedenti). Sottolineando il ruolo del sistema capitalistico mondiale (Jessop, 2009), secondo lui il PCC ed il suo regime non hanno rappresentato un ostacolo allo sviluppo capitalista, ma ne sono anzi stati una condizione essenziale. Il partito-stato è cioè visto come una parte integrante e fondamentale del particolare capitalismo cinese (Ngo, 2018). Il ruolo del PCC, infatti, oltre che organizzare il capitale, è stato fondamentale anche per il controllo e la repressione di una nuova classe operaia concentrata e particolarmente combattiva (Bronzo, 2017; Brink, 2019). Una rivoluzione passiva che nel contempo si è fatta carico di inglobare nel suo blocco sociale le nuove forze sociali emergenti [vedi la teoria e la prassi delle tre rappresentanze introdotta da Jiang Zemin], come di aspirazioni e istanze popolari, dalla campagna contro la corruzione di Xi Jinping (usata anche per consolidare la sua direzione nazionalista) all’indicazione di un sogno cinese, un new deal asiatico in grado di garantire diritti sociali e qualità della vita ad un blocco sociale ben oltre gli stretti confini della burocrazia di partito.

L’ACCOMODAMENTO INSTABILE [1989-2008]: PRIME FRIZIONI USA CON IL NASCENTE CAPITALISMO CINESE.

Questo particolare sviluppo cinese, seppur ha confermato le intuizioni di Nixon (1967) e creato solide basi per il lungo allineamento sino-americano, ha anche prodotto un esito diverso da quello sperato dall’establishment USA. Infatti, se negli ultimi decenni effettivamente l’Asia orientale è diventata un cuore dell’accumulazione capitalista, annullando ogni pulsione rivoluzionaria della Cina (riportando quel paese nelle regole civili dei rapporti internazionali e integrandolo nella globalizzazione), questa crescita impressionante è avvenuta però sotto il segno della Repubblica Popolare Cinese. Questo stesso processo di sviluppo capitalista, cioè, nel quadro di una rivoluzione passiva ha rafforzato il ruolo del PCC, rilanciando un impianto statale e nazionalista che non si è omologato all’ordine mondiale dominato da Washington. Le dimensioni della Cina hanno poi inevitabilmente proiettato un ombra geopolitica sul Pacifico e sul mondo, mettendo così a rischio l’egemonia statunitense rilanciata dalla vittoria nella guerra fredda.

Questa dinamica ha iniziato ad emergere già alla fine degli anni ottanta. La crisi di Piazza Tienanmen nella primavera 1989 ha segnato un primo punto di svolta. Le aspettative liberali di un collasso del regime burocratico (in parallelo alla disgregazione sovietica) si infransero contro la repressione delle manifestazioni studentesche. Allo stesso tempo, il profilo di quella rivolta non fu segnato solo da pulsioni liberali (vicine a settori liberisti dello stesso PCC), ma anche da settori giovanili e operai che raccolsero sentimenti e rivendicazioni anticapitaliste di ampi settori popolari (Nathan e al, 2002; Reeve e Xi Xuanwu, 2000; Chu-yuan, 1990; Bronzo, 2017). La repressione del 4 giugno, infatti, non fu segnata solo dal massacro di studenti indifesi (come nell’iconografia di massa di The tank men, la mitica foto di Jeff Widener), ma anche da una resistenza che durò diverse ore e interessò vie e quartieri ben oltre la famosa Piazza (Fuyou, Liubukou, Xidan, Fuxingmen, Lishi meridionale, Muxidi, Lianhuachi, Chegongzhuang, Donghuamen, Dongzhi-men, Dabeiyao, Hujialou, Beidouge Zhuang e Jiugong Xiang nella contea di Daxing): una resistenza determinata  che provocò centinaia di morti anche tra i militari, con più di 500 camion, blindati e persino carri armati dati alle fiamme (Nathan e al, 2002; Reeve e Xi, 2000; Chu-yuan, 1990; Oksenberg e al, 1990; Simpson, 2009; Bronzo, 2017). La crisi del 1989, cioè, mostrò che se da una parte la crescita cinese non implicava un logoramento del regime maoista, dall’altro proprio questo regime era il miglior strumento per controllare una classe operaia potenzialmente in grado di raccogliere un consenso di massa (come quello che ci fu a Pechino ed in tante città cinesi in quelle settimane), non solo contro la burocrazia del PCC ma anche contro il crescente sfruttamento determinato dallo stesso sviluppo capitalista.

Proprio in questo quadro Washington e Pechino riconobbero di reciproco interesse limitare le conseguenze diplomatiche della crisi (Scobell, 2021). Qualcosa però era comunque cambiato: da una parte, con il viaggio di Deng del 1992, la direzione del PCC approfondì con maggior determinazione un vero e proprio sviluppo capitalista del paese (che avrebbe portato alla piena integrazione nel mercato mondiale nel giro di un decennio), nella convinzione che solo la crescita economica avrebbe garantito la sopravvivenza della burocrazia; dall’altro, il PCC sotto la nuova direzione di Jiang Zemin (1989/2002) e poi soprattutto Hu Jintao (2002-2012) iniziò a sviluppare con maggior decisione una propria azione geopolitica internazionale.

Il primo banco di prova della nuova propensione geopolitica fu la ripresa di Hong Kong. Il 1 luglio 1997 scadeva l’affitto secolare della storica colonia inglese: già nel 1984 era stata raggiunta una Joint declaration che tracciava il principio di un paese due sistemi (yiguo liangzhi). Dopo Tienanmen la Gran Bretagna, e alcuni settori della colonia, provarono a sviluppare una resistenza, sotto l’impulso del governatore Patten e la costruzione di un sistema di rappresentanza democratica che la Colonia non aveva mai avuto (Trentin, 1997). Nonostante diverse elezioni in cui, pur con una bassa affluenza al voto, partiti e candidati indipendentisti ottennero buoni risultati, nel 1996 fu raggiunto un accordo e il 1 luglio 1997 vi fu il trasferimento della sovranità alla Repubblica Popolare Cinese, che concluse i 156 anni di dominio coloniale britannico (Trentin, 1997).

In questo quadro si sviluppò la terza crisi degli stretti di Taiwan. Le tensioni con gli USA esplosero inaspettatamente su un altro fronte. L’isola, a lungo colonia giapponese, nel dopoguerra divenne indipendente con la dittatura del Guomindang (sfuggito dal continente dopo la sconfitta del 1949). I due paesi continuarono a rimanere in uno stato di guerra sino al 1979 e la loro storia fu segnata da tre diversi crisi militari (Mann, 1999), tutte risolte dal decisivo intervento USA. Nel 1954, Chiang Kai-shek trasferì 58.000 soldati a Quemoy (un’isola dello stretto) e 15.000 nel vicino arcipelago di Matsu, in modo da creare una ‘cintura’ di contenimento: l’Esercito Popolare di Liberazione schierò allora cinque divisioni di artiglieria lungo la costa, dando inizio ad un pesante bombardamento dell’isola e occupando l’isola di Yijiangshan (uccidendo l’intera guarnigione, 750 uomini). Un Ordine del Giorno del Congressoautorizzò quindi Eisenhower a difendere tutte le isole dell’arcipelago: l’amministrazione USA arrivò a minacciare una guerra aperta con la Cina. La politica del braccio di ferro premiò questa scelta, con il ritiro delle truppe cinesi. La seconda crisi scoppio nel 1958, con scontri aerei e navali tra le due Cine, il bombardamento di Quemoy da parte del EPL e di Amoy da Taiwan: la crisi terminò con l’invio della Task Force 77 (sei portaerei, con velivoli armati di bombe nucleari), che iniziò a scortare le navi nazionaliste impegnate nelle missioni di rifornimento a Quemoy (Roy, 2003). Dal 21 luglio 1995 al 23 marzo 1996 l’EPL aprì una stagione di lanci missilistici nello stretto di Formosa, per cercare di influenzare l’elezione del nuovo presidente taiwanese. Clinton assunse nuovamente una linea dura, come nelle precedenti crisi: la portaerei Nimitz e poi l’Independence raggiunsero lo stretto (per la prima volta dalla fine della guerra in Vietnam unità militari USA furono così vicine alle coste cinesi). L’ELP non fu in grado di dissuadere la flotta americana dal dimostrare il pieno controllo di quello spazio geopolitico: la conferma di quella subordinazione politica e militare fu un profondo shock per il pensiero cinese (Mann, 1999), spingendo negli anni successivi ad una profonda rivalutazione della difesa cinese (Ross 1999).

Le forze armate cinesi avevano già conosciuto una profonda revisione dopo la breve guerra con il Vietnam. Nel 1979 l’EPL aveva organizzato una spedizione punitiva, con l’obbiettivo di far recedere l’invasione vietnamita della Cambogia (come avvenuto nel 1977). L’intervento minacciava Hanoi (170 km dal confine), usando la stessa strategia che si era rivelata vincente in Corea (quando una valanga umana si abbatté sulle linee statunitensi, a costo di enormi perdite: 150mila uomini secondo la Cina, 400mila secondo gli USA). L’avanzata cinese (tra i 200 ed i 600mila uomini) fu però fermata dalla 3ª Divisione Stella d’oro a Lang Son (ad una ventina di km dal confine), che cadde pochi giorni prima della tregua con grandi perdite da entrambe le parti: in un mese ci furono tra i 20 ed i 50mila morti, cioè quasi quanto tutte le vittime dell’esercito USA nel conflitto indocinese (Zhang, 2005). La sostanziale sconfitta politica e militare della Cina porto ad un prima riforma dell’ELP, con una riduzione di oltre un milione di uomini nel 1984 [Agutoli, 2019]. La crisi degli stretti del 1995/96 radicalizzò nelle élite cinesi la percezione della minaccia americana (Nathan e al, 2002), portando ad una nuova modernizzazione dell’esercito, finalizzata a sviluppare una capacità A2/AD (Anti-Access and Area Denial): cioè una capacità di dissuasione nei confronti di navi e portaerei dovuta alla loro vulnerabilità per le forze missilistiche o sottomarine cinesi (Krepinevich, e al, 2003).

LO SVILUPPO DELLA COMPETIZIONE [2009-oggi].

L’esplosione della Grande Crisi nel 2008/09 segnò un punto di rottura. La crisi degli anni settanta aveva travolto l’ordine egemonico USA costruito con la seconda guerra mondiale (Parenti e Rosati, 2016). Il lungo ciclo neoliberista iniziato negli anni ottanta, quello della seconda globalizzazione e dell’espansione cinese, si era costruito su un nuovo Washington consensus (Williamson, 1989), caratterizzato da un nuovo dominio finanziario e militare USA, accentuato dalla fine della guerra fredda. Gli squilibri mondiali erano parzialmente e temporaneamente bilanciati dai processi di liberalizzazione, che sotto il segno della mobilità del capitale ridisegnarono la divisione internazionale del lavoro, svilupparono nuovi mercati, allargarono il processo di accumulazione del capitale nell’ex blocco sovietico e nel continente cinese. La recessione del 2009, preceduta dal terremoto dei grandi centri finanziari USA, ha segnato però il punto di caduta di quel ciclo e l’avvio di politiche di gestione capitalistica della crisi volte a definire nuove aree e blocchi continentali (Lakner e al, 2013; Lund e al, 2019; Herrero, 2019; Negro, 2020).

In questo nuovo quadro, Pechino e Washington hanno percepito la nuova debolezza statunitense, evidenziata anche da un impantanamento nelle guerre mediorientali che ricordava il classico schema di declino di una grande potenza tracciato da Paul Kennedy (1989): il progressivo esaurirsi della forza economica, temporaneamente compensato dalla crescita di ruolo e spese militari con guerre che esauriscono progressivamente risorse e consenso. Nel contempo, entrambe le potenze hanno percepito la nuova forza della Cina, che ha passato la crisi del 2009/2012 senza recessione, ma con tassi di crescita del 9/10%. Gli Stati Uniti e la RPC sono quindi diventati più inclini ad agire in modo assertivo, al fine di promuovere o difendere i propri interessi, contro le minacce percepite dall’altro (Scobell e Scott, 2013).

Gli Stati Uniti, già con Obama, avevano promosso una politica di ribilanciamento sull’Asia. La nuova politica è stata tracciata in due discorsi, uno del Segretario di Stato Hillary Clinton a Honolulu il 28 ottobre 2010 (L’impegno dell’America nell’Asia-Pacifico), l’altro del presidente Obama un anno dopo, sempre ad Honolulu, sull’America’s Pacific Century. Il cosiddetto pivot to Asia si può riassumere in alcuni punti: lo spostamento del 10% delle forze armate dall’Atlantico al Pacifico (portando la flotta a 200 navi, concentrandovi la metà delle portaerei USA e 1.100 aerei); il rilancio dell’ASEAN (l’Associazione delle Nazioni del Sudest Asiatico, fondata nel 1967 con l’obiettivo di containment comunista); relazioni più strette con l’India (una potenza continentale, al confine della Cina e che potenzialmente controlla l’Oceano indiano); la conferma del Giappone come perno asiatico; l’avvio di una politica di intesa con il Vietnam (Campbell e Andrews, 2013; Angiolillo, 2016). Sul piano economico, la sua azione si è sostanziata nella Trans-Pacific Partnership (Cimino-Isaacs e Schott, 2016; D’Amaro, 2016):un accordo di libero scambio firmato ad Auckland nel febbraio 2016, con l’evidente obbiettivo di escludere la Cina (ne fanno parte Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore, Stati Uniti e Vietnam). Sul piano militare la sua azione si è sostanziata (oltre che nel rafforzamento delle forze USA) su due fronti: la costruzione di una serie di accordi con l’India (Logistic Supply Agreement; Communication and Information Security Memorandum of Agreement, cooperazione navale ed esercitazioni comuni; Mullin, 2019); una politica di salvaguardia della libertà dei mari [detta FONOPS, Freedom of navigation operations], con una serie di missioni militari al limite delle acque territoriali cinesi (anche in acque contese nel Mar cinese Meridionale, come nelle isole Paracels e Spratly; US DoD, 2015).

Trump ha radicalizzato questa impostazione. Nel quadro della sua politica nazionalista (Make America Great Again), la nuova amministrazione repubblicana ha progressivamente definito una strategia di contenimento della Cina, identificando questa potenza come competitore globale degli Stati Uniti d’America. In particolare, la nuova strategia di sicurezza nazionale (National Security Strategy, NSS; 2017) e quella di difesa nazionale (National Defense Strategy, NDS; 2018), documenti di indirizzo stilati periodicamente dal governo USA, definirono la Cina come un concorrente strategico degli Stati Uniti, una sfida fondamentalmente diversa dai conflitti regionali che coinvolgono stati canaglia e organizzazioni estremiste violente affrontate negli ultimi 25 anni (Klare, 2019). Tutte le strutture governative USA sono chiamate quindi in prima linea: non solo il Dipartimento della Difesa e la Comunità dell’Intelligence, ma anche il Dipartimento di Giustizia, il Dipartimento del Tesoro e l’Ufficio del Rappresentante per il Commercio degli Stati Uniti (Ford, 2019). Il Dipartimento della Difesa ha poi pubblicato un rapporto strategico sull’area indo pacifica (US DoD, 2019): l’uso di questo termine (non presente in precedenti documenti) sottolinea il profilo marittimo della strategia USA (che ricalca uno dei fondamentali testi della geopolitica contemporanea, quello del 1890 dell’ammiraglio Mahan), collegando in un unico teatro Oceano Indiano e Oceano Pacifico (Scobell, 2019). Una strategia che richiama da una parte la crescente importanza dell’India nelle strategie USA, dall’altra l’importanza di stringere solide alleanze con gli altri due principali protagonisti del Pacifico: l’Australia e il Giappone. Non a caso la NSS-2017 e la NDS-2018 hanno rilanciato il Quadrilateral Security Dialogue (Quad), un tavolo di cooperazione militare tra USA, Australia, Giappone e India (Graham et al. 2018; Satake e Sahashi, 2020). Nel 2020, infine, Mike Pompeo (segretario di stato USA) ha tenuto un discorso in un luogo simbolico (la biblioteca presidenziale di Richard Nixon, il presidente della svolta geopolitica del 1971), con un titolo evocativo (La Cina comunista e il futuro del mondo libero): Pompeo ha cioè voluto riecheggiare toni e contenuti della guerra fredda, richiamando il mondo libero ad una nuova attenzione verso una Cina sempre più autoritaria, per trionfare sulla nuova tirannia (F.Q., 2020; Pompeo, 2020).

Pechino, d’altra parte, ha accelerato la sua proiezione internazionale. La Cina, dopo la crisi del 1995/96, ha percepito le attività della Marina degli Stati Uniti nel Mar Cinese Meridionale come sempre più minacciose (Scobell, 2018) e dopo il 2008 ha incrementato la sua Marina e le sua strategie A2/AD (Scobell, 2021). L’ammiraglio Liu Huaqing (1916-2011) ha reinterpretato la strategia delle catene di isole (definita da J.F. Dulles nel 1951 per isolare URSS e Cina; Hiroyuki, 1996) in un processo in tre tappe (Cole, 2011). Nella prima fase, entro gli anni 2000, la Marina cinese avrebbe dovuto stabilire la sua area di operazioni nel Mar Cinese Meridionale, nel Mar Cinese Orientale e nel Mar Giallo (Prima Catena di Isole: Curili, Giappone, Ryukyus, Taiwan, Filippine, Borneo e Natuna Besar). Nella seconda fase, entro gli anni 2020, la Marina avrebbe dovuto consolidare un’area di operazioni entro la cosiddetta Seconda Catena di Isole: Bonins, Marianne e le Caroline. Nella terza fase, entro il 2050, la Cina dovrebbe diventare una potenza marittima globale, alla pari con gli Stati Uniti. In questi anni effettivamente la Cina ha varato una cinquantina di corvette 056 (classe Jiangdao) ed entro il 2025 si propone di allestire una vera e propria flotta blue water, con gruppi navali in grado di affiancare le tre portaerei in servizio: fregate, cacciatorpediniere, incrociatori e navi da trasporto anfibio, oltre che nuovi sottomarini nucleari per rafforzare la deterrenza strategica (Morenghi, 2020). Inoltre, ha sviluppato nuovi missili antinave (DF-21D e DF-26, noti anche come carrier killers) ed anche il DF-17, che insieme all’Avanguard russo è oggi tra le prime armi ipersoniche in servizio, potenziale game changer perché forse in grado di neutralizzare le difese antiaeree americane (Myers, 2018).

Xi Jinping e la Road and Belt Initiative. Nel 2011, comunque, gli analisti cinesi hanno iniziato a tracciare anche una linea espansiva via terra, per sottrarsi nel continente euroasiatico alla strategia marittima di contenimento USA (Scobell, 2021). Si è quindi definita il cosiddetto Marching West (marciare a occidente), con cui si intende rafforzare le capacità economiche, diplomatiche e di difesa lungo le frontiere dell’Asia centrale. Per molti versi, questa iniziativa è stata una continuazione dello sforzo economico lanciato nel decennio precedente per sviluppare le province e le regioni autonome più occidentali della Cina, tra cui il Tibet e Xinjiang (Go west). La salita al potere di Xi Jinping, con una svolta accentratrice (sorretta da una campagna contro la corruzione che ha portato in carcere decine di migliaia di quadri del PCC, compresi alcuni componenti dell’Ufficio politico) ha rilanciato queste politiche nel quadro di un nuovo orizzonte nazionalista: il sogno cinese (Bronzo, 2017). Il PCC ha quindi abbandonato la politica di basso profilo di Deng e l’ha sostituita con una diplomazia più assertiva. In questo quadro, Xi Jinping ha lanciato nel 2013 la One Belt One Road (una cintura una strada), poi rinominata Belt and Road Initiative (BRI), che riprendendo l’aura dell’antica Vie della seta (i legami commerciali euroasiatici indipendenti dagli USA) ha sottolineato la necessità di sviluppare non solo “strade” marittime, ma anche “cinture” continentali (Huang, 2016).

Nel 2019 Pechino ha quindi pubblicato il suo primo documento sulla sicurezza (La difesa nazionale della Cina nella nuova era; SCIO, 2019). Un testo di una sessantina di pagine che si articola su diversi temi: la situazione internazionale, la politica difensiva cinese, le forze armate nella nuova era e la loro riforma, la spesa per la difesa, il contributo cinese alle politiche internazionali. Il documento prende le mosse dall’esplicito riconoscimento dell’intensificarsi di una competizione strategica internazionale, a partire dall’adeguamento delle linee nazionali di sicurezze e difesa degli USA (NSS-2017 e NDS-2018), che hanno provocato l’intensificarsi della concorrenza tra i principali paesi, l’aumento significativo della spesa per la difesa, spinto per una capacità aggiuntiva in difesa nucleare, spaziale, informatica e missilistica. Il testo accusa cioè esplicitamente gli Stati Uniti di minare la stabilità strategica globale, contrapponendo a questa azione destabilizzante quella della Repubblica Popolare della Cina, che agirebbe in un quadro multipolare (a partire dall’Organizzazione di Shanghai per la cooperazione, una struttura che comprende Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan) e solo per necessità di difesa (non si cercherà mai l’egemonia, l’espansione o le sfere di influenza). Anche se poi emerge che, in nome della difesa e della sicurezza, si considera l’Asia e il Pacifico una sfera di influenza prioritaria (La Cina ha sempre perseguito la prosperità regionale e la stabilità come propria responsabilità).

IMPERIALISMI.

A questo punto è utile richiamare le classiche elaborazioni sull’imperialismo sviluppate nel corso della prima grande globalizzazione e poi della prima guerra mondiale. Hobson (1902) sottolineò per primo l’esistenza di una politica imperialista, avendo sotto gli occhi la Grande Depressione del 1873-1896 (una delle prime Grande Crisi, risolta dall’espansione del mercato mondiale con la conquista coloniale): per lui la sovrapproduzione dovuta all’insufficienza del mercato interno spingeva i diversi governi alla ricerca di nuovi sbocchi per le proprie merci e i propri capitali [una sorta di teoria sottoconsumista che individuava l’imperialismo come una delle possibili strategie di gestione della crisi, interpretazione su cui si sviluppano politiche riformiste di espansione della domanda pubblica e aumento dei salari, oggi ripresa dalla sinistra neokeynesiana]. Hilferding (1910) concentrò la sua analisi sul rapporto tra banche e industrie nella concentrazione imprenditoriale sospinta dal mercato: per lui l’imperialismo era cioè conseguenza della competizione tra monopoli, con un particolare ruolo del capitale finanziario nelle gerarchizzazioni del mercato mondiale. Luxemburg (1913) evidenziò le insufficienze del mercato nel garantire la riproduzione allargata, ma diversamente da Hobson declinò questa analisi sul versante dei limiti strutturali del capitalismo [considerava cioè l’imperialismo l’ultimo capitolo del suo processo storico di espansione, con una precipitazione della concorrenza fra gli stati per la conquista degli ultimi resti dell’ambiente non capitalistico, necessario come sbocco delle proprie merci]. Kautsky (1914) risentiva evidentemente di letture come La grande Illusione di Norman Angell (1910), che richiamava il nuovo e crescente ruolo della globalizzazione (lo sviluppo di reciproci rapporti economici tra grandi potenze) nell’evitare il rischio nuove guerre dispiegate: sostenne infatti il cosiddetto superimperialismo, secondo cui lo sviluppo di monopoli multinazionali predominanti avrebbe evitato la precipitazione di nuovi conflitti [impostazione variamente ripresa lungo il corso del novecento, dallo Stato imperialistico delle multinazionali ad Impero di Hardt e Negri]. Bucharin (1915 e 1924), contrariamente a questa impostazione, si focalizzò sull’intreccio tra capitale finanziario e strutture politiche nazionali, sottolineando da una parte il ruolo del capitalismo di Stato (concetto che ebbe poi notevole diffusione), dall’altra la necessità di esportare i capitali (più che le merci) da parte dei poli imperialisti. Lenin (1916), in un suo testo passato alla storia, precisò quindi i 5 principali contrassegni dell’imperialismo: 1) la concentrazione della produzione e del capitale; 2) la fusione di capitale bancario e industriale e quindi la prevalenza del capitale finanziario; 3) l’importanza dell’esportazione di capitale in confronto con l’esportazione di merci; 4) il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali che si ripartiscono il mondo; 5) la ripartizione del mercato mondiale (e quindi del mondo) tra le principali potenze (con la formazione di aree di influenza e blocchi economici contrapposti). Trotsky (1930), riprendo nella lotta contro lo stalinismo le prime riflessioni condotte da Parvus e con Parvus all’inizio del novecento (1904/1906), ha quindi inquadrato lo sviluppo dell’imperialismo in una dinamica ineguale e combinata, nella quale lo sviluppo delle diverse formazioni sociali avviene in un mercato globalizzato che subisce gli andamenti ciclici e le onde lunghe del movimento capitalista: la divisione internazionale del capitale e del lavoro (con relative gerarchie e subordinazioni) è quindi in continua ridefinizione, nel quadro di un’aperta competizione tra i diversi poli imperialisti e una periodica ridislocazione di centri e periferie (periodica nel senso che si relaziona ai diversi periodi di espansione, recessione e Grande Crisi del capitale). Le relazioni USA e Cina, quindi, devono esser guardate non solo in relazione alle loro politiche di potenza, ma anche in funzione della loro competizione capitalista.

La prorompente ascesa americana risale all’inizio del secolo scorso. Il suo sviluppo imponente, accelerato dalla prima guerra mondiale, viene registrato in tutta la sua importanza da Trotsky in un famoso discorso al 3° congresso dell’Internazionale Comunista (1921): il centro di gravità dell’economia capitalistica e del potere borghese si è spostato dall’Europa all’America. Questo e il dato di fatto fondamentale che ogni compagno deve avere senz’altro in mente per capire gli avvenimenti che si svolgono dinanzi a noi e quelli che si svolgeranno nel corso dei prossimi anni. Questa prorompente crescita (stupefacente per dimensioni e velocità), nel quadro della prima globalizzazione e dell’ascesa dei diversi imperialismi fu segnata da una particolare politica nazionalista, senza colonialismo ma con una grande consapevolezza del proprio destino manifesto (Chau 2018). Nella teoria, da Alfred T. Mahan (l’ammiraglio che sottolineo l’importanza del potere navale) a Henry Brooks Adams (autore di un’influente History of the United States); nella pratica, con le amministrazioni McKinley, T. Roosevelt, Taft, Wilson, Hoover e F.D. Roosevelt che guidarono il primo espansionismo americano (1897/1944, dalle conquista delle Filippine alla seconda guerra mondiale). Una stagione tratteggiata in una serie di romanzi di Gore Vidal dal titolo non casuale di Narrative dell’Impero (in particolare gli ultimi quattro: Impero, 1987; Hollywood, 1990; Washington D.C., 1967 e L’età dell’oro, 2000). Quell’espansione non fu guidata semplicemente da una politica di potenza, ma proprio dalla necessità di costruire sbocchi per le proprie merci e capitali, come riconosciuto da John D. Rockefeller (il fondatore dalla Standard Oil, nonno dei Rockefeller ricordati nell’incipit di questo articolo): se avessi dovuto dipendere esclusivamente dagli affari locali, avremmo dovuto fallire anni fa. Siamo stati costretti ad estendere i nostri mercati e a cercare il commercio estero (Manning e al, 1966).

Gli Stati Uniti raggiunsero il culmine della propria egemonia al termine della seconda guerra mondiale. Il conflitto non toccò il suolo americano e la sua struttura produttiva rimase indenne (unica tra le metropoli imperialiste): anzi, in quegli anni di distruzione di massa produsse a pieno regime, nel quadro di un inedito keynesismo di guerra, uscendo così dalla Depressione degli anni trenta (Mandel, 1986). Gli USA, vincendo la guerra e dominando i due oceani, contando sulle proprie armi nucleari (unici sino al 1949), divennero di gran lunga la massima potenza mondiale (Ferguson, 2014). Nel 1948 George Frost Kennan (il padre della politica di contenimento dell’URSS, definita con un suo famoso telegramma di 5.300 parole spedito da Mosca) osservò che abbiamo il 50% della ricchezza mondiale, ma solo il 6,3% della sua popolazione. Il nostro vero compito nel prossimo periodo è quello di escogitare un modello di relazioni che ci permetta di mantenere questa posizione di disparità. Gli accordi di Bretton Woods (un sistema finanziario internazionale centrato sul dollaro e la sua parità con l’oro, il FMI e la Banca Mondiale) e i prestiti per la ricostruzione (il Piano Marshall) permisero al capitale americano di mantenere questa posizione di disparità, trovando appunto nuova occasione di valorizzazione nella ricostruzione dell’Europa e dell’Asia, oltre che nell’avvio del processo di decolonizzazione nel mondo (McCormick e McCormick, 1995). Un dominio limitato unicamente dall’Unione Sovietica (la sua vittoria della guerra e poi la sua deterrenza nucleare) e dalla Cina (la vittoria nella guerra civile e poi nella successiva guerra di Corea). Nel 1950 il Consiglio di Sicurezza Nazionale produsse l’NSC-68, forse il documento in cui si tracciava con più evidenza il suo profilo imperialista: reso pubblico solo a metà anni ‘70, le sue cinquantotto pagine delinearono l’integrazione tra esercito, principali industrie e sistema universitario del paese (quel complesso militar-industriale reso poi famoso dal discorso di addio di Eisenhower, uno dei suoi principali artefici che ne aveva poi dovuto subire l’influenza). Questa strategia, fondata su un impianto keynesiano, prevedeva un ingente incremento delle spese militari con cui sostenere l’impegno globale degli Stati Uniti, il potenziamento della NATO e il riarmo della Germania occidentale (Gaddis Nitze, 1980; Cardwell, 2011). 

Questa egemonia inciampò nei primi anni settanta. La crescita industriale europea ed asiatica, la pressione salariale della classe operaia, la caduta dei tassi di profitto, la lunga guerra del Vietnam e l’espansione del debito portarono ad un punto di rottura quel regime di accumulazione, sospingendo anche un ondata rivoluzionaria che si dispiegò nel mondo (Parboni, 1980). Il 15 agosto 1971 Nixon mise improvvisamente fine al cambio fisso tra dollaro e oro (archiviando così l’ordine finanziario di Bretton Woods), nel marzo 1973 la Conferenza di Parigi approvò un nuovo regime di cambi fluttuanti (con cui si avviò la stagione delle svalutazioni competitive) ed infine nel novembre 1975 si tenne a Rambouillet un summit che inaugurò il G7 (Bayne, 2000). Gli Stati Uniti non erano più un paese rentier (n+1, 1997), ma essendo ancora la principale economia del mondo, la potenza di riferimento nella contrapposizione con l’URSS e al centro del nuovo sistema finanziario (centrato sull’espansione delle borse e dei mercati derivati), riuscirono a rilanciare il loro ruolo imperialista (Gowan, 1999). Anzi, con McNamara alla Banca Mondiale (Milobsky e Galambos, 1995; Sharma, 2010) e poi la presidenza Reagan (sconfitta sindacale, investimenti nelle nuove tecnologie, corsa al riarmo; Wilentz e Hill, 2008), gli USA si posero al centro di un nuovo ciclo neoliberista basato sull’aumento dello sfruttamento e la compressione dei salari (Husson, 2013).

La vittoria nella guerra fredda consolidò il ruolo USA. L’improvviso crollo dell’URSS ha permesso agli Stati Uniti di gestire l’unificazione del mercato mondiale, nel quale si è integrato il nascente sviluppo capitalista cinese, sviluppando la seconda grande globalizzazione nel quadro del cosiddetto Washington Consensus (Arrighi e Zhang; 2011). Gli Stati Uniti hanno quindi potuto mantenere la loro egemonia imperialista, basata sulla loro primazia economica (ancora un quarto dell’economia mondiale), sul ruolo del dollaro (controllando i capitali altrui e potendosi permettere di gonfiare il debito senza conseguenze monetarie e macroeconomiche), sul rilancio della loro forza militare (con spese militari che sono state a lungo maggiori di tutte le altre principali potenze messe insieme, ma anche per capacità tecnologica con lo sviluppo di nuove armi e del C5I: comando, controllo, comunicazioni, computer, collaborazione e intelligence). Le sue fragilità, però, sono emerse con evidenza negli ultimi vent’anni: la crescita cinese (e degli altri paesi emersi e in via di emersione) ne ridimensiona progressivamente l’economia, la Grande Crisi ha rivelato le contraddizioni del suo sistema finanziario, il suo imponente debito si regge sempre più sull’uso del dollaro come valuta di riserva, le guerre asiatiche (Irak e Afghanistan) hanno rivelato i suoi limiti militari (con un ardito paragone storico, come la guerra anglo boera del 1899/1902 ha mostrato quelli inglesi). Non siamo cioè di fronte ad un crollo del potere imperialista USA, ma ad un suo progressivo logoramento: sebbene siamo ancora distanti da un punto di svolta (come fu la seconda guerra mondiale per l’imperialismo inglese, quarant’anni dopo il conflitto in Sudafrica), il ridimensionamento è oramai evidente e, soprattutto, con la Grande Crisi sta subendo evidenti accelerazioni.

Il punto da analizzare è se il prorompente sviluppo cinese, oltre che innescare aspirazioni geopolitiche da grande potenza, inneschi anche pressioni espansioniste. L’ingresso della Cina nel WTO (2001) ha integrato pienamente il paese nel mercato mondiale e nelle sue dinamiche. Abbiamo visto come nel decennio successivo la crescita sia continuata a ritmi sostenuti (ben oltre le due cifre), trainata dal settore manifatturiero, con una significativa importazione di capitali, esportazione di merci a valore aggiunto sempre più alto, investimenti infrastrutturali sempre più significativi (proprio nei primi anni duemila hanno toccato quasi il 50% del PIL). Nel corso del primo decennio degli anni 2000 si è anche registrato lo sviluppo di una classe operaia sempre più concentrata e organizzata dal capitale in grande stabilimenti (hanno raggiunto notorietà mondiale quelli della Foxconn, un assemblatore di dispositivi elettronici, con diverse centinaia di migliaia di lavoratori e lavoratrici; Duhigg e Bradsher; 2012). Sono quindi cresciute resistenze operaie e lotte imponenti (Pun e al, 2012), che hanno conquistato salario e salario sociale (pensioni e sanità): gli stipendi medi reali dei dipendenti delle imprese urbane hanno registrato un aumento medio di circa il 10% annuo tra il 1995 e il 2015 (Pauls, 2021), i salari operai sono triplicati negli anni duemila (ILO, 2012). Questa dinamica ha dovuto registrare un cambio di passo con l’esplosione delle Grande Crisi: al di là dell’immediato e imponente intervento pubblico per la gestione della recessione mondiale (oltre 500 miliardi di euro), il suo modello di accumulazione estensivo è stato messo alle corde (Pauls, 2021).

Nell’ultimo decennio, infatti, la Repubblica Popolare Cinese ha conosciuto la cosiddetta Nuova normalità. La crescita del PIL, pur essendo ancora rilevante, è scesa a livelli inferiori (6/7%), mentre le politiche economiche hanno cercato di ridurre gli investimenti ed espandere i consumi. Tuttavia, questi tentativi di riequilibrio sono stati ostacolati dalla riduzione della domanda globale, spingendo lo Stato-partito a riattivare gli investimenti per raggiungere i tassi di crescita preventivati (Pauls, 2021). Due elementi hanno contribuito a render difficile questa politica di riequilibrio. In primo luogo, la Grande Crisi con la riduzione degli scambi e una timida ma sempre più evidente inversione della globalizzazione (Rugman, 2012; CsC, 2020): l’economia cinese ha infatti visto una rapida contrazione del suo surplus nelle esportazioni dopo il 2007, con un calo decennale del loro volume dal 35,4% del PIL al 19,5% nel 2018 (Banca Mondiale 2019). In secondo luogo, la debolezza dei consumi: l’azione di classe sui salari, tenuta dalla repressione del regime su una semplice dimensione economicista, non è stata accompagnata da un cambiamento dei rapporti di forza e delle condizioni sociali del paese; non si è cioè visto una particolare ristrutturazione dei regimi di produzione (Lüthje, 2013), con una condizione del lavoro che rimane quindi di spiccata subordinazione e sfruttamento (Lee, 2016; Howell e Pringle, 2019). La nuova normalità, allora, scarica la sua pressione direttamente sulla redditività, la tendenza alla sovrapproduzione e la compressione dei tassi di profitto (Li, 2020; Pauls, 2021).

La nuova normalità spinge quindi all’esportazione di capitali. Nel paese, infatti, i nuovi investimenti sono scoraggiati da questi limiti. Inoltre, i capitali presenti nell’industria di base e nel settore infrastrutturale (rilevanti visto il modello di accumulazione dei decenni precedenti: alcune delle più grandi imprese sono infatti nei trasporti, nell’acciaio, nelle costruzioni), prima di smobilitare quei presidi, sono spinti a cercare nuovi mercati e nuove occasione di espansione, acquisendo altre imprese del settore o espandendo la propria area di azione. Così, proprio negli ultimi anni, la Cina ha visto crescere i propri investimenti diretti esteri. Lo sviluppo cinese in passato era segnato invece dal grande afflusso di capitali internazionali, alla ricerca di occasioni di valorizzazione in un comparto manifatturiero competitivo, in un mercato da un miliardo di persone (400milioni con redditi medio alti), in un paese con tassi annui a due cifre. Questo surplus si è però progressivamente ridotto dopo la Grande crisi e sono invece progressivamente cresciuti i capitali cinesi in cerca di una migliore remunerazione all’estero. Dal 2015 la Cina investe all’estero più di quanto si investa in Cina, 145 miliardi di dollari contro 135,6 (n+1, 2017): lo abbiamo visto anche in Europa, con l’arrivo di imprese cinesi nei porti (Pireo, Venezia, Trieste, Genova), nell’elettronica di consumo (da Huawei a Hair, e anche con stabilimenti Foxconn), nella chimica (Pirelli), nelle infrastrutture di base (Terna) e persino nell’intrattenimento (Inter).

Consideriamo l’importanza di questo fattore per le teorie sull’imperialismo. Certo, il rapporto tra investimenti diretti esteri ed export (tra esportazioni di capitali e di merci) è ancora la metà di quello Usa (n+1, 2017): le propensioni imperialiste cinesi sono cioè ancora emergenti, la velocità e i disequilibri del suo sviluppo pesano sulla sua struttura. Non per questo sono inesistenti. Anzi urlano con forza la loro emersione. La presenza di contraddizioni e sproporzioni nello sviluppo capitalista cinese, prodotte dalla sua velocità e anche dal suo regime di accumulazione, non sono in sé ragione per negare queste propensioni. Come abbiamo visto, in realtà proprio queste contraddizioni e questi squilibri possono esserne un fattore di spinta. In fondo, anche la Grande depressione americana degli anni trenta (quella magistralmente descritta nei romanzi di Steinbeck o in alcuni grandi film di Hollywood, da Non si uccidono così anche i cavalli a Paper moon), lungi da annichilire il nascente ruolo imperialista americano, ha costituito le basi della sua successiva espansione. Infine, non bisogna tralasciare le dinamiche complessive del capitale. La Grande Crisi non rappresenta solo il punto più basso di un ciclo capitalista, ma è il punto di rottura di un’onda lunga (Trotsky, 1921; Kondriateff, 1979; Mandel, 1995): la sua eventuale inversione, cioè, non è sospinta da dinamiche endogene al sistema economico, ma dipende da variabili storiche e politiche (la scoperta di nuove frontiere, oggi difficile da scorgere; il dispiegarsi della barbarie, sotto forma di una lunga depressione e guerre più o meno estese; l’innescarsi di un processo rivoluzionario). In questo quadro, il conflitto tra i diversi poli capitalisti tende a precipitare, per accaparrarsi competitivamente i margini rimanenti, a partire dal progressivo dispiegarsi di contrapposti blocchi valutari, commerciali e militari. In un’epoca di Grande Crisi, cioè, i diversi imperialismi tendono a strutturarsi, radicalizzando nel quadro di una dinamica ineguale e combinata le proprio propensioni all’espansione.

Certo, i diversi imperialismi sono anche complementari. Lo notava Angell nel 1910. Nel quadro della seconda globalizzazione, dominata dal Washington consensus e sostenuta dall’espansione cinese, questa complementarità è ancor più evidente, in particolare tra i due principali poli capitalisti, cresciuti simbioticamente nel corso degli ultimi quarant’anni (come abbiamo provato a ricapitolare in questo lungo articolo). I due modelli di accumulazione oggi si completano letteralmente l’uno con l’altro (n+1, 2017): non solo (e non tanto) nelle reciproche esportazioni o nelle filiere che attraversano i due paesi, quanto nell’equilibrio generato dalla loro stessa relazione, che evita il collasso dei due sistemi e del mercato mondiale. Come ha dimostrato però la tragica conclusione della prima globalizzazione, la dinamica globale del mercato capitalista non è elemento sufficiente a bloccare le tendenze alla precipitazione dei conflitti interimperialistici, particolarmente nelle Grandi Crisi. Di fronte a crescenti tendenze alla stagnazione ed alla depressione, di fronte alla disoccupazione cronica e all’abbassamento del livello di vita, si sviluppa facilmente il mostruoso avvelenamento del popolo ad opera di una demagogia sociale e nazionale:il capitale, cioè, per sopravvivere è disposto a tagliare la carne viva dei suoi interessi immediati (anche contro le sue frazioni prevalenti), sostenendo un bonapartismo del declino capitalistico, fattore politico principale di logiche di conflitto e di guerra (Trotsky, 1934).

GUERRE COMMERCIALI, AREE VALUTARIE E BLOCCHI ECONOMICI

Queste spinte imperialiste portano in evidenza quello che è sembrato esser solo un aspetto del loro conflitto: la competizione commerciale. La nuova amministrazione Trump, nel 2018, ha aperto un esplicito fronte sui dazi, in quella che può esser sembrata l’ennesima estremizzazione solipsistica di una presidenza sbruffona. Non è così. Alle spalle di quella politica stavano ragioni solide e, soprattutto, un fronte bipartisan (Zhang, 2018): non a caso è destinata a rimanere anche con l’amministrazione Biden (Gerbaudo, 2020). Dopo il 2001 lo squilibrio della bilancia commerciale tra i due paesi è infatti cresciuto progressivamente: nel 2017 gli USA hanno registrato un deficit di 375 miliardi di dollari (130 di importazioni e 505 di importazioni, in particolare tecnologie di comunicazione, beni intermedi informatici, beni manifatturieri come giocattoli, abbigliamento e semi-conduttori). Qui si pongono problemi rilevanti e generali. Lo ha evidenziato la crisi dei semiconduttori: la produzione mondiale è concentrata in pochi monopoli, per la maggior parte asiatici (le due taiwanesi Tsmc, 28% della quota di mercato, e Umc, 13%; la cinese Smic, 11%, la coreana Samsung, 10%), e all’inizio di quest’anno è emersa una significativa carenza di offerta (Annichiarico, 2021). Questa carenza durerà a lungo (anche sino al 2022), nel frattempo si moltiplicano blocchi e rallentamenti generalizzati della produzione industriale: ad esempio General Motors ha rivisto la produzione in quattro impianti tra Stati Uniti, Messico, Canada e Corea del Sud, mentre Apple ha ridotto la produzione di iphone12 (Monaco, 2021; Daniel, 2021)

La guerra sui dazi si è dispiegata per un paio di anni. Trump ha previsto nel 2018 tariffe del 25% su merci per circa 50 miliardi di dollari (principalmente ad alto sviluppo tecnologico), la RPC ha reagito sul fronte aeronautico, automobilistico e agricolo (Morrison 2018): i primi due per danneggiare i campioni nazionali USA, gli altri per colpire l’elettorato repubblicano della corn belt (il midwest agricolo come Iowa, Indiana, Kansas orientale, Minnesota, Missouri, ecc). Gli USA hanno quindi rilanciato con dazi per altri 130 miliardi di dollari, arrivando a minacciare un totale di 450 miliardi di sanzioni (in pratica, il 90% dell’import USA dalla Cina). La Cina ha provato a reagire, anche diversificando le proprie importazioni alimentari (Regmi 2019). Nel settembre 2019, di fronte all’ipotesi di ulteriori dazi del 10% su 300 miliardi di dollari di merci, nel gennaio 2020 si è chiusa la prima ondata conflittuale (Confindustria, 2020). La Cina ha accettato di importare nei prossimi due anni 200 miliardi di dollari di merci USA, specialmente in campo alimentare; si è impegnata a metter fine a pratiche distorsive monetarie; ha promesso di acquistare enormi quantitativi di greggio, LNG e GPL (in quantitativi a dir la verità poco credibili, oltre 50 miliardi di dollari).

Nel frattempo, Washington ha aperto il fronte tecnologico. La scorsa estate, nel corso della pandemia, Trump ha firmato un ordine esecutivo sulla base dell’International Emergency Economic Powers Act (una legge del 1977, voluta da Carter in risposta alla crisi degli ostaggi in Iran), rientrando nella sua più generale politica di Clean Network (Barlaam, 2020). Il tentativo è quello di impedire l’uso negli Stati Uniti (ed in paesi collegati) di applicazioni, programmi e operatori cinesi (sui media si è parlato molto di TikTok e Alibaba, ma anche Huawei, WeChat e China Mobile). Non sono solo software di intrattenimento, ma anche piattaforme commerciali e persino generali (in Cina Wechat riunisce le funzioni di whastapp e facebook, ma è anche il principale strumento di pagamento nelle spese quotidiane), cercando così di delineare una possibile divergenza tra sistemi di riferimento in grado di tracciare le reciproche aree di influenza (Segev, 2020). Una politica parallela alla campagna internazionale condotta dagli USA contro l’uso di tecnologia cinese nello sviluppo delle reti 5G, in particolare contro Huawei (Ciucan, 2020), arrivando a promuovere l’arresto in Canada del suo capo della direzione finanziaria, Meng Wanzhou, figlia del fondatore della compagnia (Ruhala, 2019).

Anche la Cina, d’altra parte, ha condotto le sue politiche espansioniste. La Road and Belt Initiative lanciata da Xi Jinping nel 2013 non ha infatti solo una valenza politica (la costruzione di infrastrutture e canali commerciali via terra, nell’oceano pacifico e anche nell’artico in grado di eludere la catena di contenimento USA basata sull’asso indopacifico), ma anche un chiaro profilo economico. Non è cioè solo uno strumento con cui difendersi dal containment o scalzare gli Usa da mercati strategici, quanto il mezzo per trovare uno sbocco per i propri eccezionali volumi produttivi e quindi sostenere l’espansione del suo mercato (Pomella, 2018). Così, questa strategia non si sostanzia solo attraverso generiche iniziative congiunte o la tessitura di accordi militari (come la prima base oltremare, inaugurata a Gibuti qualche anno fa; Cecini 2017), ma anche in una massiccia esportazione di capitali. Le stime vanno da 1 a 8 trilioni di dollari, la maggior parte in fase di pianificazione, concentrati soprattutto su traporti ed energia (Hilman, 2020). Si prevede che circa il 66% dell’intero importo si focalizzerà in sette paesi (soprattutto in Indonesia, Malesia, Pakistan e Federazione Russa), mentre in altri l’impatto di questi finanziamenti supererà comunque il 30% del PIL (Cambogia, Timor, Mongolia, Armenia, Gibuti, Albania), innescando una vera e propria dipendenza economica (Hurley, Morris e Portelance, 2019).

Sviluppo di una struttura finanziaria cinese. Con l’esplosione della Grande Crisi, la Cina ha fatto passi decisivi in questo campo. Nel 2014, durante il IV Summit dei BRICS, ha costituito la Banca Asiatica d’Investimento per le infrastrutture (AIIB), a cui aderiscono 57 paesi (tra cui i principali UE, Israele e la Corea del Sud). Prima grande struttura internazionale nata dopo Bretton Woods, è evidente, se non esplicito, il suo ruolo antagonista rispetto a FMI e Banca Mondiale, al di là della sua azione diretta in supporto alla Road and Belt Initiative (Hameiri, e Jones, 2018). Inoltre, è da segnalare il processo di internazionalizzazione dello Yuan o Renminbi (RMB, la moneta cinese). Nell’ultimo decennio, infatti, ha progressivamente liberalizzato il suo uso e si è iniziata a porre come moneta di riferimento, in particolare nell’area asiatica (Rotblat, 2017; Mathews e Selden, 2018): nel 2005 è stato revocato il sistema di cambio fisso, nel 2007 sono stati emesse prime obbligazioni in RMB a Hong Kong; nel 2008 sono stati realizzati i primi scambi cross border in RMB; tra il 2009 ed il 2011 sono stati siglati 12 grandi accordi di swap (oltre 130 miliardi di dollari); nel 2013 a Shangai è stata creata la prima Zona di Libero Commercio in RMB; nel 2014 è stata creata la Shanghai–Hong Kong Stock Connect (SSE and HKEx), un canale privilegiato di connessione tra le due borse. Nel 2013 il RMB era l’ottava moneta al mondo, oggi è la quarta dopo dollaro, euro e sterlina, prima dello yen giapponese (dati Society for Worldwide Interbank Financial Telecommunication). La strada per arrivare a competere con gli Stati Uniti, comunque, è ancora molto lunga: per dare solo un dato, nel primo trimestre 2020 la quota di RMB nelle riserve valutarie globali è salita sopra al 2%, ancora infinitamente distante dagli altri poli imperialisti (oltre il 60% sono in dollari, circa il 20% in euro, il 5% in Yen; Minenna, 2020).

Tessitura di aree commerciali a egemonia cinese. La realizzazione da parte di Obama della TPP nel 2015 non è passata inosservata. Proprio in chiusura del 2020 la Cina ha compiuto un passo avanti verso una progressiva regionalizzazione delle economie asiatiche, siglando a metà novembre il Partenariato economico globale regionale (Rcep): si tratta del più grande accordo commerciale multilaterale al mondo, in grado di rivoluzionare la geopolitica della regione (ISPI, 2020). Il RCEP coinvolge i paesi dell’Asean più Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda [resta esclusa non casualmente l’India], un’area di 2,2 miliardi di persone che producono il 30% del Pil e il 27,4% del commercio globale. I paesi membri coprono il 50% della produzione manifatturiera globale, il 50% della produzione automobilistica e il 70% di quella elettronica. Il RCEP eliminerà tra l’85 e il 90% delle tariffe commerciali, anche se si esclude l’agricoltura e ci sono pochi i passi avanti nella definizione di standard comuni per i prodotti. Pechino potrebbe così non solo favorire i progetti infrastrutturali cinesi, ma soprattutto tracciare un mercato di riferimento per le sue tecnologie e le piattaforme tecnologiche (su cui oggi è aperto lo scontro con gli USA), a partire dal 5G o il sistema GPS Beido.

Infine, l’espansionismo in Africa. Al di là della Belt and Road Initiative (che tocca l’Africa orientale, a partire da Gibuti, il golfo di Aden e il Mar Rosso), è da sottolineare la particolare proiezione cinese sul continente. Le relazioni erano intense già prima dello sviluppo capitalistico cinese, nel quadro della decolonizzazione e della politica maoista di attenzione alle periferie del mondo. Questi rapporti non erano solo politici, ma anche economici, come dimostra la costruzione della ferrovia tra Tanzania e Zambia nel 1975. Un primo salto di qualità avvenne con l’ingresso della Cina nel mercato mondiale: Hu Jintao (allora segretario del PCC) inaugurò la politica del “Go Out” e iniziò a stringere accordi commerciali con diversi paesi africani, potendo da una parte contare su barriere di ingresso minori (rispetto i mercati europei o quelli nordamericani), dall’altra proporre minor condizioni da parte cinese rispetto USA o UE (D’Amaro e Savi, 2020). La crescita dell’esportazione di capitali cinesi dopo la Grande Crisi ha quindi interessato anche l’Africa (Bodomo, 2019; Lahtinen, 2018). Gli investimenti tra il 2008 ed il 2018 sono passati da 7,8 a 46 miliardi di dollari (infrastrutture, energia, estrazione, ma anche agricoltura con l’acquisizione di grandi estensione di terre), tra cui vi sono 54 progetti energetici e 236 progetti di trasporto (per un totale di circa 360 miliardi di dollari di investimenti entro il 2040). In Africa ci sono anche più di un milione di cinesi (che hanno seguito l’installarsi di aziende e progetti nel continente). Verso la Cina è poi diretto il 27% delle esportazioni africane (29% su Europa, 32% su USA; n+1, 2017), in particolare ferro e uranio, rame e diamanti, oro e petrolio. Diversi paesi africani hanno un preoccupante rapporto tra il proprio PIL e i prestiti cinesi, fenomeno che ha portato a coniare il termine trappola del debito (come fu negli anni ottanta e novanta verso FMI e Banca mondiale), a partire dall’Angola (Gentili, 2020). La proiezione cinese sembra quindi ricalcare le classiche politiche imperialiste (anche se non quelle direttamente colonialiste): debito, sfruttamento delle risorse, presenza dei capitali e di basi militari (Antwi-Boateng, 2017).

DESTINO DI UNA COMPENTIZIONE: L’IMPERIALISMO USA ALLO SPECCHIO

Leggendo queste pagine, si può aver avuto l’impressione di un destino segnato (l’aperto scontro tra imperialismi contrapposti). Nulla di più lontano dalle intenzioni dello scrivente. Con una battuta, riprendendo una famosa definizione di San Tommaso, le tendenze del capitalismo come gli astri inclinant non necessitant: predispongono, non determinano. Il mondo ha dimostrato innumerevoli volte di esser più verde, rigoglioso, interessante, imprevedibile e fantasioso di qualunque teoria. Se queste sono le tendenze e le dinamiche in gioco, la loro concreta interazione può determinare esiti diversi e persino opposti. In fondo, è la stessa evoluzione del capitalismo a ricordarcelo. Non è infatti la prima volta che emergono imperialismi concorrenti. Come ci insegna però il novecento, non sempre poi i conflitti si giocano fra i principali imperialismi in contrapposizione (basti considerare alla complessa relazione tra USA e Gran Bretagna nel corso della prima metà del novecento). Per rendersi conto delle possibilità in gioco, può esser allora in conclusione interessante vedere come gli Stati Uniti, l’imperialismo oggi dominante, vede i possibili futuri, a partire dal mondo dei suoi analisti (Paszak; 2020).

Alcuni mantengono, nonostante tutto, la previsione ottimistica di Nixon: lo sviluppo dell’Asia, la crescita economica, l’integrazione del mercato mondiale porteranno la Cina ad evitare precipitazioni e, anzi, permetteranno di rafforzare le buone relazioni tra Cina e USA (pur con ovvie differenze e occasionali tensioni). In primo luogo, un piccolo nucleo di analisti sottolinea le contraddizioni e gli sbilanciamenti della Cina (economici, politici e sociali), ritenendo quindi che i limiti interni allo sviluppo sventeranno qualunque minaccia competitiva (Shambaugh, 2013; Fenby, 2014). Una lettura che, con occhiali diversi, ricalca quella di diversi settori della sinistra politica, legata ancora a matrici antimperialiste focalizzate sull’egemonia USA, come a (sempre più marginali) settori stalinisti e neocampisti, che vedono ancora nella Cina un’economia socialista o comunque una formazione sociale in cui le forze capitaliste sono limitate e tenute sotto controllo dallo Stato  (contro ogni logica ed ogni evidenza, per non parlare di qualsivoglia lettura marxista). Un’analisi, purtroppo, presente anche in diversi ambienti centristi e persino comunisti rivoluzionari, che vedono ancora la Cina come area di conquista degli imperialismi dominanti, sostanzialmente sotto continua minaccia di esservi travolta e divisa (quasi come fosse l’Unione sovietica della fine degli anni novanta o la Cina dei primi del novecento). Wohlforth e Brooks (2016) sostengono invece che il divario di potere è così considerevole che l’egemonia USA sarà ancora costante per molti decenni (soprattutto sul piano tecnologico e militare). Altri analisti, invece, riprendendo l’illusione di Angell (1910) ritengono che la profonda interdipendenza economica tra la Cina, gli Stati Uniti e le altre economie rendano qualunque conflitto improbabile (Hveem e Pempel, 2016). In particolare, Ikenberry (2008), l’autore più noto del gruppo, ritiene che l’ascesa cinese ci sia (il momento unipolare degli Stati Uniti inevitabilmente terminerà), ma sarà la Cina ad esser alla fine integrata nell’attuale sistema liberale: in pieno solco nixoniano ritiene infatti che, in quanto principale beneficiario della crescita, la Cina non abbia alcun interesse a rimettere in discussione la dinamica degli ultimi decenni ed il paese sia destinato ad evolvere prima o poi in un sistema politico pienamente borghese.

Altri mostrano maggior realismo: riconoscono il deterioramento USA, ma allo stesso tempo sottolineano i limiti all’espansione cinese. Christensen (2015), ad esempio, riconosce che l’ascesa cinese rappresenta una sfida per gli interessi degli Stati Uniti, ma ritiene che alla fine sarà tenuta sotto controllo dal carattere inclusivo del sistema di regolazione internazionale sviluppato nel dopoguerra (e rinnovato dopo la crisi degli anni settanta), oltre che dalla deterrenza nucleare e dalla forza militare americana. Nye (2012) ritiene che la Cina non abbia ancora capacità egemonica a causa della sua fragilità finanziaria, di una scarsa influenza internazionale e di una ridotta sofisticazione economica: le potenziali azioni di bilanciamento USA, in particolare con India, Giappone e Australia potranno quindi facilmente contenerla. Art (2010), conducendo un’analisi storica dei diversi conflitti interimperialistici, ritiene che le variabili in gioco siano tre (sicurezza percepita, interdipendenza e contrapposizione ideologica): al fondo, però, l’esperienza sembra far prevalere il ruolo della sicurezza (per esempio Gran Bretagna e Germania nel 1914 avevano un’alta interdipendenza economica e una scarsa contrapposizione ideologica, ma la guerra esplose lo stesso). Per questo ritiene che gli USA debbano impegnarsi in particolare sulla sicurezza (supremazia marittima, arsenale nucleare e alleanze).

Infine, un ultimo gruppo mostra un deciso pessimismo. Al di là del già citato caso di Paul Kennedy (1989), che ha dato il via alla riflessione sul declino americano, questa corrente ha visto un rilancio negli anni duemila, con la progressiva erosione americana e la parallela ascesa cinese, per poi esplodere con l’elezione di Donald Trump (che l’ha resa prevalente nei documenti della sua amministrazione, come i già ricordati NSS-2017 e NDS-2018). Allison (2017), ad esempio, ricorda che la Cina ha superato gli USA come riserve valutarie, PIL misurato come PPA e volume delle esportazioni; inoltre richiama lo sviluppo da parte della Cina di classiche istituzioni di proiezione imperialista (come l’Asian Infrastructural Investment Bank, BRICS, Belt and Road Initiative). In questo quadro Allison richiama la famosa trappola di Tucidide (l’esempio storico delle antiche Atene e Sparta, con la tendenza di una nazione che si sente minacciata ad aprire il conflitto prima che la crescente potenza nemica lo renda sicuramente perdente): in 12 su 16 grandi transizioni storiche si sono infatti prodotti conflitti aperti fra le potenze. Mearsheimer (2014), padre del cosiddetto realismo offensivo ritiene che l’antagonismo sino-americano sarà molto difficile da evitare in futuro, anche se la Cina è ancora lontana dalla capacità militare per avviare una corsa all’egemonia regionale. Una visione simile è portata avanti da Robert Ross (2013), che ritiene che la Cina cercherà di raggiungere una posizione strategica dominante prima nelle sue acque prossimali (A2/AD) e poi in Asia orientale.

I timori di un imperialismo logorato. Al di là delle prime analisi, in ogni caso, questa breve rassegna mostra come l’avversione di Trump per la Cina non sia stata solo un’idiosincrasia personale e come non sia destinata a tramontare. Al di là di ogni lettura ideologica ed ogni falsa illusione, padroni e imperialisti sono sempre stati collettivamente consapevoli delle dinamiche in gioco: la guerra di classe, dal loro punto di vista, hanno sempre cercato di condurla non solo con determinazione, ma anche con lucidità. In campo americano cioè, diversamente dalla fine degli anni sessanta (in cui ci si allineava alla Cina comunista nella prospettiva di integrarla nella propria area di influenza economica), è ben chiara la percezione non solo dell’ascesa economica cinese, ma anche delle sue pulsioni e proiezioni imperialiste. La pandemia del 2020, con l’imponente recessione mondiale e l’accelerazione dei processi di regionalizzazione in aree commerciali e filiere produttive, non può che rappresentare un’ulteriore e deciso passo avanti in questa direzione. Tanto più che, a fronte di un crollo negli USA (-4,3% nel 2020; +3,1% in previsione nel 2021), abbiamo visto una sostanziale tenuta cinese (+2% nel 2020; + 8,2% in previsione nel 2021): una dinamica che rilancia la competizione con la previsione del CEBR che la Cina diventerà la prima economia al mondo entro il 2028 [cinque anni prima di quanto stimato].

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